Alta Terra di Lavoro

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LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (II)

Posted by on Apr 19, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (II)

LIBRO II

Preparativi Partenza da Genova. Viaggio

I. — Mentre in Sicilia la guerra insurrezionale con varia fortuna agitavasi, nell’alta Italia gli animi si ridestavano a novelle speranze. I fatti recenti avevan colpito non già disanimato le popolazioni. I preliminari di Villafranca, susseguiti dall’infausto trattato di Zurigo, avevano, è vero, troncato nella valle del Po la carriera delle armi ed allontanato a tempo indefinito il termine del patrio riscatto.

Ma il genio italiano, genio eminentemente austero e tenace, fremeva sdegnoso entro la cerchia di ferro in cui lo si voleva comprimere, ed in sé concentrandosi cresceva d’intensità e di forza. Il grande alleato, il vincitor di Magenta poteva a sua posta arrestare sul Mincio le trionfanti legioni, ma non però soffocare il sentimento d’indipendenza e le aspirazioni unitarie dei popoli. L’impulso alla rivoluzione era dato e nessuna umana potenza oggimai valeva a frenarne l’irresistibile corso. Napoleone poteva segnare sul Mincio il termine delle sue guerriere fatiche, ma non quello dell’indipendenza e della patria Italiana. A Villafranca egli ci impose la pace: ma era una pace bugiarda ed effimera che doveva ben presto sollevare nuove difficoltà e complicazioni. Infatti non era guari possibile suscitare ne1 popoli i sentimenti di nazionalità e di patria per respingerli poscia sotto lo scettro dei vecchi tiranni. Strana illusione degli uomini, dalla fortuna collocati sul vertice delle umane grandezze, pur troppo si è il presumere di signoreggiare la situazione politica di un popolo in rivoluzione siccome gli ordinamenti d’un esercito sul campo di guerra. La diplomazia imperiale non ottenne l’intento che sera prefisso: aveva creduto risolvere tutte le difficoltà, e le difficoltà ripullulavano ovunque: il malcontento generale di giorno in giorno aumentava e con esso l’incertezza e il malessere, preludio infallibile di crisi vicine e supreme. Infatti il torrente delle idee nazionali straripava da tutte le parti, ed appena a contenerlo bastava l’influenza governativa, sorretta da una vasta cospirazione moderata a tale effetto ordinata e condotta. Invano Napoleone terzo credevasi avere pacificato l’Italia: opera fu solo del governo sardo se ne’ pochi mesi che seguirono la campagna del 1859 la rivoluzione non ruppe i confini alla Cattolica e al Mincio.

II.— Durante la campagna lombarda la ritirata delle truppe dell’Austria aveva determinato l’emancipazione dell’Italia centrale. Le Legazioni, già centro delle cospirazioni rivoluzionarie, avevano scosso il dominio papale, i troni dei proconsoli austriaci erano stati rovesciati a Magenta, e le dinastie di Parma, di Firenze e di Modena avevano cessato di tiranneggiare e d’opprimere i popoli. Tale felice rivoluzione compivasi affatto incruenta e pacifica, imperocché que’ governi non per impulso straniero o per cittadine sommosse, ma caddero da sé, sotto il peso de’ proprii misfatti. Unicamente sorretti dalle baionette dell’Austria i tirannelli italiani disparvero non si tosto soli e disarmati trovaronsi in faccia dei sudditi. Quindi abbandonate a sé stesse e fidenti ne’ propri diritti le popolazioni avevano inaugurato un nuovo ordine di cose e ristaurato l’impero delle autorità e delle leggi.

III.— Se non che trincierata nel suo quadrilatero, antica chiave di tutte le discese imperiali in Italia, l’Austria tiranneggiava tuttavia la infelice Venezia, mentre il Pontefice opprimeva l’Umbria e le Marche, e le Due Sicilie gemevano sotto il feroce dispotismo borbonico. Circa tredici milioni d”Italiani reclamavano la loro porzione al banchetto della fraternità e della’ patria, ed ansiosamente attendevano il giorno del finale riscatto. Né in simili circostanze la via, che si doveva dagl’Italiani tenere, dubbia appariva ed incerta: gli avvenimenti l’avevano tracciata. Bisognava rivendicare a libertà primamente l’Italia meridionale e centrale, riunire in seguito gli sparsi frantumi al gran corpo della nazione, e da ultimo concentrare tutte le forze per affrontare con probabilità di vittoria le falangi dell’Austria entro il recinto medesime del vantato suo quadrilatero.

IV.— Tale era il piano cui la più volgare prudenza consigliava alle popolazioni italiane: e tale per l’appunto fu il piano che gl’Italiani adottarono. Inutile sarebbe ricordare con quanta assiduità ed insistenza il partito liberale s’adoperasse nel febbrajo e nel marzo del 1860 per indurre il generale Garibaldi, il rappresentante militare della idea nazionale, a rompere gl’indugi e ad invadere colle truppe della Lega i dominii pontificii delle Marche e dell’Umbria. La timida prudenza del governo sardo s’oppose all’esecuzione dell’ardito progetto: Garibaldi venne richiamalo a Torino ed indotto a dimettersi e Peserei lo della Lega, per la maggior parte composto di volontari e di veneti, fu per arte del ministero tosto dopo disciolto. In tal guisa liberata dagl’incomodi suoi vicini la Corte di Roma potè per alcuni mesi esercitare la sua libidine d’assoluto comando sui poveri marchigiani e sugli umbri.

V.— Se non che gli avvenimenti incalzavansi malgrado gli sforzi d’un’astuta od incauta prudenza: pareva che una forza superiore ed arcana li spingesse ad una meta suprema. Ad onta dei locali interessi e delle più sante sue tradizioni malia voleva ad ogni costo costituirsi in nazione una ed indivisibile siccome la Francia e la Spagna: e ad un popolo che vuole e vuol fermamente. nessuna cosa è impossibile. In apparenza lutto era finito: in realtà starasi per ricominciare la lotta. Le truppe della Lega erano per la massima parte disperse: l’idea della indipendenza piangeva perduto il suo centro d’azione: la Toscana e le Legazioni dormivan tranquille, alloppiate da vane promesse e lusinghe, e tutto dava a credere già tolto il pericolo di nuove complicazioni e scissure. Ma in mezzo a questa menzognera tranquillità sopravvenne come un colpo di fulmine la notizia dell’insurrezione di Palermo: i moderati perderono il fittizio ascendente che avevano a forza d’arte ottenuto, ed il sentimento dell’unità nazionale ad un tratto ripigliò la sua forza, i suoi dritti.

VI.— La rivoluzione di Palermo, comeché inaspettata, nell’alta Italia produsse una emozione universale e profonda. Essa aveva oltrepassato le previsioni dei moderati del pari e dei patriotti. I primi, partigiani del Regno ingrandito e timorosi di perdere il già conquistato, sognavano un avvenire di tranquillità, di riposo e di pace: questi, disanimati dai molteplici ostacoli che s’opponevano all’attuazione piena ed intiera del nazionale programma, incominciavano a perdere financo la speranza di migliori destini. In tale frangente i popolani di Palermo insorsero gridando un evviva all’Italia e gettarono sul fronte ai tiranni un guanto di sfida: i miracoli del 1848 si riprodussero nella capitale medesima che fu la prima in quell’epoca, gloriosa del pari che infausta, a sollevare il grido di libertà e di patria. I liberali sentirono che in Sicilia combattevasi una guerra di vita e di morte tra il passato e l’avvenire, tra l’unità ed il separatismo, tra la grandezza e la debolezza d’Italia. Tutti gli sguardi stavano ansiosamente rivolti a quel branco di prodi che in nome di Dio e della patria sorgevano coll’armi a rivendicare il diritto di chiamarsi italiani. I giornali consacravano una rubrica alle cose di Sicilia e spargevano, colle notizie, ne’ popoli la speranza della finale vittoria. Era giunto Vistante in cui la nazione svincolata da ogni straniera tutela, abilitata sentivasi a provvedere da sé alla propria salvezza.

VII.— E i liberali non mancarono al loro dovere. Appena si conobbe che la lotta d’indipendenza s’era già impegnata a Palermo, migliaia e migliaia di voci simultaneamente richiesero che si prendessero i provvedimenti opportuni onde la Sicilia venisse soccorsa. Pareva un delitto di lesa nazione rimanere inattivi spettatori duna guerra da cui pure le sorti d’Italia dovevano in gran parte dipendere. Tutti gli sforzi dei moderati non riuscirono a calmare l’effervescenza degli animi che sempre più andava aumentando, e si trovarono all’ine costretti a cedere alla volontà generale.

