Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La rivoluzione Mas’ Aniello (dal 7 al 17 luglio1647)

Posted by on Set 19, 2021

La rivoluzione Mas’ Aniello (dal 7 al 17 luglio1647)

Nel 1646, Napoli era divisa in 6 piazze, dette Sedili,[1] cinque dei nobili ed una popolare: Nido (o Nilo), Capuana, Montagna, Porto, Portanova e del Popolo. A quel tempo la città aveva circa 250.000 abitanti ed era divisa in 29 quartieri detti ottine; ogni ottina era rappresentata da un capitano, che fungeva da mediatore tra il viceré e il popolo. I capitani delle ottine erano scelti dal re, gli Eletti, che rappresentavano i Sedili, erano scelti direttamente dal popolo.

Nel Parlamento[2] napoletano, convocato dal Viceré in San Lorenzo il 14 settembre 1643, fu stabilito di fare al Re Filippo IV un donativo[3] di undici milioni di ducati,[4] da pagarsi nello spazio di sette anni, per sostenere le spese dell’esercito presente in tutto il regno. Poiché, per la grande povertà del popolo napoletano, fu difficile prendere annualmente circa un milione e mezzo di ducati, nel 1645 il viceré Almirante decise di mettere una nuova tassa sulle pigioni (l’affitto) delle case di Napoli e dei villaggi vicini, per raccogliere altri 600.000 ducati. I Napoletani protestarono con forza contro questa nuova tassa e il viceré per impedire una rivolta popolare fu costretto a toglierla. Per questa sua decisione fu sostituito dal Duca d’Arcos, che il Governo di Spagna ritenne fosse più forte e risoluto nel riscuotere i tributi. Il nuovo viceré entrò a Napoli il 18 febbraio 1646, riunì nuovamente i rappresentanti delle piazze e con destrezza riuscì ad ottenere per le necessità del Re un donativo di un milione di ducati. Poiché erano state già aumentate le imposte sulla seta, sul sale, sull’olio, sull’orzo, sulla farina, sulla carne, sui salumi e sul grano, e altre erano state messe sulla calce, sulle carte da gioco, sulle stoffe, sull’oro e sull’argento, Don Carlo Spinelli e l’Eletto Nauclerio[5] proposero una tassa sulla frutta. Qualcuno, ricordando gli eventi passati, mise in guardia il Viceré dicendo: «Duca, badate bene a quello che state per fare; questa tassa, più di ogni altra, è odiata dal popolo perché grava (pesa) tutta sulla povera gente che, in una città molto calda come è Napoli, si nutre quasi esclusivamente di frutta e di pane, soprattutto durante l’estate! Spingere la gente alla disperazione non è mai stata una saggia decisione; aumentate le altre gabelle, che essendo tante vi daranno la stessa somma desiderata, ma non mettete una tassa sulla frutta, perché da essa nasceranno solo malcontenti e minacce»!  Il viceré non ascoltò il saggio suggerimento e il 3 gennaio dell’anno successivo pose un’imposta di cinque carlini[6] per cantàro[7] sopra i frutti d’estate, e dieci sopra quelli d’inverno. Ecco il bando.

Рer l’esazione[8] della Gabella de’ frutti ripigliata[9] per questa fidelissima Cïttà di Napoli in conformità delle conclusioni dell’illustri Deputati dell’illustri Piazze di questa fedelissima Сittà.

Dalli frutti, che si vendono communemente à cantàro, e a rotolo,[10] dal primo di Maggio di ciaschedun’anno, per tutto il mese di Ottobre, carlini cinque per cantàro, e dal primo di Novembre per tutto Aprile, carlini dieci per cantàro.

Dalli frutti secchi in ogni tempo, eccetto le amendole (mandorle), carlini cinque per cantàro.

Dalli melloni, così  di pane, come d’acqua, per ogni salma[11] di cavallo, ò di mulo, un carlino; per ogni salma di animal somarino grana sette e mezzo, per ogni carro, carlini cinque.

Dalli frutti che si vendono a tumulo,[12] come sono noccelle, e castagne verdi, e infornate, noci, ghiande, e cerriy grana dodeci per túmulo.

Dalle olive verdi, grana dodeci per tumulo, e dalle bianche, e negre conciate, carlini due per tumulo, e dall’infornate, grana vintiquattro per tumulo.

Dalle olive grosse di Spagna, ò altri luoghi, che vengono conciate dentro lancelle, e barrilotti, la decima.

Dalli frutti, che si vendono à conto (a pezzo), cioè pigne, granate, e cotogna, per ogni dieci, un  tornese.[13]

Dall’agrume d’ogni sorte, la décima. Declarandosi, che le fave, piselli, fasoli verdi, carcioffole, cocozze d’ogni sorte, molignane, agli, cipolle, citroli, cocumberi, mortelle, chiappari, legumi, e marzulli d’ogni sorte, non hanno da star sogetti à diritto alcuno di gabella, mà restano come stanno al prefente.

E più si dichiara, che quando alcuno Cittadino per suo servizio, e uso portarà, ò farà portare frutti verdi da rotola quattro à basso, non ha da pagare cosa alcuna; Avertendosi però, che ciascheduna barca, portando più di quattro sportelle per barcata di peso di rotola quattro per ciascheduna, e con bestie, due dello stesso peso, non se li ammette la franchigia, eccetto per il detto numero, con che vadino a diverse persone Cittadine per uso lavoro, e il detto uso delle dette rotola quattro, non si permetta, se non si portorà dallo stesso Cittadino, ò suo creato, escludendosi espressamente Giardinieri e Ortolani.

Datum Neapoli die 3. Lanuary 1647.

(firmato) Carlo Brancaccio[14].

Uno dei luoghi più importanti di Napoli era a quel tempo la piazza del mercato, dove contadini e commercianti provenienti da ogni parte vendevano i loro prodotti. Prima della venuta di Carlo d’Angiò questo luogo era uno spazio aperto fuori le mura della città, dove alcuni frati carmelitani avevano costruito una chiesetta dedicata alla Madonna del Carmine. Per la prima volta nel 1268, in quest’area pianeggiante, su un tavolato di legno molto alto fu decapitato il giovane Corradino di Svevia e suo cugino. Alcuni anni dopo, Carlo II d’Angiò prolungò le mura della città e rinchiuse al suo interno questo grande spazio aperto e la chiesa del Carmine. Lungo le sue mura interne furono costruite molte botteghe e due volte a settimana in questa nuova piazza si teneva il mercato. Il perimetro intorno alle botteghe fu pavimentato con lastre di pietra vulcanica, il centro rimase di terra battuta e con le piogge si formavano molte pozzanghere. Nei giorni di mercato la piazza si riempiva di bancarelle, contadini, popolani, pescivendoli, commercianti di ogni tipo e animali domestici in attesa di essere venduti: maiali, pecore, polli e altro.

