Alta Terra di Lavoro

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La rivoluzione napoletana del 1820-1821

Posted by on Ott 7, 2020

La rivoluzione napoletana del 1820-1821

«[…] La guerra di parte, dice un uffiziale che si è distinto nelle guerre di Spagna, è la più antica, la più naturale, e la sola che sia sempre giusta. Essa è quella del debole contra il forte: essa non può farsi senza il concorso e l’approvazione di tutta una nazione: essa dipende dalla opinione generale, non dalla volontà di un tiranno, o d’un conquistatore. Questa guerra non può avere altro scopo che di respingere un’invasione, e di sottrarre lo stato, la nazione, il principe da un giogo straniero. Quando anche fosse menata innanzi con barbarie, alcuno non avrebbe il dritto di dolersene, poiché l’inimico potrebbe sempre ritirarsi con la sicurezza di non esser perseguitato nel proprio paese. […]»

(La Minerva Napolitana 1820-1821.)

“Historians of liberalism have tended to ignore or underplay the contribution of southern Europe. However, in the 1820 this part of the world was at the forefront of the struggle for liberal values.” (1) Un punto di vista, quello di Maurizio Isabella, che ritroviamo anche in Delpu Pierre Marie il quale, fra l’altro, scrive:

“Se la rivoluzione napoletana del 1820 1821 fu dapprima un’insurrezione nazionale, formatasi nel ristretto ambito di una comunità qualificata già dall’epoca moderna come “nazione napoletana”, essa si colloca al tempo stesso in un movimento di contestazione più ampio riguardante l’Europa della Santa Alleanza. La storiografia ne ha infatti sottolineato il suo respiro transnazionale e capillare, definito global liberalism.” (2)

Personalmente debbo confessare che quella del 1820 per me era un semplice pronunciamento operato da due militari, Morelli e Silvati, finito senza grandi conseguenze. Una modesta rivolta insomma. Quando la storia veniva studiata e ristudiata nei vari ordini di scuola, le mie conoscenze si fermavano a questo, più o meno un fatterello studiato prima alle elementari, ribadito poi alle medie e alle superiori.

Ci siamo dedicati allo studio di questa rivoluzione per caso – come spesso avviene, quando navigando sul web ci si imbatte in una parola, in un autore o in un concetto e si comincia a cercare, si trova qualcosa che ci spinge a cercarne un’altra e cosi via. Ad un certo punto si è costretti a fermarsi perché nel web ‘c’è tanto di quel materiale che rischia di sommergerci e di farci andare oltre il tema da cui avevamo preso il via.

Presentiamo agli amici e ai naviganti una serie di opere inerenti direttamente o indirettamente la rivoluzione del 1820 1821 – passato alla storia anche come “nonimestre costituzionale a Napoli”.

Da alcune di esse non si può prescindere per una ricostruzione degli eventi che caratterizzarono periodo storico breve ma rilevante dal punto di vista del ricordo diffuso che lasciò tra le elites meridionali. Vero che tali elites peccarono di astrattismo e non riuscirono ad offrire alle popolazioni meridionali un progetto credibile ma è pur vero che guardando a quegli avvenimenti col dovuto distacco occorre constatare che il Regno si collocava in una area geopolitica rilevante per gli interessi delle potenze principali dell’epoca, anche di quelle “costituzionali” quali erano Francia e Inghilterra.

Da allora la penisola italica è stato un campo di battaglia per il controllo del Mediterraneo. Basti citare il caso Matteotti in epoca fascista e il caso Ustica in epoca repubblicana, come due esempi emblematici delle ingerenze di potenze straniere negli affari interni del nostro paese.

Ma non divaghiamo e torniamo al nostro tema: la rivoluzione del 1820-21 nel regno di Napoli e in Sicilia. Un ampio stralcio tratto dalla Storia degli Italiano di Cantù (3) da una efficace sintesi degli anni della restaurazione dopo il congresso di Vienna e dei rivolgimenti politici del 1820-21.

L’amministrazione della Sicilia fu uniformata a quella di qua del Faro, dividendola non più in tre ma in sette valli, di cui erano capi Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Siracusa, Trapani, Caltanisetta; abolita la feudalità, accomunatovi il codice napoletano. Era certo un gran miglioramento, ma guasto per avventura dai modi: cessato lo spendio ingente dell’esercito inglese e quel della nobiltà che voleva emulare la Corte, il danaro parve scomparire: se alcuni signori andarono a brigar favori a Napoli, altri sequestraronsi in dispettosa astinenza: e l’invidia contro la nuova capitale prorompea in quell’ultimo ristoro del parlar male sempre e di tutto, e d’ogni danno recar la colpa alla tolta indipendenza.