VIII.— L’iniziativa d’una spedizione armata in Sicilia fu presa contemporaneamente a Milano, a Firenze ed a Genova. A Milano pose il suo campo all’ufficio del Politecnico ed a quello del già cessato giornale la Vanguardia: a Genova presso la Redazione dell’imià Italiana ed all’Associazione Unitaria, ed infine a Firenze al Comitato per la soscrizione al milione di fucili-Garibaldi. E quantunque nulla fosse ancor stabilito si cominciarono a raccogliere danari e munizioni e ad apparecchiare i volontari ad un vicino reclutamento (9).

IX.— Primo pensiero degl’iniziatori fu di dare alla progettata spedizione un condottiero che pe suoi antecedenti militari, pel suo genio e per la sua fama presentasse maggiori probabilità di pieno e felice successo. Gli occhi di tutti si rivolsero al generale Giuseppe Maria Garibaldi, antico soldato di libertà in America ed Roma, e duce naturale de’ volontari italiani. L’immenso prestigio del nome, l’influenza che esercita sulla gioventù, il suo attaccamento all’Italia e la sua cooperazione al trionfo dell’idea nazionale lo rendono il solo capace a compire le più ardue intraprese. Dovendosi tentare uno sbarco sulle coste della Sicilia nessuno meglio di Garibaldi avrebbe potuto assumersene l’onorevole quanto difficile incarico. Abile marinaio quanto prode condottiero d’eserciti egli solo poteva tentare un viaggio traverso le crociere napoletane che dai primi giorni delr insurrezione circondavano l’Isola e ne guardavano i porti. In terra la sua presenza valeva un esercito, né altri che Garibaldi poteva incutere ai Regii quel terrore col quale li vinse più tardi assai più che colla forza delle armi.

X.— Pratiche vennero ben tosto intavolate col generale Garibaldi per indurlo a ripigliare la spada, già deposta alla Cattolica, ed a porsi a capo della nuova spedizione di argonauti che s’andava già maturando. Ma il Generale, sia non fidando nelle voci che attribuivano forse al moto siciliano una estensione che gli paresse esagerata, sia per qualunque altra ragione, rifiutava ricisamente di aderire alle istanze dei compagni e degli amici. Forse la mala riuscita della spedizione alcuni anni prima tentata del colonnello Carlo Pisacane, che ebbe a lasciarvi la vita, dissuadevalo dall’avventurarsi in un’impresa che poteva avere per l’Italia le più serie conseguenze. Con tutto ciò i liberali non si dieder per vinti: malgrado l’assoluta negativa lor data dal Generale ritornavano più tenaci alla carica, e finirono col dissipare i suoi dubbii e col superare la sua renitenza. Dopo varii giorni di tentativi abortiti il Generale cedette alle loro preghiere e si accinse ad ubbidire al voto degli amici che era pur quello d’Italia.

XI.— Il Generale aveva acconsentito, i volontari eran pronti: ma bisognava provvedere ai mezzi di trasporto, di armamento e vestiario. Nelle casse dei varii comitati per la soscrizione al milione di fucili giacevano delle somme di danaro di non gran rilevanza. Alcuni privati offrivano il loro obolo per la santa intrapresa, e potevasi inoltre contare sul concorso della Società Nazionale che volevasi largamente provveduta di fondi. Quanto ai mezzi di trasporto i vapori della società Rubattino o per amore o per forza dovevano servire e si perdette un momento: entro il mese d’aprile fu provveduto a quanto era necessario perché una piccola flotta potesse salpare ad un dato segnale dalle rive di Genova.

XII.— Compagni all’arrischiata intrapresa, a cui la storia di dieci secoli non vanta l’eguale, Garibaldi non domandò. che un migliaio di volontari giovani e scelti (10)). A Milano il primo avviso d’arruolamento per la spedizione in Sicilia comparve sui giornali il 27 d’aprile: la sera del 30 la lista era chiusa. A Genova la Società dei Carabinieri si dichiarò pronta a seguire il Generale, e dalle università gli studenti accorrevano a militare all’appello del vecchio lor condottiero. Il piccolo esercito si radunò incontanente a Genova e credevasi vicino a partire quando un ordine del Generale annunciò che la spedizione era sospesa.

XIII.— Taluni in que’ giorni mormorarono che il governo avesse impartito alle autorità genovesi l’ordine espresso d’impedire con tutti i mezzi la spedizione, e che in conseguenza Garibaldi si credesse obbligato a fingere di abbandonarne il pensiero per deludere così la vigilanza della questura e potersi in tal guisa senza ostacolo poscia imbarcare. Altri vogliono che le cattive notizie provenienti dalla Sicilia l’avessero disanimato e dissuaso dal tentare l’impresa. Comunque ciò sia la partenza fu differita: in parte i volontari già accorsi ritornarono alle usate dimore, ma il maggior numero rimase a Genova aspettando disposizioni ulteriori.

XIV.— Il deputato Agostino Bertani, l’anima della spedizione, aveva frattanto mandato a Torino persone incaricate a provedere armi, munizioni e vestiarii, ed ottenne in tal modo qualche centinaio di carabine, di sciabole, di pistole ed altri oggetti di guerra. Il presidente della Società Nazionale Giuseppe La Farina contribuiva all’impresa per novecento fucili da munizione e per poche migliaia di lire. Cosi malgrado la ristrettezza del tempo e dei mezzi la piccola armata in quel breve intervallo venne provveduta di quello che era estremamente necessario. Dall’altro canto erasi tracciato il piano per impadronirsi dei due vapori della società Rubattino coi quali tentare il trasporto da Genova fino in Sicilia.

XV.— In pochi giorni e con celerità sorprendente tutto fu posto in ordine. Il 2 ed il 3 maggio venne diramato ai volontari secretamente l’invito di radunarsi sull’istante a Genova, perocché il momento di salpare era giunto. A mezzogiorno del 4 la piccola truppa si trovò raccolta presso il comitato iniziatore in attesa delle risoluzioni che in seguito sarebbersi prese (11).

XVI.— Cosi fra le agitazioni e le cure passò la giornata del 4. Garibaldi diffatti trovavasi nella situazione per avventura più ardua e difficile che mai avesse incontrato in tanti e tant’anni di sua vita militare ed errante. Egli disponevasi a partire per una spedizione lontana ed irta d’inciampi e pericoli, l’esito della quale non potea prevedersi: ed assumevasi una immensa responsabilità, di cui l’alternativa finale doveva essere od una gloria immortale od una immeritata ignominia. Ben sapeva che il mondo riverente s’inchina alla divinità del successo; ma che sarebbe avvenuto se l’ardito argonauta avesse dovuto, come Pisacane, come Bentivegna, soccombere? La reazione avrebbe condannato all’infamia la memoria dello sventurato patriotta; il mondo lo avrebbe qualificato di filibustiere e brigante, né mancare i moderati potevano di calunniare la lealtà delle sue intenzioni o di chiamarlo per lo meno fanatico e pazzo. Né forse sarebbe mancato chi avrebbe spinto il cinismo al segno di attribuirsi in faccia alla moderazione europea il vanto della sua perdita. Se Garibaldi fosse caduto od a Marsala od a Palermo i mille prodi che lo accompagnarono sarebbero stati, siccome rivoluzionarii e repubblicani, posti al bando delle nazioni civili.

XVII.— Erano tali i pensieri che naturalmente assediavano in quegl’istanti supremi la mente dell’invitto guerriero. Ma prima dipartire egli volle giustificare agli occhi del mondo l’impresa alla quale accingevasi, prevenire le calunnie e le accuse di nemici e di amici mal fidi col dichiarare quali fossero i suoi intendimenti ed i suoi fini, e da ultimo rivendicare, per ogni caso di fortuito disastro, la memoria di sé e dei compagni. In un ordine del giorno diretto ai mille suoi prodi ed in varie lettere ch’egli scrisse agli amici altamente dichiarò di recarsi in Sicilia, non con idee sovversive e repubblicane, ma in nome e col vessillo d’Italia e del suo re Vittorio Emanuele, per liberare quei popoli dalla tirannia dei Borboni e riunirli al gran corpo della nazione. Protestò non aver consigliato i moti di Sicilia, ma che venuti alle mani quei nostri fratelli, credeva obbligo suo d’aiutarli. Questa dichiarazione cosi esplicita che si riscontra in tutte le lettere scritte dal Generale in que giorni prova ad evidenza qual cura egli ponesse ad ¡sventare le future calunnie de suoi avversarii e nemici: né fatalmente le sue previsioni in ciò lo ingannarono (12).

XVIII.— In appresso rivolse ogni cura ad assicurarsi alle spalle un centro d’azione da cui potesse trarre i necessarii soccorsi di denaro e d’uomini. Diede quindi al deputato Bertani l’incarico di rappresentarlo presso l’Italia, di raccogliere danari e soldati e di ordinare altre spedizioni (13). Scrisse a Caranti una lettera dello stesso tenore, ed ingiunse al signor Pontoli di Parma di raccogliere, ove non l’avesse fatto l’Associazione Unitaria di Milano, le somme versate dagli oblatori al milione di fucili e di depositarle presso il deputato Bertani suddetto (14).

