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La retorica del 25 aprile di Nicola Zitara

Posted by on Apr 24, 2023

La retorica del 25 aprile di Nicola Zitara

Il pane che mangiamo non ci viene dalla Toscopadana, ma è frutto del nostro lavoro, del lavoro dei nostri padri e madri, e in termini politici della nostra schiavitù. Non è nostro, invece, il 25 aprile, il giorno in cui i tedeschi, che occupvno la Padana,  chiesero la resa alle forze angloamericane che li avevano sconfitti.

Fra i combattenti antinazisti c’erano anche i partigiani toscopadani, fra cui qualche meridionale che, tagliato fuori dal suo paese, a causa del fronte di Cassino, si era dato alla macchia per sottrarsi alla deportazione in Germania. Ma ciò non basta a fare nostro il 25 aprile. Solo il servilismo e un’insulsa retorica può farcelo celebrare come nostro.

Certo servilismo. Infatti, soltanto questo può spiegare come la stessa cosa fatta dalle popolazioni meridionali contro gli invasori e saccheggiatori francesi, prima, e poi contro gli invasori e saccheggiatori sabaudi,  debba chiamarsi brigantaggio, e perché Frabrizio Ruffo, uno degli uomini migliori e dei più abili condottieri che il Sud abbia mai prodotto non debba avere i riconoscimenti che ottiene un bullo resistenziale del tipo Giorgio Bocca..

C’era una  data, il 4 novembre,  che gli italiani e gli italici celebravano assieme giustamente,  perché il sangue dei meridionali e dei toscopadani si era mescolato per gli stessi rivoli di morte sulle giogaie alpine, per difendere Milano e Venezia da un ritorno del tallone tedesco e riportare alla Padana le terre trentine e giuliane, e le belle città di Trento e Trieste.

Era  il giorno che celebrava il dono che i contadini meridionali avevano fatto alla patria, da cui speravano un riconoscimento egualitario. Ma la celebrazione è stata retrocessa nel calendario delle festività nazionali in posizione secondaria. I marmorei monumenti ai caduti, obolo dei superstiti al ricordo dell’immane carneficina, troneggiano ancora su ogni piazza d’Italia a simboleggiare un passato senza ricordo. Prima o poi un qualche ministro bossista li farà rimuovere, in quanto non appartenenti al comune sentire.

E a ragione. Infatti il sogno mazziniano di fare l’Italia-una, con Roma capitale a saldare i due tronconi, se vitalità aveva avuto nell’olocausto delle plebi in grigioverde, si spense nel 1943, allorché gli angloamericani furono bloccati nella loro avanzata un centinaio di chilometri a nord di Napoli. Il Sud ebbe la sua liberazione due anni prima, mentre la Toscopadana pativa mille sofferenze umane e familiari.

Fu la dura esperienza della guerra civile che portò i padani a ripudiare le basi ideologiche dello stato sabaudo su cui avevano organizzato lo stato nazionale e con cui  aveva assoggettato il Sud nel 1860, e le stesse basi ideologiche del fascismo, con cui avevano rinsaldato il sistema padanista dopo il Biennio rosso.

Repubblica, Democrazia, Resistenza, Bella ciao. Il 25 aprile del 1945 inaugura la nuova dittatura di Milano sul paese. Riccardo Lombardi, un socialista catanese che è il prefetto politico di Milano, fa e disfà i governi romani del Comitato di Liberazione Nazionale. Neanche la favolosa rimonta democristiana, due anni dopo, porta al riequilibrio il paese diviso e scompaginato. Il ministro del tesoro, Einaudi, spinge ogni briciola delle risorse nazionali verso la Padana da ricostruire.

Gli operai di Milano e di Torino hanno nuovamente il loro lavoro, quelli di Napoli cantano alla luna. Lo stato finanzia i mezzadri rossi dell’Emilia e della Romagna, mentre  le regioni che restano fuori del giro resistenziale, partendo dal Triveneto e scendendo attraverso le Marche e il Lazio fino al Sud, spalancano i confini alla fuga di una parte considerevole della loro popolazione.