Né i sudditi di Terraferma s’adagiavano alla ripristinata condizione; i servi di Murat guardavano con disprezzo i servi di Ferdinando, e questi quelli con isdegno; a molti furono ritolti i doni di Gioachino; si ridestarono liti già risolte, si concessero favori contro la legge, mentre contro i patti di Casa Lanza si degradò qualche uffiziale; si esacerbavano nell’esercito le gelosie fra’ così detti Siciliani, improvidamente distinti con medaglia, e i Muratisti, ne’ quali sopravivevano l’entusiasmo della gloria e il sentimento del valore italiano; la coscrizione rinnovata aumentò i briganti, mal frenati da un rigore insolito fin nel decennio.

Crescevano dunque i malcontenti e le trame, e la Carboneria nel 1819 contava seicentoquarantaduemila adepti: anche persone d’alta levatura, sgomentate dall’impotenza del governo o desiderose di prepararsi una nicchia nelle novità che ormai vedeano sovrastare, le dieder il proprio nome, aggiungendo la forza morale a quella del numero; e sperando che con istituzioni fisse si sottrarrebbe il paese alle rivoluzioni, che in breve tempo l’aveano sovvertito si spesso, e due volte sottoposto a giogo straniero. Il re, ascoltando solo ad uomini del passato, non volle condiscender in nulla; e il principe di Canosa, ministro di polizia, credette bell’artifizio l’opporre ai Carbonari la società segreta de’ Calderari, cospiranti coi famosi Sanfedisti a sostenere il potere assoluto, ma poiché i suoi eccedeano fin ad assassini, egli fu congedato con lauti doni, e i Carbonari parvero tutori della vita e della proprietà.

Allora cominciarono nel Regno le persecuzioni contro di questi, ma le prigioni si trasmutavano in vendite; ben presto ai moti di Spagna si scuote anche il nostro paese, parendo che la somiglianza d’indole e l’antica comunanza di dominio chiedessero conformità d’innovazioni; gli applausi dati da tutta Europa a Riego e Quiroga, generali voltatisi contro il proprio re, tentano la disciplina degli eserciti, e fanno parer facile una rivoluzione militare. Era la prima volta che si vedesse un esercito insorgere per la libertà, e l’assolutismo parve ferito nel cuore dacché contro lui si torceva l’unico suo sostegno: i ministri che fin allora aveano inneggiala la felicità de’ sudditi e riso della setta, allora ne ravvisano l’importanza; diffidano de’ buoni soldati, e col sospetto gli esacerbano; conoscono inetti quelli in cui confidano, ma non osano né secondar i desideri, né comprimerli chiamando i Tedeschi. Fra tali esitanze la setta procede; e a Nola ed Avellino, istigati dal tenente Morelli e dal prete Minichini, alcuni soldati e Carbonari gridano, Viva Pio, il re e la costituzione, e senza violenze né sperpero, ma tra gl’inni e i bicchieri e le danze tutto l’esercito diserta dalla bandiera regia; e il re, «vedendo il voto generale, di piena sua volontà promette dar la costituzione fra otto giorni, e intanto nomina vicario il duca di Calabria».

Come la Spagna avea preferito quella del 1812, sol perché riconosciuta dalle potenze, cosi ai Napoletani sarebbe stata a scegliere la carta siciliana, già sanzionata dall’Inghilterra, e che avrebbe prevenuto ogni dissenso coll’isola sorella; ma ai liberali parve assurdo un parlamento fondato sull’aristocrazia, e per seguir la moda proclamarono la costituzione di Spagna, sebbene non se n’avesse tampoco una copia per ristamparla.

Allora applausi e feste alla follia; Guglielmo Pepe, gridato generale dell’esercito insorto, entra in città trionfante coi colori carbonari, rosso, nero, turchino, seguito da migliaia di settari stranissimamente divisati e condotti dal Minichini; sfilato sotto al palazzo, si presenta al re, che gli dice: «— Hai reso un gran servigio alla nazione e a me; adopra l’autorità suprema per compier l’opera santa dell’unione del re col popolo: avrei dato la costituzione anche prima, se l’avessi creduta utile e desiderata; ringrazio Dio d’avere serbato alla mia vecchiezza di fare un tanto bene al mio regno».

Con gran solennità cittadina e religiosa Ferdinando giura la costituzione, e dopo la formola scritta aggiunge spontaneo: «— Dio onnipotente, il cui occhio legge ne’ cuori e nell’avvenire, se presto questo giuramento di mala fede, o se debbo violarlo, lanciate sopra la mia testa i fulmini della vostra vendetta».

Fare una rivoluzione in Italia è tanto facile, quanto difficile il sistemarla.