Ora, avvenne che domenica 7 luglio 1647 molti contadini provenienti con una gran quantità di fichi dalla città di Pozzuoli discutevano animosamente in questa piazza con i gabellieri[15] e i venditori, che si rifiutavano di pagare la tassa sui frutti della terra. Fu chiamato l’Eletto del popolo Naclerio Andrea per risolvere la questione ma non riuscì a convincere i compratori a pagare la gabella. I Pozzuolani, dopo molte ore passate a discutere, visto che i fichi si andavano marcendo, non sperando più di poterli vendere e ottenerne un guadagno si «accesero di tanto sdegno che aperte alcune ceste di fichi incominciarono rabbiosamente a buttarli per terra» dicendo che era meglio calpestarli con i loro piedi piuttosto che pagare la tassa. Ciò visto, l’Eletto del popolo, offeso dal comportamento dei contadini, ordinò che fosse chiamato il Capitan della guardia per carcerarli e punire non solo l’offesa fatta alla sua persona, ma perché una tale arroganza non fosse d’esempio agli altri. Un gran numero di ragazzi guidati da Masaniello, scalzi, laceri e affamati si precipitarono sui fichi caduti a terra e cominciarono a mangiarli, poi visto l’ordine dato del­l’Eletto Andrea iniziarono a tirargli i fichi in faccia caricandolo di ingiurie e accusandolo di essere la causa dei loro mali. L’eletto, visto il mal partito, fingendo di non sentirsi offeso, mestamente si allontanò dalla piazza e si nascose nella chiesa del Carmine, da dove con l’aiuto di alcuni amici riuscì a fuggire. Intanto la piazza si era riempita di gente accorsa ad assistere alla discussione. Tommaso Agnello detto Aniello[16] di origine amalfitana, soprannominato Masaniello, che non aspettava altro per intervenire, cominciò a gridare: «Niente gabelle, morte al mal governo, viva il re di Spagna», e tutti nella piazza si misero a gridare: «Morte al mal governo, viva il re di Spagna». Masaniello entrò nella baracca di legno, dove si pagava la gabella sulla frutta, che stava nella medesima piazza, strappò i libri contabili in piccolissimi pezzi e le diede fuoco riducendola in cenere.

Il popolo, esasperato dalla povertà e dalla miseria in cui viveva da più di un secolo per le continue richieste di denaro fatte dai Re di Spagna per sostenere le continue guerre intraprese, e dalle prepotenze dei nobili e dei gabellieri, trovò in Masaniello il suo capo ardimentoso.

Descrizione: 57_Masaniello.bmpMasaniello era un pescivendolo tanto povero che spesso era costretto a vendere al mercato la carta con la quale si usava a quel tempo avvolgere il pesce. «Era un giovine di ventisette anni, d’aspetto bello e grazioso, il viso abbronzato e alquanto arso dal sole: l’occhio nero, i capelli biondi, i quali disposti in vago zazzerino[17] gli scendevano giù per il collo. Vestiva alla marinaresca ma d’una foggia sua propria (di una forma particolare)». Sentiva un profondo odio contro i governanti e i gabellieri[18] perché era stato costretto a vendere buona parte delle sue povere masserizie[19] per poter liberare la giovane moglie dalla prigione, sorpresa mentre di nascosto introduceva in città una calza ripiena di farina, avvolta in un tovagliolo e posta nelle braccia come un bambino tra le fasce.

Dopo aver dato fuoco alla baracca dei gabellieri, Masaniello e un gran numero di lazzari, persone povere, scalze e mal vestite, andarono dal viceré per chiedere l’abolizione della gabella sulla frutta. Entrarono a gran voce e con gran fracasso nel palazzo reale, ruppero le porte e cominciarono a buttare dai balconi tutto ciò che di prezioso trovarono nelle stanze. Il viceré temendo la folla minacciosa salì su una carrozza per fuggire a Castel Nuovo ma sorpreso da alcuni popolani si giustificò dicendo che andava a piazza mercato per abolire la gabella. Dopo due ore d’attesa, i ribelli non vedendo tornare il viceré, infuriati lasciarono il palazzo e assalirono la prigione di San Giacomo degli Spagnoli. Liberarono i prigionieri e distrussero tutti i libri e le carte d’archivio. Disperati e al limite della sopportazione, per tutta la notte percorsero le strade di Napoli dando fuoco alle case dei ricchi gabellieri. Bruciarono gli uffici della Gabella del pesce e quella del sale, uccisero barbaramente molti uomini ritenuti responsabili delle gabelle ed esposero nella piazza del mercato le loro teste tagliate, infilzate sulle picche[20].

Il giorno seguente, lunedì 8 luglio, i lazzari assalirono e distrussero i palazzi degli uomini più influenti della città, che si erano arricchiti con le tasse dei poveri. Bruciarono la casa dell’Eletto Nauclerio, il quale prevedendo il pericolo aveva già svuotato la sua casa di ogni cosa preziosa e si era rifugiato nel Castel Nuovo; i ribelli trovando la casa semivuota distrussero il suo giardino pieno di piante rare e pregiate, con bellissimi fiori e fontane da far invidia al giardino del re. Bruciarono poi la casa di Alfonso Valenza, che si era arricchito vendendo farina. Invasero e bruciarono la casa di Girolamo Letizia, «un uomo senza misericordia, che non perdonava in alcun modo a chi entrando nella città con un poco di farina o con due pagnotte di pane non ne avesse pagato prima la tassa corrispondente». Letizia era il gabelliere della farina, che aveva preteso da Masaniello 100 scudi per liberare la moglie dalla prigione. I rivoltosi comandati da Masaniello circondarono la sua casa, sfondarono la porta con mazze di ferro, penetrarono nel palazzo e buttarono dalle finestre tutto ciò che conteneva: magnifici arazzi, ricche tende di seta e di oro, mobili di ebano intarsiati d’argento e d’avorio, quadri di pittori famosi, recipienti e stoviglie d’argento. Tutto lanciarono dalle finestre e gettarono in un gran fuoco acceso nella strada. Fu così che per l’avidità di danaro, Girolamo Letizia perse la casa e anche la vita, e la sua testa fu esposta sulla punta di una picca nella piazza del mercato. Il popolo uccise tutte le persone che riteneva responsabili della sua povertà e bruciò i loro palazzi, e coloro che tentarono di salvare le loro cose dal fuoco furono fatti impiccare da Masaniello senza pietà. 