XIX.— Bisognava da ultimo impedire che a Napoli pervenisse Pannunzio della partenza da Genova. Garibaldi pertanto dispose che una compagnia di volontari destinati ad imbarcarsi a Quarto si recasse sul far della notte ai Giardini pubblici ed occultamente rompesse i fili del telegrafo. Un altro taglio doveva eseguirsi presso lo stesso villaggio di Quarto ed un terzo nelle vicinanze de,’ Camogli ove una squadra di toscani doveva aspettare la spedizione e con essa congiungersi. Il taglio del telegrafo, come era intenzione del Generale, venne eseguito ai Giardini ed a Quarto: ma tutte le precauzioni furono vane imperocché, come vedremo, il governo borbonico era già di tutto informato prima ancora che la spedizione salpasse da Genova. Il giorno prima che Garibaldi abbandonasse la terra ligure, la flotta napoletana usciva dai regii porti per opporsi al suo sbarco in Sicilia.

XX.— La mattina del 5 per tempo venne ai volontari comunicato l’invito di apparecchiarsi definitivamente alla partenza, che doveva effettuarsi la successiva notte ad ora assai tarda. Ad oggetto di deludere la vigilanza delle autorità e delle guardie (15) il Generale prese le misure più opportune perché i preparativi fossero condotti colla maggiore celerità e secretezza possibile. Malgrado l’apparente sua sicurezza e la serenità impassibile della sua fronte Garibaldi mostrava e nel contegno e negli atti di diffidare altamente della buona volontà del governo e de’ suoi agenti. Quindi egli divise la sua piccola armata in tre squadre e la dispose su tre punti diversi per modo che potesse rapidamente e con tranquillità imbarcarsi. I due vapori destinati al trasporto stavano già ancorali nel porto, sotto le stesse batterie della fortezza, in attitudine di perfetto riposo. Nulla annunziava che quelle due moli tranquille ed immobili fossero destinate ad un prossimo viaggio. I novecento fucili dati dal La Farina, comeché rugginosi e per poco inservibili, poche migliaia di lire, alcuni quintali di biscotto e di cacio, oltre ai combustibili bisognevoli per le macchine? formavano tutto L’approvvigionamento di una spedizione di mille argonauti che in pieno secolo XIX volavano, come gli antichi Greci e i Normanni, alla conquista di un regno.

XXI.— Il mattino del 5 una colonna di volontari sparpagliata in piccoli drappelli e senza ordine usciva da Porta Pila rivolgendo i passi al villaggio di Quarto a tre miglia circa da Genova, dove aspettare doveva che i vapori venissero a levarla. Garibaldi aveva con saggio consiglio provveduto che i militi pervenissero al luogo di destinazione alla spicciolata, a tre, a quattro, a dieci per volta, affine di evitare gli ostacoli. Per lo che i volontari impiegarono tutta la giornata del 5 a compire il viaggio di tre miglia, né si trovarono radunati a Quarto se non alle ore 9 e mezzo di sera. Il generale stesso vi si trovava alla Villa Spinola in compagnia del suo Stato Maggiore, e vi ebbe un lungo colloquio con La Farina. I militi disseminati per gruppi stazionavano davanti alla porta e lungo i viali. I terrazzani in gran folla attendevano per salutare il nuovo Colombo che dal medesimo mare partiva per un’ignota e non meno ardua intrapresa.

XXII.— Un’altra squadra doveva imbarcarsi alla Foce e prendendo il largo girare il molo e penetrare nell’interno del porto ove i vapori stavano attendendola. La distanza, il tempo, le difficoltà del tragitto, tutto fu con matematica precisione calcolato perché nessun ostacolo sopravvenisse a turbare i piani del Generale. Le disposizioni date quel giorno furono oltre ogni credenza astutissime. Le complicazioni dei movimenti abilmente combinati eran quali potevansi meglio desiderare dal più provetto capitano marittimo. E non è meraviglia se le autorità si lasciarono ingannare da tali manovre che mascheravano completamente le intenzioni di Garibaldi (16). La stessa sua assenza in quella sera da Genova fu un trovato stupendo del suo genio e mirabilmente servi a’ di lui fini.

XXIII.— Finalmente una terza colonna e la men numerosa composta dei capi della spedizione doveva penetrare dal lato della dogana nel porto e salir quindi a bordo dei vapori ancorati ed apparecchiarli a salpare. La cosa era difficilissima atteso che il movimento doveva compirsi sugli occhi stessi delle guardie, le quali non avrebbero potuto far a meno di accorgersi. L’esecuzione di questa parte, la più pericolosa del piano suddetto, venne da Garibaldi affidata a Nino Bixio, che per la sua abilità, pel suo coraggio e per l’esperienza meglio poteva d’ogni altro in quel frangente condursi (17). Stava da un canto del porto un’antica fregata di guerra abbandonata e senz’alberi, sulla quale da gran tempo non salivano che operai o pescatori a riposare od asciugarvi le reti. Galleggiante cittadella dell’Oceano avea già sfidato le procelle ed i venti, ed ora inutile arnese, si consumava nella solitudine e nella inazione. Bixio ne trasse partito e riusci per essa a coprire i suoi movimenti. Disceso a notte fatta co’ suoi sulla riva si fece condurre sulla vecchia fregata, ove contava occultarsi finché l’istante favorevole gli paresse arrivato di salire a bordo del Piemonte e del Lombardo. Lo stratagemma di Bixio ebbe pieno successo: le guardie del porto vedendo il palischermo abbordare la solitaria carcassa, di nulla presero sospetto e lasciarono che i volontari tranquillamente a’ fatti loro attendessero. Questi vi rimasero per più ore appiattati sino a che parve al Generale di essere abbastanza securo: allora discesero inosservati nel palischermo e chetamente volando sulle onde pervennero salvi e trionfanti al loro destino.

XXIV.— Quasi al tempo medesimo la squadra partita dalla Foce, dopo avere con lungo circuito girato la spiaggia, a bordo essa pure giungeva. Per sommo favor di fortuna era riuscita a penetrare traverso tutti gli ostacoli e ad entrare nel porto senza che anima vivente se ne avvedesse. Da quell’istante l’esecuzione del piano poteva considerarsi siccome compiuta: non rimaneva che uscire dal porto ed allontanarsi al più presto, giacché poteasi temere che le autorità accorgendosi della loro partenza avrebbero dovuto impedirla. Alla punta dell’alba o i due vapori si trovavano al largo od era la spedizione dei Mille abortita. Con tutto ciò, e malgrado la generale impazienza, il Lombardo ed il Piemonte rimasero immobili per due lunghissime ore: del che fu causa non avere a bordo se non combustibile avariato ed umido per cui appena si giunse dopo inaudite fatiche ad accendere il fuoco.

XXV.— Alle ore 2 del mattino la flottiglia usci chetamente dal porto e s’inoltrò in allo mare protetta dalle tenebre e dal generale silenzio. I due vapori si diressero lentamente verso la spiaggia di Quarto, ove la terza colonna stava da quattr’ore attendendoli. Cagione della loro lentezza era che Bixio, aspettando a bordo un’imbarcazione di eletti giovani volontari toscani completamente armati ed equipaggiati, mal volentieri disponevasi a proseguire il viaggio senza prima averla raccolta. Ma le ore passavano né la barca si vedea comparire. Bisognava accelerare la corsa se pur volevasi prima del levare del sole uscire dall’acque di Genova; un ulteriore ritardo poteva riuscire fatale. Stanco alla fine di attendere, Bixio ordinò al pilota di volgersi a Quarto. Più tardi si conobbe la causa di quei contrattempo. La barca che doveva recare a bordo la squadriglia toscana, smarritasi nell’oscurità della notte, aveva deviato dalla linea dei vapori: essa vagò lungamente sull’onde indarno cercandoli. Giuntole addosso il giorno e scoperta dai legni sardi venne arrestata e ricondotta, triste e scorata, a Genova.

XXVI.— I volontari già radunati a Quarto stavano, come si disse, con angosciosa impazienza aspettando l’arrivo dei loro compagni. Fino dalle 10 della sera il generale Garibaldi usciva dalla Villa Spinola e, dopo essersi per qualche tempo trattenuto con La Farina, si diresse accompagnato dai suoi verso la spiaggia. I volontari guidati dal lor generale tacitamente discesero per un angusto sentiero fiancheggiato d”alberi e siepi. Giunti alla riva ritrovaronvi da dieci a dodici barche tra piccole e grosse e varii facchini che attendevano a caricare i moschetti. Sopra uno scoglio Francesco Crispi accompagnato dalla moglie, vera amazzone del secolo XIX e l’unica donna che fece parte della prima spedizione, sopraintendeva alla esecuzione degli ordini dati da Garibaldi. I volontari vinti dall’impazienza non soffrirono di attender più oltre ma irruppero nelle barche ove in breve si trovarono stipati e pigiati a guisa di pesci. Allora le barche si mossero e lentamente pigliarono il largo, favorite da una frizzante e leggerissima brezza. L’ultimo battello che si stacci dalla riva portava il generale Garibaldi, il colonnello Sirtori ed alcuni altri ufficiali di Stato Maggiore. L’ imbarco si effettuava alle ore 10 e mezzo circa della sera in mezzo alla calma ed al più perfetto silenzio.