Ovviamente la supposizione di Cantù non ha fondamento, non è detto che il proporre la carta del 1812, concessa da re Ferdinando alla Sicilia grazie ai buoni uffici del Bentinck, avrebbe scongiurato l’intervento straniero nel regno – visto quanto accadde poi in Piemonte e Ispagna. Erano passati troppo pochi anni dal congresso di Vienna perché si potessero ottenere concessioni radicali senza provocare una dura reazione da parte delle potenze che avevano gestito il riassetto dell’Europa dopo l’era napoleonica.

La sollevazione di Nola

Nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1820, per iniziativa di due ufficiali (Michele Morelli e Giuseppe Silvati) – in tutto centoventisette fra sergenti e soldati del reggimento Reale Borbone cavalleria – e un sacerdote (Luigi Minichini) con una ventina di affiliati alla carboneria (4), insorsero e si diressero verso Avellino per unirsi ad altri settari.

Il Morelli pose il campo, a Mercogliano, e scrisse al tenente colonnello De Concilj, chiedendogli di aiutare l’impresa, mentre la Puglia, il Molise e la Terra di Lavoro si levavano in armi.

Il generale Nunziante, in un rapporto al Re, scriveva che la Costituzione era desiderio universale del popolo e lo pregava di concederla.

Il generale Pepe – ritenuto inaffidabile – era stato messo fuori gioco facendo circolare la voce che stessero per arrestarlo. Egli si era diretto con due reggimenti di cavalleria verso Monteforte.

All’alba del 6 luglio fu emanato l’editto reale “ALLA NAZIONE DEL REGNO DELLE DUE SICILIE” in cui il re prometteva solennemente la costituzione.

Il 9 luglio Guglielmo Pepe alla testa dell’esercito costituzionale fece il suo ingresso solenne nella capitale.

I nuovi ministri, in parte nominati dal Re, in parte “nominati” dal campo di Monteforte, furono: il conte Zurlo (5), il conte Ricciardi, il duca di Campochiaro, il generale Carascosa (6), il cav. Macedonio e Ruggero Settimo. Fu creata una giunta provvisoria di quindici persone.

Il tredici di luglio, alle undici di mattina, ebbe luogo la cerimonia del giuramento nella cappella privata di Palazzo Reale. Alla formula prevista per il giuramento il Re aggiunse: “Onnipotente Iddio che collo sguardo infinito leggi nell’anima e nell’avvenire, se io mentisco o se dovrò mancare al giuramento, tu in questo istante dirigi sopra il mio capo i fulmini delle tue vendette.”

À partir du moment où le roi jure fidélité à la constitution le 13 juillet, le meme journal publie en feuilleton, tous les jours, le texte de la constitution publié dans la traduction du chanoine Juan Francisc Masdeu, historiographe renommé qui a déjà traduit des textes poétiques et des sommes historiographiques de l’espagnol vers l’italien, et qui fait alors référence. Il s’agit de la seule version du texte gaditain connue en Italie, tirée à huit éditions en 1814 dont une à Messine et deux à Rome: aucune n’a été imprimée dans le royaume de Naples. Le texte aurait cependant déjà été l’objet de revendications de la part des libéraux napolitains, ce qui laisse supposer une circulation antérieure aux révolutions de 1820.

La circulation des hommes, d’autre part, a contribué de façon déterminante à la diffusion du modèle insurrectionnel espagnol. Les observateurs internationaux s’inquiètent, très tot, de circulations clandestines susceptibles de propager la révolution: le consul britannique en poste dans le royaume, William A’Court, s’alarme dès le 31 mars 1820 des effets produits à Naples par la révolution d’Espagne, notant une agitation non négligeable et la revendication d’une constitution libérale par les carbonari. En juin, il relève plusieurs arrestations de carbonari napolitains à cause de la fermentation provoquée par les nouvelles d’Espagne. Ce sont les memes événements qui produisent, le 22 juin, de violentes manifestations à Salerne conduisant la monarchie bourbonienne à changer deux des intendants en poste dans la province que commande la ville, le Principat Citérieur. Le républicain molisan De Attellis mentionne, tout en restant relativement vague, des rapports d’interconnaissance entre plusieurs pretres du Principat Citérieur, autour de Salerne, affiliés à la Charbonnerie, et des révolutionnaires de la région de Valence qui auraient permis la diffusion du texte à l’échelle locale, un an avant le déclenchement de la révolution. Un pretre libéral très influent dans les réseaux carbonari locaux, Matteo Farro, curé de Bellosguardo, a en effet diffusé la nouvelle d’une révolte libérale survenue à Valence, de retour d’un voyage en Espagne en 1819. Les memes solidarités se retrouvent pendant la révolution où la correspondance de Guglielmo Pepe avec plusieurs sociétés patriotiques espagnoles est régulièrement reproduite par la presse napolitaine.