Martedì 9 luglio, il duca di Maddaloni Don Diomede Carafa, detenuto in prigio­ne nel Castel di S. Elmo per aver commesso alcu­ni omicidi, fu liberato dal viceré affinché convincesse Masaniello a far cessare la rivolta. Verso mezzogiorno il duca andò a piazza mercato per leggere al popolo un biglietto del viceré, che diceva:

Philippus Dei gratia Dei etc.

D. Rodericus Ponze de Leon Dux civitatis de Arcos etc.

Vicerex , Locumtenens, et Capitaneus Generalis in praesenti Regno, etc.

Noi con privilegio concesso questo infrascritto giorno, sette del corrente, levamo tutte le gabelle et imposizioni poste dal tempo della felice memoria di Carlo V Imperatore fino ad oggi, con indulto di tutte le inquisizioni e delitti commessi[21].

Masaniello, ricordando le offese spesso ricevute dai parenti del duca quando portando il pesce in casa sua tante volte non gli era stato pagato ed era stato anche battuto, prese le briglie del cavallo e con parole offensive, afferrandolo per la capigliatura e facendolo smontare da cavallo, lo fece prigioniero e con le mani strettamente legate con una fune lo diede in custodia a Domenico Perrone. [22]  Diomede fu rinchiuso nella bottega di un calzolaio della piazza ma durante la notte il Perrone, un vecchio amico del duca fuggito dalla prigione di San Giacomo il giorno prima, dietro la promessa di una buona ricompensa l’aiutò a fuggire.  Dopo tanti incendi e uccisioni, il Cardinale Filomarino Arcivescovo di Napoli andò nella chiesa del Carmine, dove Masaniello non sapendo né scrivere e né leggere era guidato e consigliato da un vecchio sacerdote di nome Genovino[23] (o Genoino). Il Cardinale gli disse che il viceré avrebbe concesso ai Napoletani il privilegio scritto in lettere d’oro dall’imperatore Carlo V,[24] tanto richiesto da Masaniello e dal popolo, e che avrebbe cancellato tutte le nuove imposte.

Di fatto, nel 1539 l’imperatore Carlo V, avendo bisogno di molto denaro per sostenere le guerre intraprese contro i corsari turchi, aveva convocato i nobili di Spagna per chiedere loro un sussidio in denaro. I nobili spagnoli, temendo che ciò potesse diventare un’abitudine, si rifiutarono di fare il donativo. L’imperatore si rivolse allora al popolo napoletano, che volentieri donò 260.000 ducati. Nel 1541, essendo la Spagna in grande difficoltà economica nonostante la gran quantità di oro e di argento proveniente dal nuovo mondo, per rispondere a una nuova richiesta di denaro dell’imperatore, il parlamento napoletano decise di fare un altro donativo di 800.000 ducati da pagarsi in cinque anni e fu in questa occasione che Carlo V, grato e riconoscente al popolo napoletano per l’aiuto ricevuto, si impegnò a non chiedere in futuro altri donativi per urgentissime spese.

Masaniello rassicurato dal Cardinale Filomarino che il viceré avrebbe concesso il privilegio di Carlo V, per darne notizia al Popolo e farsi sentire da tutti uscì nella piazza del Mercato, piena di gente che aspettava, salì sopra un palco di legno e con una spada nuda in mano disse: «Popolo mio, abbiamo avuto la Pace mediante il Sig. Cardinale nostro Arcivescovo». Poi, su suggerimento dello stesso Genovino, con acclamazione del popolo nominò Francesco Antonio Arpaia[25] Eletto del popolo. Tornato nel convento del Carmine, Masaniello prese un foglio di carta e lo presentò al Cardinale; era la lista di 36 case di Cavalieri che dovevano essere bruciate durante la notte. L’Arcivescovo dopo aver letto l’elenco convise Masaniello che molti dei nobili elencati avevano parlato a favore del popolo e che non meritavano quella punizione, e così furono cancellati.

Il giorno seguente, mercoledì 10 luglio, mentre Don Giuseppe Carafa, fratello del duca di Maddaloni, e il Priore della Roccella Don Gregorio Carafa con alcuni cavalieri si dirigevano alla Chiesa di Santa Maria nuova, furono scoperti e inseguiti fin dentro il convento dei monaci. Sapendo che non avrebbero avuto scampo alla morte, scrissero un biglietto al viceré invitandolo a sparare da Castel Sant’Elmo qualche colpo di cannone sul convento per intimorire la folla. Il messaggio, che alcuni dicono fosse stato cucito nel cappuccio di un monaco converso,[26] altri nascosto tra le dita di un piede del monaco, fu scoperto dai lazzari [27] sospettosi. Ciò accaduto, il priore della Roccella fuggì da una porta secondaria e si nascose nella bottega di un tintore, mentre Don Giuseppe Carafa si nascose nella casa di una donna, che era sotto al convento, alla quale promise una buona ricompensa se lo avesse salvato ma la donna, temendo la collera di quelli che come cani cercano la volpe durante la caccia, si mise a gridare: «È qui, è qui quello che cercate». Don Giuseppe fu subito scoperto, e un macellaio, che qualche tempo prima era stato da lui offeso, con un gran coltello gli tagliò di netto la testa.

Il pittore Domenico Gargiulo, soprannominato Micco Spadaro,[28] che fu testimone ai fatti successi in quei giorni, in un dipinto olio su tela rappresentò l’uccisione di don Giuseppe Carafa,[29] avvenuta nella piazza del mercato.