XXVII.— Era limpido il cielo e bella e serena la notte. La luna risplendeva sull’orizzonte, ed i suoi tremuli raggi sfavillavan sui flutti quasi gruppi fosforescenti di scintille innumerevoli, mobilissime. Un placido venticello coll’alito lieve increspava la tranquilla superficie del mare e dolcemente spingevalo a lambire la spiaggia. Miriadi di stelle illuminavano coloro taciti sguardi quell’audace gioventù che affrontava fatiche ignote e pericoli coll’incuranza dell’abnegazione e dell’eroismo. Tutto faceva presagire un fortunato viaggio ed un risultato felice. Le barche placidamente, disposte in bell’ordine, vogavano sull’immensità degli abissi; e tutti gli sguardi stavano rivolti a ponente, intesi ad ¡scoprire i navigli che dovevano indi levarli. Ma le ore passavano con insopportabil lentezza: si sentirono battere sulle torri dei circostanti villaggi le dodici, un”ora, due ore, né la flotta aspettata ancor compariva. L’agitazione, l’orgasmo era universale e supremo. Intanto, benché fosse profonda bonaccia, le barche vogando a cavalcione sull’acque ondoleggiavano, il che fu cagione che molti incominciarono a provare gli effetti del mare. I più felici avevano potuto addormentarsi, ma furono pochi, attesoché nella maggior parte delle barche quegli afflitti trovavansi siffattamente stipati, che lor diveniva impossibile, non che sdraiarsi e riposare, il sedere ed il muoversi.

XXVIII.— In quella posizione, oltremodo penosa ed incomoda, i volontari durarono per più di cinque ore. Tuttavia non fu proferito un lamento né formulata una frase sola di rimprovero. Gravissimi furono i tedii ed i disagi sofferti, ma i generosi erano pronti ai più grandi sacrificii quanto ai più tremendi pericoli. Le imbarcazioni frattanto sempre più s’inoltravano: fra l’altre ‘quella che a prua portava un fanale a fiamma rossa e verde che serviva, secondo i presi concerti, di segnale ai vapori stava collocata nel mezzo. In tutto quel noioso spazio di tempo fu mantenuto il più completo e rigoroso silenzio.

XXIX.— Finalmente alle ore tre e mezzo del mattino apparvero sul lontano orizzonte quasi due moli brunastre che s’avanzavano lente e maestose sull’onde. A poco a poco accostandosi i volontari ne scoprirono i segnali e le riconobbero pei navigli si a lungo aspettati. Incontanente la fausta novella venne comunicata colla rapidità della folgore dall’una all’altra barca,c ricolmò i, volontari di giubilo. In quell’istante di ebbrezza fu impossibile mantenere il silenzio: un grido guerriero di gioia da tutte ad un tempo le imbarcazioni elevandosi fragoroso ed unanime rimbombò sulla vastità dell’oceano, e si perdette tra gli scogli delle spiaggie vicine. Ma fu un grido passaggiero, istantaneo: dopo alcuni secondi tutto rientrò nella calma.

XXX.— IlPiemonte ed il Lombardo celeramente procedendo erano giunti frattanto in accia alle barche. Il generale Garibaldi pel primo sali sul Piemonte. Allora tutte le imbarcazioni si misero in moto per avvicinarsi ad ascendere a bordo, né la salita fu senza rischi e pericoli. Tutti i volontari indistintamente voleano viaggiar sul Piemonte perché vi aveano veduto salire ramato lor Generale. Ma la fretta e la confusione fu si grande che nei primi momenti molti arrischiarono d”essere capovolti e tuffati nel mare. I palischermi spinti a tutta forza di remi urtavansi orribilmente gli uni cogli altri: la scaletta del vapore si vedeva afferrata da otto, da dieci persone per volta, le quali aspramente contendevansi l’onore di trovarsi sul battello comandato da Garibaldi. Ed appena gli sforzi degli ufficiali bastarono a contenere la folla ed a porre nell’operazione l’ordine necessario ad evitare qualche serio disastro. Nello spazio di circa venti minuti tutti i volontari si trovarono a posto, gli uni sul Piemonte e gli altri, e furono assai più numerosi, sul Lombardo.

XXXI.— Il primo dei due legni, più piccolo e più veloce, Garibaldi si tenne per sè, dell’altro diede il comando al valente generale ed amico suo Nino Bixio. Garibaldi in quella notte portava un’ cappello a larghe ale ed ornato di piume: il resto del corpo appariva ravvolto in una specie di mantello bruno. Sull’altro vapore Nino Bixio indossava un uniforme militare a mostre rosse, da quanto per lo meno appariva alla dubbia luce della luna cadente. Entrambi vedevansi ritti ed alteri dirigere dai tamburi le imbarcazioni degli? uomini e delle provviste.

XXXII.— Dalle quattro alle sei l’equipaggio si occupò a caricare sui vapori le armi, il carbone ed i viveri recativi in apposite barche, le quali avevano fino allora seguito i volontari di cui parevano formar la retroguardia. Soltanto alle ore sei del giorno cinque maggio la flotta potè levar l’ancora e prendere definitivamente il largo.

XXXIII.— In tal guisa Garibaldi partiva per l’arduo viaggio fidando nella sua stella, nella buona fortuna d’Italia, nel proprio e nel valore de’ suoi generosi compagni. Nessun maggior elogio può farsi a quei bravi della fiducia che l’illustre generale dichiarava avere in essi riposta. Con un bell’ordine del giorno, vero modello della maschia e severa eloquenza del campo, Garibaldi, deplorando le antiche scissure ed ammirando l’attuale concordia delle popolazioni, esortava i compagni. a portare ne’ futuri cimenti quel valore di cui avevano dato prova nelle passate battaglie, ed inculcava la fiducia nei capi e l’amore alla disciplina siccome le basi di quel marziale ordinamento di cui avranno ben tosto mestieri quando dovranno nell’alta Italia presentarsi a maggiori conflitti. Raccomandava finalmente in nome della patria risorta di vieppiù stringersi intorno alla santa bandiera sotto cui militavano ed a quel Vittorio che non deve tardare a condurli a definitiva vittoria.

XXXIV.— I due navigli, a breve distanza l’uno dall’altro, procedevano celeramente radendo la «costa nella direzione sudest. I volontari stipati. sul ponte parevano abbandonarsi alla contemplazione delle svariate e pittoresche. bellezze. della fuggente riviera percossa dal sole nascente, decorata di ville superbe e di ameni villaggi e coronata d’innumerovoli boschetti d’aranci e d’ulivi. È pur commovente e stupendo l’aspetto dell’aperta, natura: è pure incantevole e bello il sorriso, delle, spiaggie italiane! Ma que’ generosi tenevano. alt trave rivolta la mente, abbenché i loro sguardi sembrassero posare inchiodati ed immobili sulla, magica scena che lor si parava davanti. Precorrendo le distanze ed i tempi, il pensiero dei prodi forse vagava oltre le terre ed i mari in traccia di nuove, non ancora combattute, vittorie.

XXXV.— Erano le 8 del mattino. La brezza dapprima si dolce e soave, diveniva già rigida e fredda, ed il mare sino allora si calmo incominciava a gonfiarsi. Dense colonne di nebbie sospinte dal vento discendevano sui ciglioni dei monti ed a poco a poco allargandosi coprivano il lontano orizzonte: ed il cielo dianzi si puro e si limpido mano mano malinconico e cupo facevasi. L’alternarsi inquieto dei flutti imprimeva ai navigli quel moto ondulatorio ed instabile i cui effetti funesti si fanno cotanto vivamente sentire agli insoliti viaggiatori marittimi. 1 sintomi delle angosce future principiavano già a comparire sul volto di tutti quando i vapori gettarono l’ancora nella rada di Camogli.