Un dualismo nazionale di tale portata è possibile soltanto se la retorica è disseminata in ogni ganglio della società civile. La nefasta opera dei maestri elementari, già sperimentata con Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele e Mussolini, viene rimessa in opera a favore della Resistenza.

La Toscopadana torna a trionfare, mentre il Sud, una botta dopo l’altra, cade in ginocchio e sputa sangue dalla bocca. Ormai, a sua difesa non ha più neppure l’umile lavoro del contadino, la sua fame, e meno che mai il prodigioso monopolio mondiale delle produzioni agrumarie.

Certo il Sud serve tuttora alla Padana  come massa di consumatori, come fruitore e finanziatore di valuta estera fift fift con il banchiere, che sfrutta la sua miracolosa capacità di narcotrafficare, nonché come produttore di truppa di pronto impiego, di carabinieri, di giudici e commissari di polizia. E se qualche volta il paese vacilla perché ha subodorato l’inganno resistenziale, la presa per i fondelli si affina e arriva qualcuno a sventolare il tricolore e a intonare l’inno di Mameli.

Non sono un moralista, ma soltanto un uomo di questa terra che, essendo vissuto a lungo, ha visto inganni e dolori. Tutte le nazioni antiche e moderne – dall’Egitto dei faraoni agli odierni Stati Uniti d’America – hanno sofferto e soffrono dei mali di cui ho fatto soltanto un breve elenco emozionale. Però non è scritto da nessuna parte che gli uomini elevati a cittadini debbano essere dei “coglioni”, secondo l’efficace definizione di un milanese che non traligna dalla migliore antropologia ambrosiana. Bossi no, in verità. Fa, infatti, leghe e leghisti a Catania e periferia calabrese.

La lotta politica prevede i ribelli, gli scontenti, i delusi, gli avversari; la lotta per la libertà contempla la rivolta, l’insurrezione, la rivoluzione. Da nessuna parte è scritto che le popolazioni meridionali, casomai volessero una o l’altra di dette cose, debbano chiedere la benedizione del cardinale di Milano, l’assenso del segretario della CGIL e dell’acrobatico incassatore di beffe berlusconiane, D’Alema, nonché il parere di Eugenio Scalfari e il placet di Alberto, Filippo, Carlo, Luca Maria Cordero di Monteprezzemolo.

Se il simpatico Bertinotti s’impappina in contorsioni riformistiche e si avvinghia in danze tarantolate per farsi accettare dai manager al servizio della famiglia Agnelli, dovremmo pur poter ridacchiare – e non perché la cosa è un inestetismo, ma  perché le non celestiali parabole del riformismo padano sono ammirevolmente  divertenti.

Il Meridione emunto è un paese che rappresenta ancora un terzo della popolazione dello stato. In detto emunto paese,  un terzo della popolazione non ha mai visto un lavoro. Cosa mai ci può importare se la Fiat chiude o resta aperta, quando, nonostante il dato relativo alla nostra disoccupazione, il governo si adopera a stuzzicare gli extracomunitari ad approdare sulle nostre amate sponde?

E ancora: la domenica di Pasqua, due illustri giornalisti e commentari di ‘la Repubblica’, Alberto Statera e Ilvo Diamanti, hanno spiegato a Prodi e a tutta la sinistra che le più illustri regioni padane, le più nobili terre d’Italia, hanno votato a maggioranza Berlusconi perché lì la gente ha temuto che la  sinistra al governo  potesse tassare le case e le rendite finanziarie (Bot e depositi bancari). I due, con il fazzoletto in mano, hanno invitato Prodi e il suo futuro governo a non dare un simile dispiacere alla parte più moderna e produttiva del paese.

Ovviamente l’interfaccia nascosta del discorso dice che a pagare saranno sempre i sudici Ciccio e Cola, magari attraverso un consistente aumento dell’IVA che, come imposta, quanto si è più ricchi tanto meno incide. La patria è in pericolo. Ma questa volta non ci chiede di mandare contadini in grigioverde a difendere le Alpi. Bastano le tasse.

Nicola Zitara

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