La promotion du modèle insurrectionnel gaditain n’est cependant pas limitée aux réseaux clandestins de la Charbonnerie. On trouve sur le territoire méridional peu d’Espagnols politisés en lien avec les carbonari napolitains, mais les milieux diplomatiques occupent une fonction non négligeable de passeurs. C’est le cas de l’ambassadeur espagnol Luis de Onis, en poste à Naples depuis 1819, qui entretient des liens épistolaires réguliers avec le général Guglielmo Pepe. (7)

Ridotta dal diplomatico francese Remsberg ad una «grotesque imitation de celle d’Espagne», liquidata da Croce come «lo strascico e la chiusura della stagione murattiana» e descritta da uno dei comprimari (il molisano Orazio de Attellis) come una insurrezione di «pochi uomini oscuri, senza mezzi, senza piani, senza capi (abbenchè a diversi miserabili sia indi riuscito di appropriarsi per un momento alcun de’ gloriosi titoli di Washington, di Tell, di Quiroga, o di Riego)» la rivoluzione del 1829-21 fu “dimenticata” e poco studiata.

Le valutazioni di Croce, di Orazio de Attellis, del La-Cecilia e di altri su fatti e personaggi della rivoluzione di Napoli del 1820-21, a nostro avviso, sono parziali e personali e non rendono giustizia a quella che fu la prima e vera rivoluzione a carattere nazionale della penisola italica.

Solo recentemente, grazie a studiosi come Maurizio Isabella (il quale inserisce il patriottismo italiano nel più ampio contesto internazionale) e ad altri storici, è stato evidenziato il contributo degli esuli italiani ai dibattiti con intellettuali britannici, francesi e ispano-americani, dimostrando quanto liberalismo e romanticismo politico fossero ideologie internazionali condivise da una comunità di patrioti che si estendeva dall’Europa alle Americhe.

Scrive Maria Sofia Corciulo, in un libro da leggere (9):

Le modalità partecipative, le finalità di questa Rivoluzione furono così “interessanti” e rilevanti sia dal punto di vista politico-istituzionale, sia sociale, da costituire in qualche modo l’inizio di un nuovo periodo storico, soverchiante sicuramente su quello della Restaurazione, e cioè il Risorgimento. Giustamente è stato notato che le vicende rivoluzionarie italiane collegate al costituzionalismo gaditano sono state svalutate nell’intero contesto della storia risorgimentale a causa del successivo prevalere, nel 1848, del regno Sabaudo, nonostante l’entusiasmo con il quale anche in quest’ultimo si fosse inalberato il vessillo mitico di tale Costituzione, al quale del resto guardavano con ardimentosa speranza numerosi patrioti degli altri Stati italiani.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa-1820/zde-la-rivoluzione-napoletana-del-1820-1821-documenti-2020.html

I colori della Carboneria:
rosso (la fiamma) nero (il carbone)  turchino (il fumo)
Michele Morelli
Giuseppe Silvati

“Guglielmo Pepe, grande di persona, povero d’ingegno, soldato coraggiosissimo, misero capitano, suppliva coll’ardente patriottismo e con una vita di sacrifici consumati per la patria al difetto de’ consigli e della perspicacia politica e militare che l’avara natura gli aveva ricusato.

[…] Vanitoso, non consultò il suo proprio intelletto, e le due volte senza dubitarsene procurò coi suoi eminenti le più fatali ruine al reame di Napoli ed all’Italia intiera.

Il general Pepe è sceso nella tomba, noi lo ammirammo e lo amammo per la costanza nei propositi e la illibatezza della vita; ma la verità storica non c’impedirà di dire, ch’ei fu la causa involontaria delle sventure italiane del 1820 e del 1849, e i fatti lo proveranno.”

(LA-CECILIA – Storie segrete ec.)

Guglielmo Pepe
Ingresso di Minichini a Napoli

“Pianificata dal M. nei dettagli, l’operazione fu assegnata a un esiguo gruppo di affiliati con elevata preparazione militare: squadre scelte di carbonari e reparti di cavalleria in reciproco appoggio avrebbero comunicato tra loro per mezzo di strumenti tecnici non convenzionali come le «folgori artificiali» (L. Minichini, Luglio 1820: cronaca di una rivoluzione, a cura di M. Themelly, Roma 1979, p. 95).

Iniziato il moto per sua stessa decisione nella notte tra il 1° – giorno di S. Teobaldo, protettore della carboneria – e il 2 luglio, fu chiara subito l’influenza delle forze politiche che operavano dall’esterno.

FONTE: http://www.treccani.it/

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