Descrizione: Micco_spadaro_uccisione_giuseppe_carafa.jpgLa testa di Don Giuseppe, per ordine di Masaniello, fu piantata prima nella piazza del mercato su una picozza[30]  e poi messa in una gabbia davanti alla porta di San Gennaro. Il corpo senza testa, legato alla coda di un cavallo, fu strascinato per tutta la città e abbandonato in una strada. Sul lato sinistro della tela dipinta dal pittore, si vede Masaniello in piedi che parla al popolo su un palco eretto sotto la finestra della sua casa da un gruppo di giocolieri, funambuli e saltimbanchi, che erano giunti nella piazza alcuni giorni prima per i festeg­gia­menti della Madonna del Carmine del 16 luglio. Narra un testimone, che ci ha lasciato memoria scritta in un mano­scritto:

In quei giorni era venuta in Napoli una compagnia di ballerini, li quali facevano cento giochi con camminar sopra la corda, ed avevano preso luogo vicino la strada detta de’ Lanajoli al Mercato, non lungi la fontana, e posto avevano un palco di tavole, sopra del quale salivano a rappresentare. In questo tavolato saliva Masaniello scalzo e vestito di tela grossa con un berrettino rosso in testa, e dava ordini e leggi.[31]

Dopo aver ucciso Don Giuseppe Carafa, i rivoltosi andarono a casa di Domenico Mazzola,un commerciante genovese che da poco aveva ricevuto 3000 archibugi da consegnare al viceré. Prima gli chiesero le armi in prestito con la promessa che le avrebbero pagate in seguito, poi dicendo il Mazzola a gran voce che li avrebbe fatti punire perché lo stavano derubando, offesi, i ribelli bruciarono la sua casa. Prese le armi, andarono al palazzo del Duca Caivano,Segretario del Regno, e bruciarono ogni cosa in essa esistente e moltissimi documenti della Real Cancelleria; anche i cavalli, che erano nelle scuderie, furono uccisi e gettati tra le fiamme del rogo. Nello stesso tempo altri rivoltosi bruciarono il palazzo di un certo Giovanni di Zevallos, che si era arricchito facendo l’esattore delle gabelle, e prestando soldi alla corte era diventato Duca di Ostuni in Puglia. Mentre s’incamminavano correndo alla casa di Cesare Lubrano, un esattore di molte gabelle, tanto ricco che aveva acquistato per la sua famiglia il ducato di Ceglie in terra di Lecce, i ribelli gridavano ad alta voce: «Andiamo ad abbruciare questi traditori, che ci hanno succhiato il nostro sangue!». Nonostante il palazzo avesse un buon portone e fosse ben sostenuto e fortificato dall’interno, lo sfondarono e saliti nelle stanze, buttarono ogni cosa nella strada e incendiarono tutto. Insospettiti dalle poche cose trovate, corsero al convento dei frati che era di fronte al palazzo e minacciarono i monaci di bruciare la loro casa se non avessero consegnato quanto Lubrano aveva nascosto nel convento. I monaci, intimoriti dalla minaccia del fuoco, prontamente consegnarono ai popolani due casse piene di pezzi d’argento e di monete, che senza alcuna incertezza gettarono nel fuoco. I popolani non incendiarono i palazzi per rubare quanto di prezioso avessero i nobili e gli esattori delle tasse ma per distruggere le ricchezze, che avevano accumulato sfruttando il popolo. Al grido di «Viva il Re di Spagna, more il malgoverno», nello stesso giorno i lazzari bruciarono i palazzi di Bartolomeo Balsano e di Cesare Caporale, non risparmiando dal fuoco neppure le porte e le finestre. Tutto il popolo di Napoli era insorto e aveva preso d’assedio il campanile di San Lorenzo Maggiore, un’antica torre, dove gli Spagnoli conservavano un gran numero di armi e munizioni. Dopo una lunga resistenza, gli Spagnoli di guardia alla torre si arresero e i rivoltosi presero 10 cannoni di bronzo e li posero nelle strade principali della città formando posti di blocco.

Verso le otto di sera, mentre Masaniello era nella chiesa del Carmine e la piazza era piena di gente, si videro un gran numero di banditi inviati dal duca di Maddaloni per vendicare l’affronto subito il giorno prima e uccidere con una grande esplosione tutti quelli che in gran numero erano presenti nella piazza. D’im­provviso si sentì il suono di alcuni spari d’archibugio; il Perrone con il fratello Gregorio e altri amici avevano tentato di uccidere Masaniello, che si era salvato per miracolo. Fallita l’impresa, gli attentatori fuggirono e si nascosero nel dormitorio del convento ma scoperti furono tutti uccisi e le loro teste, com’era usanza, furono portate in giro per la città ed esposte nella piazza del mercato. Stessa sorte subirono i banditi, che avevano nascosto nelle fogne e sotto il convento una gran quantità di polvere da sparo per far saltare la piazza e tutti i lazzari in essa riuniti, furono inseguiti e uccisi. Dopo il fallito attentato, Masaniello ordinò che tutto ciò che era nel palazzo del duca di Maddaloni fosse portato nella piazza per essere venduto, e che il ricavato fosse inviato al re di Spagna come sussidio delle guerre. Per trasportare ogni cosa nella piazza ci vollero tre giorni.

Venerdì 12 luglio, Masaniello vestito di bianco in segno di pace, in compagnia del Cardinale, dell’ottantenne Genovino e dell’Eletto Francesco Arpaia si recò nel tardo pomeriggio a Castel Nuovo, invitato dal viceré per concordare i capitoli dell’accordo di pace. Il Duca d’Arcos lo accolse con molta cortesia e alla presenza del popolo lo baciò più volte sugli occhi. Discussero per molte ore e giunta la notte, per timore che il popolo non vedendolo tornare potesse dare inizio a una nuova e sanguinosa rivolta, Masaniello disse al viceré: «Vostra Eccellenza si contenti che io parta e mi faccia vedere dal mio Popolo, altrimenti si corre rischio di veder spianato il Palazzo!» Prima di licenziarlo, il viceré volle donargli una collana d’oro di grande valore ma Masaniello più volte la rifiutò dicendo: «Ringrazio Vostra Eccellenza perché questa non è cosa per me, poiché finito di quietare questo negozio voglio tornare à vendere il pesce». Il viceré insistette molto perché la prendesse, e alla fine Masaniello ne accettò una più piccola, di modesto valore, dicendo: «Questa la prendo per amore di Vostra Eccelenza». Ma, mentre erano in corso le trattative il viceré già stava pensando come farlo uccidere.

Sabato 13 luglio, alle ore 19, Masaniello vestito di bianco, su una chinea[32] del Cardinale, seguito dal fratello Antonio vestito con un abito azzurro, andò a palazzo reale per incontrasi con il viceré e insieme andare in corteo al Duomo per giurare e osservare i 23 Privilegi[33]  concessi al popolo.