XXXVI.— In quel punto le 9 battevano alla torre del vicino villaggio. La popolazione di quel luogo rimoto, animala da vero sentimento di patria, già da lung’ora aspettatali, e con entusiasmo

salutò il loro arrivo. Alcune barche peschereccio, staccatesi dalla sponda, apportarono a bordo varii carichi d’olio e dj grasso e delle botti d’acqua dolce, di cui s’aveva grandemente bisogno. Ma una imbarcazione di volontari toscani che doveva trovarvisi (era quella destinata ad eseguire un terzo taglio al telegrafo) non si vide con esse venire, il generale in attesa del loro arrivo fece sospendere per qualche tempo la partenza dei legni; ma poiché nessun compariva levarono l’ancora e ripigliarono il viaggio.,

XXXVII.— Frattanto le nebbie crescenti involgevano d’un velo densissimo il cielo, la terra ed il mare. Una pioggia fitta e minutissima rendeva il soggiorno sui ponti oltremodo noioso. I volontari incominciarono più fortemente a risentire gli effetti del viaggio sopra un mare agitato e rigonfio: le traccie di orribili patimenti vedevansi impresse sul volto di tutti. E il tempo frattanto facevasi ognor più minaccioso e più brutto; le onde sconvolte violentemente frangevansi contro ai fianchi d’ambi i vapori. Il ponte s’ingombrava di giacenti, e il pallore mortale dei loro volti chiaramente annunziava l’affanno acuì soggiacevano. Il numero degl’infelici colpiti dalmate di mare di minuto in minuto aumentava. Sul Piemonte il solo Garibaldi si vedeva dal tamburo impassibile e calmo sfidare la furia del vento e dell’onde e dirigere colla voce e col gesto le operazioni del timoniere e della ciurma. Nino Bixio altrettanto facea sul Lombardo.

XXXVIII.— Giunsero a 40 ore in vista di Rapallo. In quel punto la monotonia della corsa fu rotta da un doloroso accidente. I volontari sdraiali sulla tolda del Piemonte tutto ad un tratto sentirono un tonfo come di un corpo pesante che fosse caduto nell’acqua. Air istante medesimo la voce stridula ed acuta del timoniere fece risuonare t nell’universale silenzio il terribile grido. Un uomo in mare. Per un movimento istantaneo tutti furono in piedi: lo sgomento, la costernazione fecero per un istante dimenticare le angosce che tutti soffrivano. Un canotto è slanciato nell’acqua e due marinai vi si precipitano, mentre il Generale comanda al macchinista di arrestare il vapore, e dirige col gesto e con la voce il battello. Dopo alcuni minuti passati in mortale silenzio, i marinai saltellanti a cavalcione dei flutti, sulla sponda del battello abbassandosi, afferrarono pe’ capelli il caduto ed a sé lo trassero in salvo. Allora una esclamazione di gioia proruppe da cento labbra ad un tempo, quasi che tutti sollevati apparissero del peso d’orrenda e comune sventura. Appena i marinai riguadagnarono il ponte da tutte le parti si chiese se vivo ancor fosse, e la risposta affermativa del Generale ridonò a que’ prodi la rassegnazione e la calma. Frattanto ogni maniera di soccorsi venne prodigata al naufrago: ma l’asfissia avea di già fatto progressi tali che molte e molte ore ci vollero prima che gli si facessero riavere i sensi smarriti. Si mormorò da taluni che l’infelice non fosse caduto, ma che affetto da antica mania, si fosse da sé gettato nel mare: asserzione a verificarsi impossibile.

XXXIX.— Nel frattempo il Piemonte, comeché più leggiero e più rapido, aveva di qualche miglio precorso il naviglio compagno. Garibaldi ordinò che si rallentasse la macchina onde il Lombardo potesse raggiungerlo e procedere uniti. Al medesimo tempo fece issare all’albero di poppa la banderuola di segnale perché Bixio, scorgendola, sapesse a qual punto rivolgere il corso. Né molto andò che il Lombardo comparve, e Garibaldi che lo attendea pensieroso come lo vide vicino ad alta voce domandò al capitano quanti fucili e quanti revolvers a bordo tenesse. «I fucili son mille,» Bixio allora rispose, «e revolvers nessuno!» — Il Generale parve un istante colpito da tale rivelazione, ma si ricompose ben tosto e salutando l’amico suo colla mano gli disse: «Bene, navigate vicino.»— Indi rivolto al macchinista ordinò di ripigliare il cammino.

XL.— Cosi lenta ed oltremodo noiosa scorrea quella triste giornata. I volontari molto avevan sofferto e molto ancora soffrivano. Sul far della sera crebbe la furia del vento e con essa il fragore dell’onde, il cigolio delle sarte e delle vele e l’agitazione, l’affanno e lo sconforto dei militi. Da sedici ore che gli infelici tenevano il mare non avevano avuto un istante di calma. E la notte scendeva a ravvolgere il creato in un velo densissimo di nebbie e di tenebre, ed a rendere il viaggio più doloroso ancora e terribile. Tutto facea per quella notte temere un’orrenda e spaventosa burrasca. Le camere dei valori stipate vedevansi di volontari confusamente sdraiati o seduti e si pallidi ed immobili che pareano altrettanti cadaveri. Sul ponte dei due legni non si contavano più di venti militi capaci di tenersi in piedi.

XLI.— Diversi tra i militi, nuovi all’ondoso elemento, aveano seco nell’imbarcarsi portato delle provvigioni con cui prevenire od alleviare i disagi d’un’eventuale fortuna di mare. Tali provvigioni consistevano in frutta, in pesci salati, in pastiglie e in liquori. Ma la maggior parte, inesperta ed improvvida, non aveva pensato a munirsi del necessario e giaceva senza refrigerio e soccorso. Se non che la carità fratellevole dei compagni non mancò di accorrere in aiuto: le scarse provvigioni furono poste in comune e ciascun n’ebbe quel tanto che tra molti poteasi dividere. Del resto erano costretti a cibarsi di pane e di cacio, unica sorta di nutrimento che si trovasse a bordo, imperocché un carico di carne fresca di bue, essendosi guasto, fu gettato nel mare. Né il Generale serbava per sé trattamento migliore: Garibaldi, lo Stato Maggiore, gli ufficiali, i soldati e la ciurma, senza distinzione di grado, cibavansi alla tavola stessa. Solamente una volta nella mattina del 7, in 24 ore di fortunoso viaggio, si potè distribuire un po’ di minestra alla meglio condita, ma in tanta scarsità che non ve n’ebbe per tutti. Garibaldi udendo che il secondo comandante di bordo lamentava la mancanza di riso, con piglio severo gli disse: Chi di noi vorrebbe pensare alle privazioni? Ben altri sacrifici abbiam fatti «e ne compieremo ben altri pel nostro paese! I volontari in cuor loro applaudirono, né da quelr istante più alcuno parlò di minestra.

XLII.— Ma un’altra mancanza facevasi al vivo sentire, ed era la scarsità dell’acqua potabile. Malgrado le fatte provviste la sera e la notte del sei furono molti che dovettero soggiacere all’insoffribile tormento della sete. Un mezzo bicchier d’acqua sarebbe stato in quell’istante un dono del cielo per le avide fauci di tanti infelici. Eppure l’equipaggio tutto sopportava con eroica rassegnazione.

XLIII— Alle 11 di notte i due vapori traversavano chetamente il canale di Piombino. Colà doveva trovarsi una imbarcazione di 300 toscani. Ma non vedendo i convenuti segnali la flotta passò oltre proseguendo il viaggio. E si fu in quell’acque che un vapore appartenente alla marina napoletana, l’Amalfi passò loro vicino e li vide: ma non riconoscendoli, o non amando prendersi brighe, progredì tranquillamente dal lato di Genova.

XLIV.— Tuttavia costeggiando le rive i vapori percorrevano celeri,e muti gran tratto di strada. Frattanto il giorno 7 cominciò sotto i più favorevoli auspicii: dopo la mezzanotte la scena parve affatto cangiarsi. A poco a poco la furia del vento cedeva, le onde si facevano più lente e più rade, ed il mare ritornava tranquillo. Le nubi, il giorno prima, si opache e si dense, ognor più dileguavansi, il cielo diveniva sereno e scintillante d’innumerevoli sprazzi di luce, e coll’oscurità del nembo spariva ben anco ogni traccia de’ sofferti disagi. Per tal modo con un tempo magnifico la spedizione alle ore 6 del mattino tranquillamente giungeva nelle acque toscane.

XLV.— Alle ore 8 e mezzo del 7 Garibaldi arrivava in vista di Schia, piccolo villaggio toscano situato non lunge dalle liguri spiaggie, e di là procedendo nella direzione sudest si trovò dopo trenta minuti di fronte a Talamone, dove aveva divisato fermarsi. È Talamone un piccolo borgo abitato da circa cinquecento individui, addetti al commercio del carbone ed alla pesca. La vicinanza delle famose maremme ne rendono il clima micidiale e terribile, per lo che dopo il maggio le persone appena agiate, abbandonando il pestilenziale soggiorno, cercano sottrarsi alle fatali sue febbri. Di fronte a Talamone scorgonsi gli avanzi dell’antichissima torre de’ Tolommei, si celebre pel tragico fino della Pia e pe’ versi divini di Dante. Circondata da immensi paduli la spiaggia non presenta che un aspetto desolato ed oltremodo malinconico e triste: l’acqua dolce vi è scarsa ed appena bevibile, il suolo ingrato ed ignudo. È un punto perduto, per così dire, tra i deserti e le lande ed ignoto quasi agli stessi geografi. Solo il passaggio dei Mille lo rende e ne’ secoli venturi il renderà chiaro e famoso. Il timoniere del Piemonte per ordine di Garibaldi rivolse a terra la prora: il Lombardo segui vaio accosto: e passati pochi minuti i due vapori felicemente gettarono l’ancora.

