La religiosità di Manzoni e il legame con il Giansenismo
LA RELIGIOSITÀ DI A. MANZONI Manzoni compie gli studi in collegio, in quello dei padri Somaschi (a Merate e Lugano) prima, in quello dei Barnabiti (Milano) poi. Ne esce disgustato e ribelle, insofferente e critico nei confronti della religione. È imbevuto di idee illuministiche (1801: Il trionfo della libertà, 1803/4: I sermoni, tra pariniani e alfieriani. Non dimentichiamo che l’ambiente familiare è illuministico: il nonno di Manzoni è Cesare Beccaria, la madre di Manzoni, donna Giulia, prima di recarsi a Parigi a convivere con l’Imbonati frequentava uno dei fratelli Verri). Il giovane Alessandro dimostra una straordinaria precocità nel versificare; ha solo 18 anni quando, fervido ammiratore del Monti, gli invia dei versi di stampo classicistico (Adda – idillio), che gli valgono l’elogio del poeta ormai cinquantenne. Ci sono però, in quegli anni, fermenti del rinnovamento romantico anche in Italia. A Milano, il giovane Manzoni frequenta il Lomonaco e soprattutto il Cuoco, fuggiti da Napoli dopo il fallimento della rivoluzione del 1799. Attraverso le conversazioni col Cuoco, lettore di Vico, Manzoni si apre all’interesse per la storia, che è storia di popoli; assimila concetti che resteranno basilari in lui: per liberarsi dallo straniero oppressore, un popolo deve raggiungere l’unità nell’approfondimento delle proprie tradizioni (tradizione è uguale a comunanza di usi, lingua, ideali). La libertà perciò si conquista e si conquista col lavoro e tale conquista si deve fondare sul senso di responsabilità di ciascuno, onde non disperdere le forze in inutili violenze (com’era successo a Napoli). Nel 1805, Manzoni raggiunge la madre a Parigi; frequenta i salotti parigini e conosce C. Fauriel, a cui resterà legato da vivissima amicizia. Compone il Carme In morte di C. Imbonati, che gli procura notorietà (è apprezzato anche dal Foscolo). Nel Carme, il compagno della madre gli appare come lo stoico campione di virtù democratiche. Nel 1809 compone l’Urania (poema che risente ancora dell’influsso del Monti, in cui la Musa scende a consolare Pindaro e gli rivela qual è lo scopo della poesia: quello di ingentilire i costumi degli uomini). Su queste prime composizioni torneremo poi. Basti qui dire che Manzoni già mostra di non sentirsi appagato da un’arte intesa come sfoggio di bravura, mero calligrafismo, ma avverte imperiosa la necessità di agganciare l’impegno letterario a un ideale etico. Nel 1808 aveva sposato Enrichetta Blondel, con rito calvinista; il matrimonio viene regolarizzato secondo il rito cattolico due anni dopo (1810). In questo periodo si pone la conversione, che determina un mutamento sostanziale in Manzoni uomo e in Manzoni artista. La conversione non fu improvvisa, ma piuttosto graduale, consentanea al suo carattere analitico, razionale. (Non sono attendibili le testimonianze che parlano d’una conversione fulminea. Episodio della chiesa di S. Rocco, in occasione del matrimonio di Napoleone con Maria Luisa). «Nei misteri della fede la ragione trova la spiegazione dei suoi propri misteri: come è nel sole, che non si lascia guardare, ma fa vedere» (Dell’invenzione). E ancora: «mistero di sapienza e misericordia… che la ragione non può penetrare, ma che tutta la occupa nell’ammirarlo» (Osservazioni sulla morale cattolica, VIII da ora OMC). Quello di Manzoni, è un «credo ut intelligam», il suo è lo sforzo continuo di spiegare razionalmente il reale alla luce della fede. L’esperienza religiosa è legata a un impegno di chiarificazione intellettuale ed etica; la fede, insomma, è strumento di conoscenza, apre un orizzonte di giudizio nuovo sul mondo, poiché, come egli stesso dice nella prefazione alle OMC, la religione «ha rivelato l’uomo all’uomo». Conviene soffermarsi a considerare la religiosità manzoniana poiché è solo a partire da essa che si può intendere appieno la poesia del Manzoni; dice il Sansone: «Il cristianesimo, come visione del mondo, è lo stato d’animo e la ragione lirica dei Promessi Sposi (e non la premessa ideale come vorrebbe il De Sanctis o un limite come dice il primo Croce)». Scrive