La resistibile ascesa del fachiro Hassan Mohamed (3)
NELLE PUNTATE PRECEDENTI.
Il 21 giugno 1926, il giovane fachiro egiziano, Hassan Mohamed, noto anche come Mohamed Aly e Hassan Hossin, arriva a Foggia, accompagnato da una campagna pubblicitaria che ne decanta le doti di guaritore e taumaturgo.
Qualche settimana prima, La Gazzetta del Mezzogiorno gli aveva dedicato un ampio articolo che decantava i suoi poteri.
La sua stanza all’Hotel Dauno viene letteralmente presa d’assalto da uomini e donne desiderosi di sperimentarli. Ben presto, però, Hassan colleziona un’impressionante serie di denunce per truffa. Il 26 giugno viene tratto in arresto.
Il Procuratore del Re lo rinvia a giudizio, citando quattordici «parti lese» e mettendolo sotto accusa «per truffe continuate, per aver vantato presso numerosi creduloni poteri occulti straordinari, promesse guarigioni di mali insanabili e raggiungimento d’impossibili intenti, mediante lauti compensi.»
Il fachiro comparve il 24 luglio 1926 davanti alla Terza Sezione del Tribunale di Foggia, presieduta dal cav. Feuli. L’aula era particolarmente affollata, sia per la curiosità che la vicenda aveva destato a livello locale, sia per essere finita agli onori della cronache nazionali.
Come abbiamo già detto nella puntata precedente, per capire lo strano processo che sto per raccontarvi è necessario immergersi nello spirito dell’epoca, che non condannava l’esoterismo e l’occultismo tout court, ma anzi, in qualche modo, li considerava degni di rispetto. È proprio su questa sottile linea di confine che si fronteggeranno le tesi accusatorie e quelle difensive.
L’imputato era difeso da un pool di avvocati di notevole calibro: l’avv. Giovanni Raho, l’on. Caradonna e l’on. Valentini.
Nessuna delle quattordici parti lese citate nel decreto di rinvio a giudizio si presentò a testimoniare in aula. Un’assenza eloquente, che potrebbe celare il disagio di esporsi pubblicamente, la vergogna di ammettere la propria credulità, o persino una tacita rassegnazione dopo aver compreso l’inanità delle promesse del fachiro. Fu così che, per l’accusa, parlò solo il capo della squadra mobile, il commissario Lopiano, il cui verbale fu l’unica voce a confermare le accuse in aula.
Dopo la lettura delle deposizioni rese agli inquirenti da quanti erano stati gabbati dal fachiro e dai testimoni, prese la parola il pubblico ministero, cav. Poli, che la prese da lontano sostenendo che nell’antichità l’occultismo e la magia avevano scritto una meravigliosa pagina, ma che successivamente avevano deviato dalla loro missione iniziale ed erano degenerati.
«Mentre i primi fachiri erano del sacerdoti, che non domandavano mai un compenso, ma si contentavano dell’offerta liberamente data a scopo di beneficenza, gli altri divinatori presero ad esercitare la loro arte a scopo esclusivo di lucro personale. Fra questi – tuonò Poli -, è da annoverarsi Hassan, che si è trasformato, per riuscire nel suo intento, a volta a volta in un don Giovanni e in un Dulcamara».
Il Pubblico Ministero chiese ai sensi dell’art.413 del Codice Penale vigente allora (il cosiddetto Codice Zanardelli) che puniva il reato di truffa, una pena decisamente severa: 2 anni e 4 mesi di reclusione e 7.000 lire di multa. Tanti, se si tiene conto che la pena massima prevista dal Codice per la truffa era allora di tre anni.
L’avv. Raho impostò la sua linea difensiva sostenendo che l’arte divinatoria dei fachiri non costituisce reato dal punto di vista giuridico e ancor meno da quello etico e sociale.
Per dare un’idea del clamore suscitato dal processo, l’avv. Raho pubblicò qualche mese dopo l’arringa in un libello intitolato «Un mercante di sogni. In difesa del fachiro egiziano Mohamed Aly (Hassan Hossin)».
La tesi del legale è sottile: non si tratta di truffa, ma della conseguenza del voler credere da parte delle persone. L’avvocato non si esime dal tirare in ballo finanche la religione, citando Lourdes e Padre Pio da Pietrelcina. «Che cos’è Lourdes? – si chiede – Pei credenti, una inestinguibile fonte di luce; per gli spiriti aridi, nient’altro che l’organizzazione per lo sfruttamento delle più temerarie speranze!». E, a proposito della fama raggiunta a livello nazionale dalla provincia di Foggia, afferma: «È la fama del fraticello di Pietrelcina, padre Pio, che qui richiama, d’ogni mare e d’ogni terra, folle intere a mirare schiere di gobbi raddrizzantisi per incanto, arti di paralitici impiegati di colpo in duri cimenti sportivi ed occhi nati senza luce subitamente miranti il prodigio solare…»
Dello stesso tenore le arringhe pronunciate dagli altri legali. L’on. Caradonna, difese la buona fede dell’imputato e la convinzione profonda della sua arte, rievocando «le famose arti magiche della contessa Aurelia» (era una veggente esoterica piuttosto famosa all’epoca, che scriveva libri di profezie, n.d.r.) e concludendo che il fachiro non operava per lucro ma «esercitava una professione che finora il governo italiano non ha smentita, né impedita».
Anche l’on. Valentini si richiamò alla «gloriosa tradizione ebraica e tutte le arti magiche dei Romani e dei Greci» sostenendo l’inesistenza del reato e ha ricordando altri importanti episodi di arte divinatoria.
Di qui la richiesta di assoluzione avanzata dal collegio difensivo.
Ma il vero colpo di teatro vide protagonista proprio lui, il fachiro che durante l’arringa sfoderò uno spillone con cui si trapassò le guance, che poi esibì impassibile ai giudici e al pubblico, sbalordendoli.
Per quanto ardita, la tesi difensiva venne parzialmente accolta dai giudici. La sentenza pronunciata dal magistrato fu infatti decisamente mite rispetto alla richiesta formulata dal P.M.: il Tribunale riconobbe il fachiro colpevole di truffa e lo condannò a 3 mesi e 15 giorni di reclusione, con il beneficio della condizionale, e al pagamento di 150 lire di multa, ordinando la sua immediata scarcerazione.
Finisce così la «resistibile ascesa» del nostro fachiro? Neanche per sogno. Lo scoprirete alla quarta, ed ultima puntata.
Geppe Inserra
(3. Continua)
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