XLVI.— Allora il comandante del porto si recò sul Piemonte dovrebbe con Garibaldi un secreto colloquio. Nessuno conobbe il tenore de loro discorsi. Pare però che si volessero prendere le misure opportune perché i volontari potessero liberamente scendere a terra e rimettersi con un breve riposo dei patimenti il giorno prima sofferti. Questa era forse l’una delle cause ma non certo la sola che determinò Garibaldi a sostare; ché ben altre cure il prudente condottiero volgeva nell’anima Egli non poteva ignorare che i più gravi pericoli ancor rimanevano a vincersi, e che aveva a compire la parte più seria dell’ardua missione. Malgrado le precauzioni prese il governo di Napoli poteva essere prevenuto della partenza da Genova, nel qual caso non avrebbe mancato di dare i provvedimenti necessarii per impedire lo sbarco in Sicilia. Oltre le crociere che sorvegliavano severamente le coste dell’Isola, le flotte napoletane ancorate a Gaeta e nel golfo di Capri potevano correr incontro ai volontari e soverchiarli col numero e col peso dei loro vascelli, giacché in un attacco sul mare Garibaldi sarebbe rimasto irremissibilmente perduto. Trattavasi quindi d’ingannare la flotta napoletana e di deludere la vigilanza delle numerose crociere: ed è questo lo scopo a cui il Generale mirava decidendosi alla fermata d’un giorno. Ma come egli non palesava i suoi secreti a nessuno, cosi nessuno poteva farsi ragione di quanto avveniva.

XLVII.— E Garibaldi apponevasi al vero. A Napoli la partenza dei volontari da Genova era già conosciuta prima ancor che salpassero. In conseguenza una flottiglia napoletana usciva dai porti del regno coll’ordine di cercar Garibaldi, di attaccarlo ed affondarlo o di condurlo prigione. La flotta avanzavasi verso ponente percorrendo la linea medesima che Garibaldi doveva tenere, e riavrebbe senza dubbio incontrato se collo strattagemma della fermata a Talamone egli non l’avesse ingannata. I Napoletani, tratti in errore per l’astuta manovra del Generale Italiano, non ¡scorgendo da verun lato il nemico, procedettero verso le rive della Liguria, lasciandosi Garibaldi alle spalle, mentre credevano averlo di fronte.

XLVIII.— Verso le dieci il Generale scendeva da bordo accompagnato dal suo stato maggiore e dal comandante del Lombardo. Allora i volontari si schierarono sul ponte d’ambi i vapori, dove loro fu data lettura dell’ordine del giorno. I volontari sarebbero chiamati Cacciatori delle Alpi ed avrebbero costituzione ed ordinamento d’armata italiana. Eglino dovrebbero portare in Sicilia quel valore e quell’abnegazione di cui avevano date tante prove nella antecedente campagna, a Varese, a Como ed a Brescia. Il grido di guerra lo stesso che risuonò un anno prima sul Ticino, sul Mella e sul Mincio, Vittorio Emanuele ed Italia. Nel contesto l’ordine del giorno recava le parole, i pensieri e le frasi che si riscontrano in quasi tutte le lettere scritte da Garibaldi in que’ giorni (18).

Sembra che al paro delibarmi napoletane egli temesse od almen diffidasse delle Calunnie di amici mal fidi. La lettura fu terminata in mezzo a fragorosi ed unanimi applausi: ma un solo grido dominava quell’immenso clamore, ed era un evviva a Garibaldi, alla Sicilia, all’Italia.

XLIX.— Lo stesso ordine del giorno annunziava le nomine degli ufficiali componenti lo Stato Maggiore, determinava il numero delle compagnie che formare dovevano la forza attiva o di linea e ne regolava il comando. A capo dello Stato Maggiore fu chiamato il colonnello Giuseppe Sirtori, il prode veterano delle Lagune, e Nino Bixio venne eletto comandante generale delle sette compagnie che comprendevano l’intiero corpo di spedizione.

L. A mezzogiorno ebbe principio Io sbarco: tutti i battelli della rada furono impiegati a trasportare i volontari e gran parte della ciurma. Ad un’ora pomeridiana l’intiero corpo si trovò in terra ferma: ed i militi dimentichi delle sostenute fatiche, s’affratellarono con que’ buoni abitanti, la cui pretta pronuncia toscana era oggetto di universale ammirazione. Per un istante quel deserto e squallente villaggio parve affatto cangialo. Un migliaio di giovani arditi, esultanti, affamati aveano bastato ad infondergli il moto e la vita.

LI.— Ma il Generale non per questo s’abbandonava al riposo, né menomamente frenava la sua abituale attività di corpo e di spirito. Una pattuglia composta di quattro uomini fu destinata a requisire dai legni camoglini ancorati nel golfo un carico d’olio e di grasso. Il colonnello Stefano Türr venne con un’altra pattuglia spedito al forte di Orbitello, indi non molto discosto, por richiedere a quel comandante alcuni pezzi di artiglieria e delle munizioni da guerra, il che gli fu facilmente accordato. Vero è che Garibaldi, interpretando i sentimenti della nazione, avrebbe in caso di diniego adoperato la forza per ottenere ciò ch’era pur necessario pel buon esito dell’impresa. Finalmente un corpo di cinquant’uomini fu distaccato dall’esercito, posto sotto gli ordini del maggiore Zambianchi e spedito nell’Umbria. Vedremo in appresso qual sorte i redentori d’Italia a quei bravi serbassero.

LII.— Lo Stato Maggiore frattanto non che gli ufficiali superiori occupavansi dell’ordinamento del corpo, della formazione e distribuzione delle compagnie e della scelta dell’ufficialità subalterna. Quanto a questa era data ai comandanti facoltà di nominare persone di loro speciale fiducia: per il che, le nomine, fatte in via provvisoria, sarebbero state confermate in appresso. Tali operazioni compiute Garibaldi passò in rassegna la piccola armata, e quindi i volontari si sparpagliarono sulle rive del golfo in aspettazione della vicina partenza.

LIII. — In tal guisa passava il rimanente del 7 e gran parte del successivo giorno 8 di maggio. Nel frattempo le imbarcazioni della rada non ristavano dal trasportare a bordo munizioni artiglierie e viveri. Alcuni cassoni di cartucce e di polvere vennero distribuiti fra i due legni: gli affusti del pari furono deposti parte sul Piemonte e parte sul Lombardo.

LIV. — Verso la sera dell’8 i volontari ritornarono a’ bordo. Alle nove di notte fu dato ordine di tenersi presti a partire, ma dopo mezz’ora la partenza venne di nuovo sospesa. Forse il Generale avvertito, per mezzo d’ignoti segnali, di qualche vicino pericolo si credette costretto a differire il viaggio: forse la flotta nemica, uscitagli incontro da Napoli, navigava in quel punto nelle vicinanze ed a rintracciarlo veleggiava su Genova. Ma dalla fronte del Generale, mai sempre impassibile e calma, non traspariva la menoma agitazione: su quell’aspetto venerando e severo nessuno poteva scorgere la traccia più lieve di cure che il rimordessero. Garibaldi aveva emanato un ordine e poscia l’avea rivocato: ecco ciò Che tutti sapevano, ed era quanto ciascuno desiderava sapere (19).

LV.— A mezzanotte si distribuirono i fucili alle compagnie ed ai soldati. Lo spirito pubblico dell’armata era oltre ogni dire eccellente. L’ardore con cui que’ prodi giovinetti affrontavano i pericoli della guerra e del mare meritava gli elogi dei comandanti e dello stesso Generale. Radunati in diversi gruppi sulla tolda e nelle camere dei vapori s’intrattenevano in guerrieri discorsi da quali appariva l’entusiasmo ond’erano tutti animati. Garibaldi e l’idolo dei volontari: con lui si sentono capaci alle più ardue intraprese: l’anima del vincitor di Varese si trasfonde nel ¡letto di tutti, e tutti diventano eroi.

