La rivoluzione napoletana del 1820-1821
tra “nazione napoletana” e “global liberalism”
«[…] La guerra di parte, dice un uffiziale che si è distinto nelle guerre di Spagna, è la più antica, la più naturale, e la sola che sia sempre giusta. Essa è quella del debole contra il forte: essa non può farsi senza il concorso e l’approvazione di tutta una nazione: essa dipende dalla opinione generale, non dalla volontà di un tiranno, o d’un conquistatore. Questa guerra non può avere altro scopo che di respingere un’invasione, e di sottrarre lo stato, la nazione, il principe da un giogo straniero. Quando anche fosse menata innanzi con barbarie, alcuno non avrebbe il dritto di dolersene, poiché l’inimico potrebbe sempre ritirarsi con la sicurezza di non esser perseguitato nel proprio paese. […]»
(La Minerva Napolitana 1820-1821.)
“Historians of liberalism have tended to ignore or underplay the contribution of southern Europe. However, in the 1820 this part of the world was at the forefront of the struggle for liberal values.” (1) Un punto di vista, quello di Maurizio Isabella, che ritroviamo anche in Delpu Pierre Marie il quale, fra l’altro, scrive:
“Se la rivoluzione napoletana del 1820 1821 fu dapprima un’insurrezione nazionale, formatasi nel ristretto ambito di una comunità qualificata già dall’epoca moderna come “nazione napoletana”, essa si colloca al tempo stesso in un movimento di contestazione più ampio riguardante l’Europa della Santa Alleanza. La storiografia ne ha infatti sottolineato il suo respiro transnazionale e capillare, definito global liberalism.” (2)
Personalmente debbo confessare che quella del 1820 per me era un semplice pronunciamento operato da due militari, Morelli e Silvati, finito senza grandi conseguenze. Una modesta rivolta insomma. Quando la storia veniva studiata e ristudiata nei vari ordini di scuola, le mie conoscenze si fermavano a questo, più o meno un fatterello studiato prima alle elementari, ribadito poi alle medie e alle superiori.
Ci siamo dedicati allo studio di questa rivoluzione per caso – come spesso avviene, quando navigando sul web ci si imbatte in una parola, in un autore o in un concetto e si comincia a cercare, si trova qualcosa che ci spinge a cercarne un’altra e cosi via. Ad un certo punto si è costretti a fermarsi perché nel web ‘c’è tanto di quel materiale che rischia di sommergerci e di farci andare oltre il tema da cui avevamo preso il via.
Presentiamo agli amici e ai naviganti una serie di opere inerenti direttamente o indirettamente la rivoluzione del 1820 1821 – passato alla storia anche come “nonimestre costituzionale a Napoli”.
Da alcune di esse non si può prescindere per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono periodo storico breve ma rilevante dal punto di vista del ricordo diffuso che lasciò tra le elites meridionali. Vero che tali elites peccarono di astrattismo e non riuscirono ad offrire alle popolazioni meridionali un progetto credibile ma è pur vero che guardando a quegli avvenimenti col dovuto distacco occorre constatare che il Regno si collocava in una area geopolitica rilevante per gli interessi delle potenze principali dell’epoca, anche di quelle “costituzionali” quali erano Francia e Inghilterra.
I colori della Carboneria:
rosso (la fiamma) nero (il carbone) turchino (il fumo)
Da allora la penisola italica è stato un campo di battaglia per il controllo del Mediterraneo. Basti citare il caso Matteotti in epoca fascista e il caso Ustica in epoca repubblicana, come due esempi emblematici delle ingerenze di potenze straniere negli affari interni del nostro paese.
Ma non divaghiamo e torniamo al nostro tema: la rivoluzione del 1820-21 nel regno di Napoli e in Sicilia. Un ampio stralcio tratto dalla Storia degli Italiano di Cantù (3) da una efficace sintesi degli anni della restaurazione dopo il congresso di Vienna e dei rivolgimenti politici del 1820-21.
L’amministrazione della Sicilia fu uniformata a quella di qua del Faro, dividendola non più in tre ma in sette valli, di cui erano capi Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani, Caltanisetta; abolita la feudalità, accomunatovi il codice napoletano. Era certo un gran miglioramento, ma guasto per avventura dai modi: cessato lo spendio ingente dell’esercito inglese e quel della nobiltà che voleva emulare la Corte, il danaro parve scomparire: se alcuni signori andarono a brigar favori a Napoli, altri sequestraronsi in dispettosa astinenza: e l’invidia contro la nuova capitale prorompea in quell’ultimo ristoro del parlar male sempre e di tutto, e d’ogni danno recar la colpa alla tolta indipendenza.
