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La rivoluzione del 1848 nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Apr 13, 2021

La rivoluzione del 1848 nel Regno delle Due Sicilie

Dopo i contrasti, per questioni economiche, del 1840 tra il Regno delle Due Sicilie e il governo inglese, Ferdinando II si isolò rafforzando il regime autoritario all’interno del suo regno. Così il 25 luglio del 1844 fece fucilare i ribelli fratelli Bandiera e altri sette compagni nel vallone di Rovito, nei pressi di Cosenza.

La carestia causata dalla crisi agraria del 1846-47 generò in tutta l’Europa una caduta della domanda dei beni di consumo che incise negativamente anche sul settore industriale. Iniziarono di conseguenza una serie di moti rivoluzionari contro i regimi assolutisti, eredi dei moti del  1820-21 e del  1830-31, che sconvolsero l’Europa. Nel Regno delle Due Sicilie le proteste si tramutarono in ribellioni, sia per la carestia e sia per il temperamento conservatore del re. In Sicilia le proteste culminarono in moti popolari con requisiti d’indipendenza. Ferdinando II concesse subito la nuova Costituzione, redatta intenzionalmente dal liberale moderato  e giurista Francesco Paolo Bozzelli. Il 28 gennaio 1848 il duca di Serracapriola Nicola Maresca, nominato presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli affari esteri, avrebbe dovuto provvedere alla promulgazione delle leggi per l’applicazione della nuova Costituzione. Forse per negligenza o forse per aver sottovalutato la situazione politica interna del Regno, promulgò soltanto due leggi: quella elettorale e quella sulla guardia nazionale, dimenticandosi quella relativa alla disciplina della  libertà di stampa. Di conseguenza il 27 marzo il popolo siciliano dichiarò decaduto re Ferdinando II, nonostante avesse concesso tramite l’art. 87 della Costituzione, l’autonomia all’Isola. L’opinione pubblica liberale del regno, convinta che i ministri non fossero capaci di gestire la grave crisi chiese, facendo pressione sul re, il loro licenziamento. Ferdinando II decise invece per un rimpasto di governo. Come ministro della giustizia fu chiamato Aurelio Saliceti, uno degli esponenti radicali più famosi di quel periodo e tra i primi affiliati alla Giovane Italia. Il nuovo ministro propose un programma di governo in quattro punti:

1) Abolizione della camera dei Pari, i cui membri erano nominati a vita dal re, giudicata dai liberali troppo legata agli interessi del sovrano;

2) Pieni poteri alla camera dei deputati per cambiare la Costituzione;

3) Modifica radicale della legge elettorale;

4) Invio di truppe sulla linea del Po in aiuto del Piemonte. Ferdinando II, che aveva concesso la nuova Costituzione per pacificare e stabilizzare la situazione politica interna, si rifiutò di sottoscrivere il programma del suo ministro e consapevole di nuovi disordini politici licenziò il Saliceti e tutti i ministri.