LVI.— Allo scoccare delle tre ore antimeridiane i vapori levarono l’ancora ed uscirono dal golfo. Il silenzio e la concentrazione ritornarono a bordo: ogni discorso, ogni commento all’istante fu tronco. Dopo due ore di navigazione tranquilla l’armata s’ancorò di nuovo davanti al porto Santo Stefano, piccolo ed ameno villaggio, il cui aspetto gaio e ridente fa un singolare contrasto colla sterilità e colla tristezza che regna su quelle spiaggie insalubri e deserte. Le imbarcazioni del porto portarono a bordo cinquanta tonne di combustibili e buona quantità di viveri e d’acqua. Alcuni veneti, soldati nell’esercito sardo, saputo l’obbietto della spedizione, disertarono e recaronsi a bordo, ove furono dai compagni con espansione d’affetto fraterno raccolti.

LVII.— La piccola flotta rimase ancorata davanti a Santo Stefano dalle cinque del mattino alle cinque di sera. Allora, mentre i vapori apparecchiavansi a salpare, il comandante Bixio arringò sul Lombardo i suoi militi. Parlò brevemente della disciplina da tenersi durante il viaggio: disse, i volontari dovere, nel caso che si avvicinasse qualche legno sconosciuto. coricarsi e nascondersi dentro la stiva: essere indispensabile la piena fiducia ed unintiera ubbidienza nei capi. Del rimanente non abbandonarsi a vani timori $ il genio d’Italia vegliare sovr’essi ed essere pronto a soccorrerli. Aveva appena terminato il suo dire che i vapori si posero in moto e progredirono oltre.

LVII.— All’alba del 10 la flotta era uscita dall’acque toscane. Se non che la direzione dei vapori, che lino a quel punto era stata verso il sudest, venne per ordine del Generale bruscamente rivolta al meriggio. La linea per lo addietro percorsa doveva essere la più sorvegliata e quindi esposta ai maggiori pericoli. Garibaldi, il cui genio militare mostrossi mai sempre fecondo d’alte combinazioni strategiche, aveva ideato una manovra abilissima per deludere la vigilanza e le attive ricerche dei Regii. Partendo da Santo Stefano diresse la corsa in guisa da prender di mira le coste dell’Africa in un punto assai lontano da quello dove avea divisato operare lo sbarco. Per lo che i due vapori, trasversalmente tagliando la linea da Napoli a Genova, navigavano nelle acque africane, mentre appunto le squadre nemiche attendevanli lungo le coste d’Italia.

LIX.— Dalle ore cinque alle dieci del mattino si navigò pel mare Tirreno. Era favorevole il vento ed il cielo nebbioso ma placido. Per tutto quel tempo non ebbesi incontro veruno, se togli un bastimento mercantile che veleggiava dal lato di Genova. Tuttavia, mentr’era ancora lontano, pel timore che potesse appartenere alla crociera napoletana, venne emanato ordine ai volontari di tenersi celati nelle camere e nella stiva; ma riconosciuto ben tosto per quello ch’esso era, i militi ritornarono come prima a diporto sui ponti. Pochi momenti dopo un volontario, troppo col corpo sporgendo in avanti, cadde nel mare; ma venne egli pure salvato.

LX.— Mentre Garibaldi, miracolosamente sfuggito alla vigilanza dei legni borbonici, veleggiava trionfante pel mare africano, le provincie dell’Italia settentrionale trepidavano commosse sulla sorte dei cari lontani. La partenza dei volontari da Genova più non era un mistero, nemmeno per chi poteva avere qualche interesse ad ignorarla o prevenirla, il telegrafo aveva già divulgato alle quattro parti del mondo la grata, o secondo taluni ingrata notizia. L’Europa colpita da stupore ammirava fin credibile audacia di una mano di prodi che si recavano, male armati e nutriti, sulla terra dei Vespri, a rinnovarvi le imprese prodigiose e le glorie dei Normanni e dei Greci. Il viaggio dei volontari, ed il mistero medesimo che avealo da principio avviluppato, risvegliavano la più viva aspettazione di tutti. L’Europa stava attendendo con ansia il risultato di una spedizione eseguita con mezzi sì esigui e con un sì ardito coraggio. L’impresa di Garibaldi veniva applaudita dai popoli siccome il preludio di vicine vittorie, e maledetta dai despoti siccome sorgente di nuovi disastri.

LXI.— Ma sopra tutto in Italia, dove l’esito felice o funesto, della spedizione doveva apportare immensi vantaggi od incalcolabili danni, Pannunzio della partenza da Genova ridestò l’ammirazione, l’entusiasmo, il timore, tutte le inquietudini e tutte le passioni di un popolo di recente risorto alla vita politica. La grandezza delle difficoltà, la presenza di mille pericoli imaginariie reali la perplessità. L’incertezza che sempre precede il risultato delle imprese più ardue, siccome un incubo pesavan sugli animi: amici e nemici del pari sentivano che la quistione italiana era pervenuta a quella crisi suprema che doveva decidere dei futuri destini della penisola. Dall’Alpi alla Cattolica, dal Mincio alle sponde toscane, gli sguardi di tutti si rivolgevano verso il meriggio in aspettazione angosciosa di quello che stava colà per succedere. Sino all’8 di maggio la fama aveva fedelmente seguito la flottiglia italiana e d’ora in ora descritto l’itinerario dei volontari. Sapevasi aver Garibaldi tranquillamente percorso co’ suoi quel tratto di mare che stendesi tra le rive della Liguria ed i confini romani. Ma dopo quel giorno si perdette ogni traccia, e tutto rientrò nel silenzio: né lettere, né telegrafi sopravvennero a calmare le giuste quanto gravi apprensioni del paese: più non s’ebbero di Garibaldi notizie o buone o cattive che fossero. Ed in questo stato di crudele ansietà gl’Italiani rimasero per molti giorni, sinché la notizia dello sbarco a Marsala venne in parte a por fine alle comuni apprensioni. La notte dell’8 al 9 Garibaldi, abbandonando il piccolo porto di S. Stefano, si tolse per cosi dire agli occhi del mondo. Per ben quarant’ore gli audaci argonauti, erranti per la vasta solitudine dei mari, eglino pure ignoravano qual fosse la direzione o la meta del loro viaggio.

LXIL— Né i liberali, abbenché sepolti paressero nella più dolorosa inquietudine, rallentavano perciò la loro attività ed il loro zelo a raccogliere denaro ed uomini da inviare in Sicilia. A Genova il Deputato Agostino Bertani, incaricato da Garibaldi, nell’assenza di lui, a rappresentarlo presso i comitati istituiti nell’Alta Italia, davasi con tutta sollecitudine ad ordinare ed apparecchiare una seconda spedizione. Arruolamenti per tarmata meridionale vennero immediatamente aperti nelle città libere per cura dei comitati d’emigrazione o delle commissioni speciali a tal uopo istituite. A Firenze, nelle Romagne, a Parma ed a Genova le rappresentanze delle associazioni politiche disimpegnarono in que’ supremi frangenti la missione che Garibaldi loro partendo affidava con zelo ammirabile. Né fra tanti generosi che, con piccoli mezzi o privali, contribuirono al buon esito dell’impresa dobbiamo dimenticare il Comitato politico veneto residente in Milano e presieduto dal conte Pietro Correr, della cui instancabile operosità e solerzia avremo ben presto a parlare (20).

LXIII.— Né il Borbone posava tranquillo. Quando appunto in Italia pareva calmarsi l’agitazione febbrile che accompagnava e seguiva la guerra lombarda l’insurrezione siciliana sopravvenne come un colpo di fulmine a turbare l’apparente sicurezza a cui la tirannide napoletana pareva già abbandonarsi. Mentre Francesco II lusingavasi di ingrandire lo Stato colle provincie papali, dovette suo malgrado accorgersi ch’era tempo di pensar seriamente alla conservazione dei vecchi dominii. L’eco del cannone palermitano improvvisamente rimbombò sino al fondo dei palagi di Caserta e di Portici e vi sparse la costernazione e il terrore. La Sicilia, insorgendo e spezzando le vecchie catene, interruppe le visioni dorate di tranquillità e di conquista di cui nutrivasi la Corte di Napoli. Da quell’istante il Borbone si vide perduto: il dispotismo si trovò avviluppato nelle stesse sue reti. In luogo di agire con energia e prontezza rimase perplesso e titubante, quasi si sentisse mancare di consiglio e di guida. Poteva, annuendo alle giuste domande dei Siciliani, scongiurare il pericolo e prevenire la finale catastrofe: poteva altresì rovesciare sull’Isola un esercito intiero e con una rapida campagna soffocarvi la rivoluzione. Francesco II tentennò nella scelta, e com’è costume delle anime deboli, adoperò alternativamente le lusinghe e le minaccie, le promesse e la forza. Così ad ogni momento cangiando risoluzione, ed aggiungendo errori ad errori, si fece egli stesso cagione della propria rovina. Più tardi la facile quanto ingloriosa vittoria di Carini risvegliava nel Borbone una vana speranza che la insurrezione dovesse soccombere. Egli contava sullo spavento che necessariamente dovevano incutere le carnificine insensate di Carini, di Sferracavallo e Messina: contava sulla stanchezza che doveva guadagnare gl’insorti e sul tempo che spegno l’entusiasmo delle rivoluzioni popolari: e forse in cuor suo vagheggiava il ritorno de’ begli anni di Ferdinando, di Carolina e di Nelson. E senza dubbio, malgrado mille difficoltà, pervenuto sarebbe col tempo a calmare od a spegnere la febbre liberale dei popoli, se il vincitor di Varese non sopraggiungeva improvviso ad attraversare i suoi piani ed a rapirgli ogni speranza di prosperi eventi. Se i volontari riuscivano ad approdare in Sicilia, Francesco II inesorabilmente perduto sentivasi. L’immensa popolarità di Garibaldi, il fascino del suo nome, e lo stesso suo genio avventuroso ed audace avrebbe bastato a riaccendere l’entusiasmo della rivoluzione ed a porre lo scompiglio e la dissoluzione nell’esercito destinato a reprimerla. Il solo Garibaldi poteva compire l’impresa a cui non bastarono gli sforzi di Pisacane e Bentivegna, i liberali del 1848 e del 20, né il genio stesso del 1789, di Napoleone e di Gioacchino Murat.