La domenica successiva, invitato più volte da un suo collaboratore, un certo Onofrio Casiero di Santa Lucia del mare, a prendersi una vacanza per riposarsi delle fatiche dei giorni passati, Masaniello decise di andare con i capi del popolo più fidati a Poggio Reale. Qui giunto gli furono portati molti regali inviati dal viceré, e senza pensare donde venissero quei doni si diede a banchettare e a brindare allegramente. Non fu quel giorno un bel giorno perché subito dopo il pranzo Masaniello decise di andare a palazzo reale per invitare il viceré a fare una passeggiata a Posillipo. Giunto a palazzo si introdusse nella camera del viceré e dopo averlo preso confidenzialmente per una mano lo pregò di andare in barca con lui a Posillipo. Il Duca astutamente si mostrò molto cortese alla sua richiesta ma si giustificò dicendo che volentieri sarebbe andato con lui ma che non poteva perché aveva un gran mal di testa e gli mise a disposizione la sua barca personale. Masaniello con il fratello Antonio e altri amici fidati, seguito da altra gente, andò a Posillipo. Sceso a riva, si divertiva a buttare, di tanto in tanto, alcune monete d’oro in mare per vedere i pescatori tuffarsi a cercarle sul fondo. Improvvisamente cominciò a trattare le persone che incontrava con parole offensive e modi scortesi. Giunto alla Chiesa di Piedigrotta, senza rispetto per il luogo sacro e i sacerdoti, prese come trofei molti oggetti preziosi. Tornato a Posillipo cominciò a sentire la gola infiammata e una gran sete. Bevve molto ma avendo ancora sete si buttò in acqua tutto vestito. Alcuni pensarono che fosse sotto l’effetto del gran vino bevuto a Poggio Reale, altri sospettarono che Masaniello fosse stato avvelenato con una droga dal Casiero, corrotto dal viceré. Qualche storico ritiene che nella visita fatta al Vicere, prima di andare a Posillipo, gli fosse stato offerto da bere del vino drogato, che gli confuse il cervello e lo ridusse a dire e a fare cose senza senso.[34].

Essendo Masaniello a Posillipo, la viceregina mandò a prendere la sorella di Masaniello, Grazia Francesca, e la moglie Bernardina con una carrozza a quattro cavalli. Bernardina e Grazia si vestirono a festa, indossarono alcuni gioielli che la stessa viceregina le aveva mandato e andarono a corte. Giunte a palazzo le due donne furono accolte dal capitano delle guardie e fatte salire su due portantine furono accompagnate fino alle stanze della viceregina che l’abbracciò dicendo: «Sea V. S. Illustrissima muy bien venida» (Sia Vostra Signoria Illustrissima la molto benvenuta). «E Vostra Eccellenza la molto ben ritrovata», rispose la moglie di Masaniello. «Vostra eccellenza è la viceregina delle Signore, ed io sono la viceregina delle popolane».

Dopo alcuni convenevoli e frasi di cortesia, la viceregina prese da parte con un braccio la moglie di Masaniello e la pregò di convincere il marito a lasciare il comando della rivoluzione. Ma questa risentita rispose: «Se mio marito abbandonasse il comando, nè la sua nè la mia persona sarebbe più rispettata. Però sarà meglio che ambedue stiano uniti, il Viceré e Masa­niello, cosicchè l’uno governi gli spagnuoli e l’altro il popolo». Dopo altre manifestazioni di cortesia e regali ricevuti dalla viceregina, le donne fecero ritorno alle loro case.

Intanto, i mercanti e i bottegai, temendo un danno economico per i loro commerci, chiesero al viceré di far uccidere Masaniello per porre fine alla rivoluzione. Mentre Masaniello passeg­giava a Posillipo, in città si tenne una riunione segreta nella chiesa di S. Agostino con tutti i caporioni del popolo e i capitani della milizia per decidere come uccidere Masaniello. Inter­vennero alla riunione anche il Viceré e Don Giulio Genovino (o Genoino), che in principio era stato l’anima e la mente della rivoluzione e aveva segretamente istruito e consigliato il povero Masaniello. Dopo che furono elencati tutti i misfatti da lui compiuti, fu deciso di ucciderlo. Il Genovino[35] suggerì di non farlo subito perché la sua morte avrebbe provocato un’ulteriore sanguinosa protesta del popo­lo; bisognava prima che Masaniello fosse detestato dal popolo e aspettare il momento giusto per ucciderlo. Quando a sera Masaniello tornò a Napoli, si accorse subito del cambiamento della gente, che più non lo curava e lo seguiva, e forse qualcuno lo avvertì che avevano deciso di ucciderlo.

Lunedì15 luglio, Masaniello infuriato prese un cavallo e si mise a correre per la piazza del mercato offendendo e minacciando tutti con un coltello, e molti cominciarono a tiragli le pietre addosso. Un sasso lo colpì alla testa e cadde a terra. Tornato in sé si alzò e seguito da molti si recò nella Chiesa del Carmine, dove salito sul pulpito cominciò a lamentarsi dell’indifferenza del popolo dopo tutto ciò che aveva fatto per lui. E preso un Crocefisso disse: «Io vi perdono e vi benedico». Deposto il crocefisso, si scoprì il petto e disse: «Ecco, che non ho più carne e questa pelle è solamente informata[36] dalle ossa; oggi ho bevuto due barili d’acqua, e non so dove si sia andata». Poi girò le spalle ai presenti e in segno di disprezzo si abbassò i pantaloni, onde alcuni si misero a ridere, altri si mossero a compassione, e continuò Masaniello a parlare dicendo cose senza senso, e tutti pensarono che fosse diventato pazzo. Masaniello era molto amareggiato e offeso per il tradimento del popolo e dei suoi amici, che lo avevano abbandonato, e aveva una gran paura sapendo che il giorno dopo lo avrebbero ucciso. La notte seguente fece sogni spaventosi. D’improvviso, si svegliò e volle affacciarsi alla finestra della sua casa per parlare al popolo. La madre Antonia e la moglie Bernardina cercarono invano di trattenerlo ma egli si affacciò alla finestra e cominciò a dire:

Popolo mio lascia che io ti dica due parole per mia soddisfazione. Tu ti ricordi, popolo mio, in che stato eri ridotto per le tante gabelle ed estorsioni, e per le tante tirannie con le quali gli infami traditori e nemici della patria ti opprimevano. Ti ricordi che non potevi saziarti di quella frutta, di cui tanta copia ti dà questa terra benedetta, perché dovevi pagare quelli arrendatori[37] e gabellotti che ti dissanguavano. Ed ora la mercé (per la grazia) di Dio e della SS. Vergine del Carmine tu guazzi e vivi nell’abbondanza e nella grassa senza gabella e senza gabellotti. Ma per mezzo di chi, popolo mio, hai tu ottenuto ciò. Chi ti ha levato da tante oppressioni e tirranie se non se io, che non ho risparmiato travaglio e pericolo alcuno per liberarti? E pure qual mercede (ricompensa) ne ricevo da te, popolo ingrato. Dopo tutti questi servigii che io così fedelmente ti ho prestati, dopo tanti benefizi che ti ho fatti, ecco in che modo ne son riconosciuto da te. Oggi coll’abbandono e col disprezzo, dimane con la morte, perché io so che sarò ucciso fra poco. Popolo mio io son morto, ho visto che fino la montagna di Somma (il Vesuvio) mi è contraria, ed ha vomitato sopra di me un diluvio di fuoco. Ecco vedete, io non ho più carne (e mostrava il petto nudo) e questa pelle è solamente informata dalle ossa. Credetemi, io so chi è stato che mi ha ridotto in questa misera condizione, chi congiura per finirmi, e potrei anche annichilarlo (distruggere). Pure io lo perdono e voglio che questo Cristo anche lo perdoni.[38]

Il popolo, dopo aver ottenuto ciò che aveva chiesto, credendo che Masaniello fosse diventato pazzo, si dice, non volle più seguirlo. Angelo Ardizzone, conservatore del grano della città, il fornaio Salvatore Catania e il dotto e vile Genovino, che aveva usato Masa­niello per i suoi scopi, pensarono che fosse giunto il momento per ucciderlo.

Martedì 16 luglio, festa della Madonna del Carmine, Masaniello andò in chiesa per assistere alla messa del Vescovo, salì sul pulpito e cominciò a rimproverare la gente, poi corse verso un balcone che dava sul mare e vedendo alcune galere (navi da guerra) avvicinarsi alla città tornò indietro per avvisare il popolo ma fu raggiunto da quattro colpi d’archibugio. Caduto a terra, il fornaio Carlo Catania[39] di Bracigliano[40] e il fratello Salvatore gli saltarono addosso e gli tagliarono la testa; poi, entrati con prontezza in una carrozza corsero con l’amico Ardizzone a portarla al viceré. Carlo Brancaccio, Regio Consigliere, che con altri ministri si era rifugiato nel Castel Nuovo, con una lettera informava il fratello Cardinale Francesco Maria che in quel giorno era stato ucciso Masaniello «dopo che il Viceré ne aveva concesso il permesso a due capitani di strada, e che la sera stessa sarebbe rientrato nella sua casa».[41] Quella parte di popolo, che deside­rava la morte di Masaniello per porre fine alla rivoluzione, emise grida di gioia, prese il corpo decapitato e dopo averlo strascinato per tutte le vie della città lo abbandonò sulla spiaggia. La testa di Masaniello, messa sulla punta di un palo, fu portata per tutta la città con grande esultanza. Il Catania, infame traditore, che per denaro e privilegi si era venduto al viceré, dopo aver portato la testa di Masaniello a palazzo reale, corse a casa sua e con schiaffi e parolacce prese la moglie Bernardina, che disperatamente gridava aiuto e piangeva, e la trascinò in strada; la stessa cosa fece il fratello e i compagni di Catania con la sorella Grazia Francesca. Entrambe le donne, prese a calci, disprezzate, scapigliate, insultate, offese, umiliate e sputate in viso furono condotte al palazzo reale, dove con disprezzo furono ricevute dalla viceregina, che il giorno prima le aveva beffardamente accolte con il titolo di illustrissime. Bernardina, con la sorella e la madre di Masaniello e una zia furono richiuse nel Castel Nuovo, poi, il viceré temendo l’ira del popolo subito le liberò. Qualche tempo dopo, il fratello di Masaniello fu strozzato nelle prigioni di Castel Nuovo, la madre Antonia, la sorella Grazia e una zia furono rinchiuse nella fortezza di Gaeta, dove morirono qualche tempo dopo. La moglie Bernardina, essendo gravida, fu lasciata libera dal nuovo viceré il Duca di Ognatte ma del figlio di Masaniello più nulla si seppe e la donna insultata e derisa dai soldati spagnoli fu costretta a vendersi per vivere; morì durante la peste, che colpì Napoli nel 1656.

Mercoledì 17 luglio 1647, giorno dedicato alla Madonna del Carmine, i lazzari raccolsero il corpo di Masaniello, l’unì alla testa e con un gran corteo, dopo aver percorso le strade più importanti di Napoli, lo portò nella Chiesa del Carmine, dove fu sepolto. Lo portarono su una bara avvolto in un lenzuolo di seta bianco, coperta da un drappo di velluto, con in mano il bastone di generale, la spada accanto e gli speroni ai piedi.

Il clero della città, il capitolo dei canonici, un gran numero di religiosi con ceri accesi procedevano il corteo recitando e cantando preghiere. Otto bandiere circondavano la bara. Seguivano il corteo le compagnie delle milizie con ordinate fila, con tamburi scordati, così come era consuetudine, e le armi in giù. Le finestre erano piene di lumi accesi. Le campane suonavano mestissimamente a distesa. Uomini armati erano lungo le vie per le quali il corteo funebre doveva passare. Gli stessi Spagnoli, giunta che fu a Palazzo la bara di Masaniello, rovesciarono le armi per onorare il Capitano del popolo napoletano. Il viceré per accattivarsi la plebe mandò ad incontrarlo otto paggi con in mano torce accese.[42]

Durante i funerali, degni di un gran capitano, alcuni dissero che Masaniello era risuscitato, che aveva parlato al popolo e l’aveva benedetto, e come santo tutti vollero baciarlo sulla fronte e sugli occhi e toccarlo con le corone, che poi devotamente baciavano, e vollero avere un suo ritratto, e molti ritratti furono fatti quel giorno dagli artisti per soddisfare la richiesta del popolo. I ciechi alla porta delle chiese domandavano l’elemosina gridando: «A chi diciamo l’orazione del beato Masaniello?» [43]