Né i sudditi di Terraferma s’adagiavano alla ripristinata condizione; i servi di Murat guardavano con disprezzo i servi di Ferdinando, e questi quelli con isdegno; a molti furono ritolti i doni di Gioachino; si ridestarono liti già risolte, si concessero favori contro la legge, mentre contro i patti di Casa Lanza si degradò qualche uffiziale; si esacerbavano nell’esercito le gelosie fra’ così detti Siciliani, improvidamente distinti con medaglia, e i Muratisti, ne’ quali sopravivevano l’entusiasmo della gloria e il sentimento del valore italiano; la coscrizione rinnovata aumentò i briganti, mal frenati da un rigore insolito fin nel decennio.
Crescevano dunque i malcontenti e le trame, e la Carboneria nel 1819 contava seicentoquarantaduemila adepti: anche persone d’alta levatura, sgomentate dall’impotenza del governo o desiderose di prepararsi una nicchia nelle novità che ormai vedeano sovrastare, le dieder il proprio nome, aggiungendo la forza morale a quella del numero; e sperando che con istituzioni fisse si sottrarrebbe il paese alle rivoluzioni, che in breve tempo l’aveano sovvertito si spesso, e due volte sottoposto a giogo straniero. Il re, ascoltando solo ad uomini del passato, non volle condiscender in nulla; e il principe di Canosa, ministro di polizia, credette bell’artifizio l’opporre ai Carbonari la società segreta de’ Calderari, cospiranti coi famosi Sanfedisti a sostenere il potere assoluto, ma poiché i suoi eccedeano fin ad assassini, egli fu congedato con lauti doni, e i Carbonari parvero tutori della vita e della proprietà.
Allora cominciarono nel Regno le persecuzioni contro di questi, ma le prigioni si trasmutavano in vendite; ben presto ai moti di Spagna si scuote anche il nostro paese, parendo che la somiglianza d’indole e l’antica comunanza di dominio chiedessero conformità d’innovazioni; gli applausi dati da tutta Europa a Riego e Quiroga, generali voltatisi contro il proprio re, tentano la disciplina degli eserciti, e fanno parer facile una rivoluzione militare. Era la prima volta che si vedesse un esercito insorgere per la libertà, e l’assolutismo parve ferito nel cuore dacché contro lui si torceva l’unico suo sostegno: i ministri che fin allora aveano inneggiala la felicità de’ sudditi e riso della setta, allora ne ravvisano l’importanza; diffidano de’ buoni soldati, e col sospetto gli esacerbano; conoscono inetti quelli in cui confidano, ma non osano né secondar i desideri, né comprimerli chiamando i Tedeschi. Fra tali esitanze la setta procede; e a Nola ed Avellino, istigati dal tenente Morelli e dal prete Minichini, alcuni soldati e Carbonari gridano, Viva Pio, il re e la costituzione, e senza violenze né sperpero, ma tra gl’inni e i bicchieri e le danze tutto l’esercito diserta dalla bandiera regia; e il re, «vedendo il voto generale, di piena sua volontà promette dar la costituzione fra otto giorni, e intanto nomina vicario il duca di Calabria».
Come la Spagna avea preferito quella del 1812, sol perché riconosciuta dalle potenze, cosi ai Napoletani sarebbe stata a scegliere la carta siciliana, già sanzionata dall’Inghilterra, e che avrebbe prevenuto ogni dissenso coll’isola sorella; ma ai liberali parve assurdo un parlamento fondato sull’aristocrazia, e per seguir la moda proclamarono la costituzione di Spagna, sebbene non se n’avesse tampoco una copia per ristamparla.
Allora applausi e feste alla follia; Guglielmo Pepe, gridato generale dell’esercito insorto, entra in città trionfante coi colori carbonari, rosso, nero, turchino, seguito da migliaia di settari stranissimamente divisati e condotti dal Minichini; sfilato sotto al palazzo, si presenta al re, che gli dice: «— Hai reso un gran servigio alla nazione e a me; adopra l’autorità suprema per compier l’opera santa dell’unione del re col popolo: avrei dato la costituzione anche prima, se l’avessi creduta utile e desiderata; ringrazio Dio d’avere serbato alla mia vecchiezza di fare un tanto bene al mio regno».
Con gran solennità cittadina e religiosa Ferdinando giura la costituzione, e dopo la formola scritta aggiunge spontaneo: «— Dio onnipotente, il cui occhio legge ne’ cuori e nell’avvenire, se presto questo giuramento di mala fede, o se debbo violarlo, lanciate sopra la mia testa i fulmini della vostra vendetta».
Fare una rivoluzione in Italia è tanto facile, quanto difficile il sistemarla.
Ovviamente la supposizione di Cantù non ha fondamento, non è detto che il proporre la carta del 1812, concessa da re Ferdinando alla Sicilia grazie ai buoni uffici del Bentinck, avrebbe scongiurato l’intervento straniero nel regno – visto quanto accadde poi in Piemonte e Ispagna. Erano passati troppo pochi anni dal congresso di Vienna perché si potessero ottenere concessioni radicali senza provocare una dura reazione da parte delle potenze che avevano gestito il riassetto dell’Europa dopo l’era napoleonica.
continua……