Formò quindi un nuovo governo guidato dal neoguelfo Carlo Troya, composto principalmente da liberali moderati, i quali stilarono un programma meno radicale di quello del Saliceti, in dieci articoli. Il programma costituzionale stabiliva pure la partecipazione del Regno delle Due Sicilie alla guerra d’indipendenza. Il 18 aprile si tennero le elezioni e alla vigilia della cerimonia d’apertura del Parlamento del 15 maggio i deputati già presenti a Napoli si raccolsero in seduta preparatoria, sotto la presidenza di Luca de Samuele Cagnazzi. Il primo argomento posto in discussione all’ordine del giorno fu la formula di giuramento alla Costituzione. Dopo un acceso confronto si decise di modificare il testo scritto da Ferdinando II. La modifica fu accettata dal ministro ma non dal re che trasmise alla camera la formula di giuramento iniziale: “Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità e onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro d’essere fedele alla Costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d’accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari”. Contemporaneamente si diffuse la falsa notizia che alcune truppe regie si trovavano nei pressi del Parlamento. Così, i deputati radicali iniziarono, con l’aiuto di un molti cittadini, la costruzione di diverse barricate. Le fazioni più estremiste dei rivoltosi fecero sapere al ministro che avrebbero tolto le barricate purché Ferdinando II avesse allontanato le truppe a trenta miglia dalla capitale, consegnato le fortezze cittadine alla guardia nazionale e accettato, senza riserve, la prima formula di giuramento. Dopo che il re respinse le loro richieste i ministri radicali diedero le dimissioni. Alle undici del 15 maggio una fucilata presso la chiesa di S. Ferdinando fu il segnale d’inizio della rivolta. Le artiglierie cominciarono a bombardare le fortezze, le cannonate distrussero diciassette barricate innalzate in via Toledo e in altre strade limitrofe. Le truppe mercenarie svizzere e quelle regolari napoletane, protette dai cannoni dei forti e affiancate da alcune batterie da campagna, diedero l’assalto alle barricate espugnandole una dopo l’altra. Nella tarda serata del 15 la resistenza dei liberali cessò. Terminata la battaglia il re comunicò ai deputati il decreto di scioglimento dell’assemblea. Il giorno successivo, il Sovrano formò un nuovo governo, ordinò lo scioglimento della guardia nazionale della capitale, decretò lo stato d’assedio e istituì una commissione d’inchiesta sui reati commessi contro la sicurezza dello Stato dal 10 maggio in poi. Il 24 maggio furono indetti i comizi elettorali. Il nuovo governo costituzionale, guidato da Gennaro Spinelli, principe di Cariati e marchese di Fuscado, modificò nuovamente la legge elettorale per accontentare i liberali più radicali. Nella nuova camera, però, un gruppo di deputati continuò a protestare nei confronti di Ferdinando II per aver sciolto la precedente camera. Alla fine del mese di marzo del 1849 il re offrì alla Sicilia, per porre termine alla secessione, una Costituzione diversa, con un parlamento separato e l’amnistia per i reati politici. Tutto ciò non bastò ai siciliani che, per bocca del loro capo Ruggero Settimo, respinsero le proposte del re. Il sovrano allora fece intervenire le truppe per sedare le ribellioni. L’epicentro della guerra fu Messina, assediata dalle truppe borboniche e semidistrutta dopo una serie di bombardamenti durati diversi mesi; l’assedio di Messina con la battaglia di Palermo del 15 gennaio valsero al sovrano l’appellativo di “re bomba”. Il 15 maggio 1849 le truppe regie, dopo numerosi successi, entrarono a Palermo ponendo così fine alla secessione dell’Isola. Le vicende di Napoli del 15 maggio 1848 causarono fermenti anche in Calabria, dove si costituirono dei comitati spontanei di pubblica sicurezza. A Cosenza si formò un governo provvisorio, con a capo i Deputati Raffaele Valentino, Giuseppe Ricciardi, Domenico Mauro ed Eugenio De Riso, che pubblicarono un manifesto dal testo: “I gravi fatti di Napoli del 15 maggio e gli atti distruttivi di quella Costituzione hanno rotto ogni patto fra il principe e il popolo. Noi però, vostri rappresentanti, capi del movimento delle Calabrie, rafforzati dallo spontaneo soccorso dei nostri generosi fratelli della Sicilia, rincuorati dall’unanime grido d’indignazione e di sdegno che si è levato contro il pessimo dei governi, nonché nelle altre province nell’Italia tutta; certi d’essere interpreti fedeli del pubblico voto; memori della solenne promessa fatta dai dimissionari parlamentari nella loro nobile protesta del 15 maggio di riunirsi nuovamente, crediamo debito nostro invitare i nostri colleghi a convenire il 15 giugno a Cosenza per riprendere le deliberazioni interrotte a Napoli dalla forza brutale, e porre sotto l’egida dell’Assemblea nazionale i sacri diritti del popolo napoletano. Mandatari della Nazione, chiamiamo intorno a noi, e invochiamo a sostegno della libertà nazionale la fede e lo zelo delle milizie civili; le quali nel sostenere in modo efficace la santa causa, a tutelare la quale siamo stati forzati a ricorrere alla suprema ragione delle armi, sapranno mantenere la sicurezza dei cittadini e il rispetto alle proprietà, senza di cui non ci può essere libertà vera”. La Sicilia rispose all’appello dei Calabresi inviando, il 12 giugno, da Milazzo un corpo di seicento uomini con una batteria da campagna al comando del Colonnello Giacomo Longo e del generale Ignazio Riboti. Arrivati a Cosenza presero sotto di loro quelle poche migliaia di uomini che erano state raccolte nella regione. Ribotti fu nominato capo supremo di tutte le forze degli insorti. Il Governo, per reprimere l’insurrezione calabrese, inviò tre corpi armati: il primo, composto di quattromila uomini, al comando del Generale Ferdinando Nuziante sbarcò a Pizzo, ma prima di arrivare a Cosenza fu attaccato nei pressi del fiume Angitola da diversi ribelli, ben appostati e protetti dalla vegetazione, provenienti da Filadelfia; poi, nei pressi del ponte del fiume delle Grazie, da oltre venti ribelli provenienti da S. Biase che costrinsero i militari borbonici a fare ritorno a Pizzo. Durante gli scontri il generale Nunziante ebbe oltre 600 uomini fuori combattimento, tra morti e feriti, contro i 10 tra i ribelli. Il secondo corpo d’armata, di duemila uomini, agli ordini del Brigadiere Carlo Busacca sbarcò a Sapri dirigendosi verso Castrovillari, dove si unì con il terzo corpo di duemila soldati guidati dal Brigadiere Ferdinando Lanza. I ribelli, pur prodigandosi al massimo, si trovarono in grossa difficoltà a causa del loro numero esiguo. Così, il generale Ribotti chiese al Nunziante, tramite il vescovo di Nicastro, la concessione di potersi ritirare in Sicilia; il generale borbonico rispose che l’unica soluzione era la resa. I ribelli siciliani inizialmente riuscirono a fuggire, poi furono catturati e trasferiti a Napoli, dove restarono in carcere per diversi anni. La crisi costituzionale del Regno delle Due Sicilie si aggravò dopo che il ministro delle finanze presentò la legge tributaria senza il preventivo parere della camera, com’era previsto dall’art. 38 della nuova Costituzione. Dopo le proteste di alcuni deputati, Ferdinando II sciolse la camera e indisse nuove elezioni. Il re licenziò il governo e nominò presidente del nuovo consiglio e ministro delle finanze il lucano Giustino Fortunato. In questo clima di tensione la Costituzione fu sospesa su richiesta di molti sindaci che la ritenevano una fonte di disordine, ma non abrogata. Fallì così il primo esperimento costituzionale italiano.

Francesco Antonio Cefalì

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