La rivoluzione non terminò con la morte di Mas’ Aniello perché nei giorni successivi il popolo, deluso dai provvedimenti presi dal Viceré, riprese le armi e pianse amaramente la sua morte. Il primo di ottobre giunse nel porto di Napoli il figlio del Re di Spagna, Don Giovanni d’Austria, con 22 galere, 40 vascelli e 4.000 di soldati. Il popolo fiducioso e desideroso di ricevere altre grazie e favori da questo principe gli fece una grande manifestazione di gioia, al che Don Giovanni rispose che non sarebbe sceso a terra se prima il popolo non avesse deposto le armi. Narra lo storico Francesco Capecelatro:

Sabato matino cinque dell’istesso mese non si vedeva persona armata, ma ci era universal quiete, e mentre pur stava anelando la vista di tal Principe, da qual sperava altre grazie e favori. All’improviso sù il mezzo dì, in un istante da Regii Soldati da più parte dell’istessa Città à forza d’arme fu occupata, entrando in molti Monasterii, e Conservatorii, violando Vergini, e commettendo altri enormissimi eccessi, e nell’istesso tempo tutta la Città (fu) assalita e battuta in ogni parte da più di tremila colpi di Cannoni et Artiglierie di tre castelli, e di più da quaranta Vascelli, e Galere per molti giorni e notte continue, e poi sin al presente, di tempo in tempo per quali a quest’hora, conforme credevasi, doveva essere spianata tutta questa si vaga e nobil Città Giardino dell’Europa con tutti suoi nobilissimi edificii, Chiese, Monasterii di ogni sesso e luoghi pii et suoi habitanti di ogni età atterrati senza atto alcuno di pietà, e Religione.[44]

Riporta lo storico Lodovico Muratori: «Dai forti della città, improvvisamente, tutti i cannoni iniziarono a sparare sulla città…»

Parve allora Napoli la casa del diavolo: tanto era il rumore delle artiglierie, il martellare delle campane, gli urli, e le grida delle donne, e dei fanciulli. Corse il popolo a barricare le strade, ed afferrare i posti, e le donne dalle finestre gettavano sassi, tegole, ed acqua bollente. Seguitò l’orrido conflitto per più ore; e accorgendosi in fine gli Spagnoli del poco profitto, che facevano i loro cannoni, e mortai, e che andava crescendo la forza, e furia del popolo, cessarono le ostilità, e con esporre bandiera bianca invitarono il Popolo a qualche concordia. Ma questo non rispose, se non coll’inalberare la bandiera nera, risoluto di azzardar tutto, piuttosto che fidarsi della corrotta fede, e dei violati giuramenti degli Spagnoli».[45]

La guerra durò fino alla fine di marzo dell’anno successivo. Il 5 aprile 1648gli Spagnoli sconfissero la flotta francese,[46] che intervenuta a favore dei Napoletani sperava in una nuova rivoluzione per riconquistare la città ma il popolo, stremato e senza più forza, non si ribellò. Il giorno dopo, «quella stessa città, che il 5 ottobre dell’anno prima aveva così eroicamente sostenuto il furioso assalto spagnolo dai castelli e dalle navi, ora senza spargere una sola goccia di sangue si arrendeva pacificamente nelle braccia dei suoi antichi oppressori».[47]


[1] Ai tempi di Carlo d’Angiò i Sedili erano 7, ogni Sedile aveva uno stemma: Il sedile del Popolo aveva una P in campo rosso e oro, era detto anche seggio della “Sellaria” perché sorgeva nell’antica Piazza della Selleria;  Capuana aveva un cavallo in campo azzurro; il Nido un cavallo in campo d’oro; Forcella una Y  in campo rosso e oro; Montagna aveva tre monti verdi in campo d’argento; il Porto un Orione (il cacciatore) con pugnale (Orione è la stella protettrice dei naviganti); Portanova aveva  una porta d’oro in campo azzurro. Durante la repubblica napoletana del 1799 di fatto i Sedili furono aboliti; con il ritorno del re Ferdinando IV a Napoli nel 1800, con un decreto furono completamente cancellati.

[2] Il parlamento era costituito da baroni del regno e dai sindaci delle terre sottoposte al re; si riuniva nel monastero di San Lorenzo a Napoli. Dalle cinque piazze dei nobili, a turno veniva eletto un sindaco che fungeva da presidente del parlamento.

[3] Il donativo era un contributo in denaro, che veniva offerto all’imperatore dalle assemblee degli Eletti, ossia dal parlamento, in occasione di spese eccezionali, come finanziare le guerre.

[4] Nel Regno delle Due Sicilie il ducato era d’oro o d’argento, ed era diviso in 10 carlini; un carlino era diviso in 10 grana, un grano in 2 tornesi, un tornese in 6 cavalli. Il carlino, che deve il suo nome a Carlo I d’Angiò (divenuto re di Napoli nel 1268), era una moneta coniata (prodotta) sia in argento che in oro. Il grano era una moneta aragonese d’argento, che si divideva in 12 cavalli (una moneta aragonese di rame) o in 2 tornesi; un tornese valeva 6 cavalli. 1 ducato in oro (di gr. 1,262) corrisponderebbe oggi a circa 50 euro, secondo la quotazione del mercato attuale dell’oro che è di circa € 37,75 al grammo.

[5] Detto anche Naclerio, sollecitò con grande convinzione l’abolizione della tassa sulla frutta. Questo eletto non era gradito al popolo perché era stato nominato dal viceré Duca di Medina, e non dal popolo.

[6] Carlino: moneta d’oro o d’argento, introdotta da Carlo I d’Angiò.

[7] Cantàro o Cantaio, peso di 100 rotoli corrispondeva circa a un quintale.

[8] Riscossione delle imposte, ossia delle tasse.

[9] Perché in passato era stata già messa e poi tolta.

[10] Rotolo: Unità di misura di peso (corrispondente al Kg ma di peso inferiore)

[11] Salma o Sarma è il carico che si pone sugli asini, muli e cavalli.

[12] Vaso con il quale si misurava il grano, la biade e simili;

[13] Tornese: piccola moneta in rame. Il ducato, d’oro o d’argento, era la moneta principale del regno, era suddiviso in 10 carlini d’oro o d’argento; il carlino era diviso in 10 grani; Il grano (detto anche soldo) era una moneta d’argento e si divideva all’epoca in 12 cavalli (in rame) o in 2 tornesi; un tornese corrispondeva a 6 cavalli o ½ grano. Oggi un ducato in oro di circa gr 1,262 varrebbe circa € 50, per avremmo il seguente valore delle monete: 1 Ducato = 50,00 €; 1 Carlino = 5,00 €; 1 Grano o grana = 0,50 €; 1 Tornese = 0,25 €; 1 Cavallo = 0,04 €.