in una lettera del 1828 a Diodata di Saluzzo: «L’evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta non mi sembrano intere, fondate, indiscusse, se non quando sono ricondotte ad essa, ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento deve trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro perciocché, scrivendo, si vorrebbe esser forti, e una tale forza non si trova che nella mia persuasione. Ma l’espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un’idea purtroppo falsa, l’idea d’una fede custodita sempre con amore, e in cui l’aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre questa fede io l’ho altre volte ripudiata, e contraddetta col pensiero, coi discorsi, con la condotta; e dappoiché, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita, troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei confessare di non sentirla mai così vivamente come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno non ho il proposito di ingannare. Dal timore di offendere (almeno colpevolmente) la religione, introducendola ne’ miei poveri lavori, mi rassicura la coscienza intima, non dico del mio rispetto per essa, ma dell’unica fiducia che ripongo in essa e nella Chiesa che l’insegna. Ma in ogni testimonianza che appunto mi si renda di ciò, sento, insieme con la lode, un rimprovero, e in una con la voce benevola mi par d’intenderne una severa che mi dice: A che tu vai ragionando delle mie ingiustizie?». In un’altra lettera dello stesso anno, indirizzata al Padre Cesari, afferma: «Qui, in materia di religione, c’è il mezzo di non errare in ciò che è necessario sapere: credere cioè quello che la Chiesa insegna; qui so che ho ragione di soscrivere in bianco, qui credo a chi ha un carattere unico di certezza nel conoscere e di veracità nell’insegnare, una promessa di infallibilità data da chi è solo infallibile per sé. Colla Chiesa dunque sono e voglio essere, in questo come in ogni altro oggetto di Fede; con la Chiesa voglio sentire, esplicitamente, dove conosco le sue decisioni; implicitamente, dove non le conosco: sono e voglio essere con la Chiesa, fin dove lo so, fin dove veggo, e oltre». N.B. – Sul cosiddetto giansenismo manzoniano, conviene fare qualche precisazione. È vero che dei due sacerdoti (il Degola e il Tosi) che seguirono Manzoni nel suo itinerario spirituale, il primo soprattutto era di tendenze giansenistiche. IL GIANSENISMO In campo religioso il fenomeno che pare dominare il XVTT secolo, e ancora più oltre, nelle sue propaggini italiane, fino a tutto il Settecento, fu sicuramente il giansenismo. Questo movimento prese il nome da Cornelio Giansenio, vescovo di Ypres (1585-1938) che , nella sua opera intitolata Augustinus (frutto di una vita di lavoro, ma pubblicata solo dopo la sua morte 1640), aveva ripreso il motivo agostiniano della grazie divina. Impostando la sua riflessione teologica su di una prospettiva antropologica impregnata dal pessimismo agostiniano (una prospettiva non dissimile da quella di Lutero), Giansenio insisteva sulla corruzione derivante dal peccato originale e sugli effetti della concupiscenza: l’uomo sarebbe libero di scegliere solo il male. Giansenio giungeva così a sostenere che l’uomo poteva essere salvato solo per i meriti di Gesù Cristo e in virtù di quella grazie di Dio concede gratuitamente e secondo un suo progetto di predestinazione, un progetto ignoto agli uomini e da essi non condizionabile. In campo morale, il pessimismo antropologico e la volontà, per chi spera di ricevere la grazie divina, di obbedire in tutto e per tutto ai comandamenti del Signore portavano a un’etica di estremo rigore, un’etica fermamente contraria a ogni compromesso possibile con il cosiddetto rispetto umano, cioè a ogni forma di adattamento alle abitudini, ai costumi e alle pratiche tipiche del proprio ceto sociale: questo compromesso, invece, caratterizzava tradizionalmente la prassi quotidiana dei confessori e dei fedeli cattolici con il risultato di rendere accettabili se non leciti comportamenti condannati all’insegnamento cattolico (come il duello o il cosiddetto “delitto d’onore)
fonte
doc.studenti.it