[14] De Santis Tommaso, Historia del tumulto di Napoli, vol. 1, 1652, pp. 32,33

[15] Addette alla riscossione delle tasse. Il 20 maggio dello stesso anno, per la mancanza di pane era scoppiata a Palermo una simile rivoluzione.

[16] Thomas’ Aniello eranato il 29 giugno 1620 a Vico Rotto al Mercato a Napoli e fu battezzato dai suoi genitori, Francesco detto Cicco e Antonia Gargana/o (sposati il 18 febbraio 1620), nella Chiesa di Santa Caterina in Foro Magno, l’antico nome di Piazza Mercato. Aveva Aniello un fratello di nome Antonio Carmine, nato nel 1622, e una sorella Grazia Francesca, nata nel 1626. A 21 anni, il 25 aprile 1641, si sposò con Bernardina Pisa di anni 16, che morì di peste nel 1656.

[17] Diminutivo di zazzera, capigliatura d’uomo folta e lunga fino alle spalle. In: Baldacchini Michele, Storia napoletana dell’anno 1647, Lugano 1834, p. 30 e ss.

[18] Uomini addetti a riscuotere il denaro delle tasse.

[19] Mobili e cose varie di uso comune.

[20] Armi metalliche di forma diversa, innestate su una lunga asta di legno come lance.

[21] Donzelli Giuseppe, Partenope liberata, Napoli 1647, p.19.

[22] Piacente Gio. Battista, Le rivoluzioni nel Regno di Napoli negli anni 1647-1648, Napoli 1861, p. 27.

[23] Un vecchio ottantenne, che nel 1622 era stato era stato rinchiuso in una prigione in Africa per aver tentato di sollevare il popolo contro il governo, poi graziato dall’imperatore era tornato a Napoli nel 1634 e si era fatto sacerdote.

[24] Carlo V era figlio di Filippo il Bello e di Giovanna detta la pazza. Nacque nel 1500, morì nel 1558. Fillipo era figlio dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo, Giovanna figlia di Isabella di Castiglia e Ferdinando il Cattolico d’Aragona, che sposandosi avevano dato origine al regno di Spagna. (Carlo V -> Filippo II-> Filippo III -> Filippo IV 1621- 1665).

[25] Arpaia era stato in prigione in Spagna con il Genovino per aver promosso insieme a lui una simile rivoluzione nel 1620 con il viceré duca d’Ossuna.

[26] Che non celebrava la messa ma si dedicava ai lavori del convento: cucinare, cucire, lavare, ecc.

[27] Gli uomini più poveri della città, operai comuni, disoccupati, straccioni, mendicanti, ecc.

[28] Pittore napoletano paesaggista, visse tra 1610-1675. È famoso per le sue opere sull’insurrezione napoletana di Masaniello e sulla peste del 1657.

[29] Progettò un attentato per uccidere Masaniello e il popolo inferocito lo uccise.

[30] Una punta metallica a forma di foglia d’alloro o di forma diversa, innestata su una lunga asta di legno.

[31]Bartolomeo Capasso, La piazza del Mercato di Napoli e la casa di Masaniello, rimembranze storiche di un napoletano, Stamperia del Popolo d’Italia, Napoli 1868, p. 23.)

[32] La chinea era un cavallo bianco.

[33] Articoli. Il 14° privilegio recitava: «14. Item , che si intendano levate (tolte) tutte le Gabelle tanto della Regia Corte, quanto della Fedelissima  Città, non solo quelle imposte d’ordine dei Signori Viceré, e Nobiltà, ma anco del Popolo, ma che siano manutenuti nella possessione, che al presente se ritrovano obtenuta etiam per violenza di non pagare Gabella alcuna, così di Corte, come della Città, & (e) anco tutti i novi importi e imposizioni che si esigono nella Dogana, ma solamente restino in piede quelle, che si pagavano nel tempo dell’Imperatore Carlo Quinto, & qualsivoglia altra etiam insolutum data à particolari, &  occorrendo soccorrere alli bisogni del Rè Nostro Signore, l’habbia da concludere il modo lo Eletto del Fidelissimo Popolo solamente, Capitanij di Strada, & Consultori».

[34] Cfr. Brusoni Girolamo, Historia d’Italia dall’anno 1625 all’anno 1660, libro 28°, Venezia 1661, p. 501.

[35] Il Genoino ed i suoi nipoti, dopo la rivoluzione, furono privati di tutte le cariche pubbliche e banditi per sempre dal regno con i loro discendenti in linea maschile, per aver macchinato falsamente contro il fedelissimo popolo.

[36] Che prendeva forma dalle ossa; essendo molto magro si vedeva la forma della gabbia toracica.

[37] Quelli che riscuotevano le gabelle, ossia le tasse, le imposte per conto del viceré.

[38] Bartlomeo Capasso, La piazza del mercato e la casa di Masaniello, Napoli 1868, p. 32

[39] Carlo Catania di Bracigliano (Sa), fornaio al Carminello, compare ed amico di Masaniello era stato dallo stesso nominato provveditore delle milizie popolari. Invidioso, nutriva verso Masaniello rancore perché era stato da lui aspramente rimproverato perché faceva le palate (il pane) cattivo e sottopeso.

[40] Un Comune della provincia di Salerno.

[41] Baldacchini Michele, Storia Napoletana dell’anno 1647, Stamperia di F. Ferrante, Napoli 1863, p.179.

[42] Ivi, p.123.

[43] Ibidem

[44] Francesco Capecelatro, Diario di F. C. contenente la storia delle cose avvenute nel reame di Napoli negli anni 1647-1650; Ora per la prima volta messo a stampa sul manoscritto originale, Stabilimento tipografico di Gaetano Nobile, Napoli 1852, p.102.

[45] Lodovico Antonio Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era vogare sino all’anno 1750. Dall’anno 1601 dell’Era volgare fino all’anno 1700. Tomo XI, Per Vincenzo Giuntini, Lucca 1764, p.175.

[46] Giunta a Napoli il 18 dicembre 1647.

[47] Lodovico Antonio Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era vogare sino all’anno 1750, Dall’anno 1501 dell’Era volgare fino all’anno 1600. Tomo 10, Stamperia di A. Olzati, Monaco 1764, p. 496.V

Vincenzo Giannone
Cronache del Regno delle Due Sicilie, Alelio editore, Scafati 2016

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.