LXIV.— Il governa di Napoli, come altrove si disse, aveva di già avuto previamente notizia del nembo che addensavasi a Genova, e si fu allora che impaurito discese a più miti consigli. Inoltre l’insurrezione, anzi che soccombere, in seguito alle carneficine di Carini ripigliava nuove forze e minacciava perpetuarsi nel centro delle montagne. Egli è vero che i rivoltosi non ardivano più mostrarsi nelle vicinanze del mare e delle fortezze; ma la stessa loro esistenza nell’interno dell’Isola era un continuo fomite di defezioni e disordini. Il Borbone si risolse impértanto di fare un ultimo sforzo per giungere alla pacificazione della Sicilia, ed inviò di nuovo al luogotenente principe di Castel Cicala a Palermo i pieni poteri e le debite istruzioni affine di riguadagnare colle buone l’alienata sottomissione dei sudditi. Ma era già troppo tardi: l’incendio avvampava, né umana forza avrebbe bastato a spegnerlo od a circoscriverlo.

LXV.— Il Piemonte ed il Lombardo a vele gonfie frattanto vogavano verso le coste dell’Africa. Il soffocante scirocco, che sul principiar del viaggio tanta pena avea dato allarmata, era del tutto cessato. Un venticello fresco e leggiero increspando la superficie dell’onde l’accompagnava nell’arduo cammino. Il cielo era nebbioso, ma placido, il tempo malinconico, ma mite e favorevole. I volontari dal ponte miravano i delfini dal dorso squammoso caracollare sulle acque o contemplavano i larghi sprazzi di spume che i navigli addietro lasciavansi. Ogni movimento, ogni oggetto che si presentasse ai loro sguardi era causa di distrazione e conforto, comeché rompesse la mesta uniformità del viaggio. Un pianoforte che a bordo del Lombardo, forse a caso, trovavasi, elargiva il supremo ristoro alle anime entusiaste e sensibili, la melodia della musica. Un volontario con mano maestra vi eseguiva i pezzi più stupendi di Bellini e di Verdi: e i suoi romantici arpeggi, resi vieppiù interessanti dalla solennità del momento e del luogo, si confondevano col fragor delle ruote, col fremito dell’onde, col rumor delle sarte e colf interminabile armonia dei venti, dei mari e dei cieli. L’anima del prode, sublimata dal sacrificio e dall’entusiasmo, traspariva dai volli di lutti que’ giovani, a bella posta creati per compiere le più audaci missioni.

LXVI.— Cosi passava la giornata del 10. Solo sul far della sera certi indizii di fumo improvvisamente comparsi sul lontano orizzonte facevano temer per la notte qualche serio pericolo. Un altro soggetto d’angustia si fir che il Piemonte essendo, come si disse, di gran lunga più celere, aveva preceduto il Lombardo per modo che da molte e molte ore si erano perduti di vista. Tuttavia sopraggiunta la notte Bixio ordinò che s’accendessero i fanali convenuti, onde il Piemonte, che non doveva esser lungi, scorgendoli, potesse riunirsi al compagno. Se non che i marinai, che poco prima, al bagliore dell’incerto crepuscolo, credettero scorgere delle traccie di fumo dal lato dell’est e verso il meriggio, non s’erano punto ingannati. Erano infatti due vapori che con direzione diversa s’avvicinavano lentamente al Lombardo.

LXVII.— Il Piemonte che dal mattino, precorrendo il compagno, erasi slanciato celeramente in avanti, aveva frattanto raggiunto le vicinanze del Capo Bon, situato sulle coste africane nella Reggenza di Tunisi, dove Garibaldi volea ricongiungersi col Lombardo e proseguire di conserva il cammino. Egli aveva tolto di mira quel punto lontano per sottrarsi alle insidie delle crociere nemiche e per far credere, quand’anche le sue mosse fossero state osservate, che volesse effettuare lo sbarco in tutt’altra parte dell’Isola da quella, dove realmente intendeva tentarlo. Intanto nessuno conosceva i disegni del Generale, nemmeno gli ufficiali di Stato Maggiore pe’ quali pur professava la più sincera amicizia. Egli dava dal ponte al timoniere i suoi ordini e regolava, coprendo i suoi movimenti del più profondo mistero, la direzione del legno.

LXVIII.— Pervenuto al luogo divisato Garibaldi ordinò che il Piemonte ritornasse in addietro in traccia dell’altro naviglio che di lontano il seguiva. Cosi entrambi navigando con lo stesso pensiero senza mai incontrarsi percorsero gran tratto di mare. La notte frattanto si faceva assai tarda e l’oscurità accresceva l’incertezza e la trepidazioné d’ambedue i comandanti. Se non che l’angoscia che agitavali stava sepolta nel fondo del cuore, nò alcuno dei volontari s’accorse dei cupi pensieri che per la mente Puno e l’altro volgeva.

LXIX.— Verso la mezzanotte il Lombardo, i cui fanali riflettevano sull’acqua una luce pallida e rossiccia, ad un tratto s’avvide di un’enorme massa brunastra che approssimavasi dal lato del sud, mentre un altro legno coi fanali già accesi dall’oriente inoltravasi nella direzione medesima. Erano i due vapori che gli esperti marinai avevano scoperti poco prima di sera. Fu quello un momento d’indicibile costernazione e terrore. Era imminente e forse anche fatale il pericolo: ma l’audace sangue freddo di Bixio non l’abbandonò in quel supremo frangente. Egli fece immantinenti sparire i fanali ed ordinò ai volontari di coricarsi nella stiva e nelle camere, e di non muoversi, qualunque cosa fosse pur per succedere. Ed intanto vegliava tranquillo e sicuro di sé alla direzione ed alla salvezza di tutti.

LXX.— Dei due vapori l’uno doveva per lo meno appartenere alla flotta nemica, e per sommo favor di fortuna era quello che teneva accesi i fanali, ed ancora assai lungi trovavasi: l’altro poteva essere, ed era diffatti, il Piemonte. Ma non iscorgendo segnale veruno, Bixio noi potea riconoscere: ondeché. ritenendolo per un legno nemico e temendo di dare in qualche agguato, ordinò al macchinista di spingere il fuoco alla massima celerità per isfuggire agli attacchi dell’uno e dell’altro, passando in mezzo ad entrambi. Questa manovra, ancorché eseguita in profondo silenzio, non passò inosservata ai volontari: eglino stavano immobili cogli occhi rivolti ora alla bruna mole che veniva dal sud, ora ai fanali che splendevano dalla parte d’oriente: se la notte fosse stata men buia sarebbesi scorto su que’ volti non già l’agitazione del terrore, ma la impassibile calma è il coraggio del forte.

LXXI.— Frattanto il Piemonte, siccome più rapido al corso, sempre più s’avvicinava al Lombardo ad onta degli sforzi da questo fatti per allontanarsi. Allora, con una pronta evoluzione girando sulla sinistra, dell’amico vapore alle spalle si pose, ed in tale prossimità che i due legni quasi si urlavano. Bixio non comprendeva le intenzioni di quella manovra sì stranamente strategica, quando udì una voce cupa ad un tempo e sonora chiamarlo per nome. «Nino! Nino!» ripetutamente gridò il Generale, e Bixio che ne intese l’accento declinò la parola ricordine. «Qual senso mi facesse,» (cosi un garibaldino descrive la profonda emozione prodotta nei volontari dalla voce di Garibaldi) «quel noto accento nell’ora solenne in cui eravamo, non so ridire; era la voce di un amico che suonava a noi vicina per proteggerci, era la voce di un salvatore.» Da quell’istante il Piemonte ed il Lombardo riuniti procedettero insieme.

LXXII.— Quasi al tempo stesso i volontari si trovarono liberi dal sospetto di vedersi assaliti dall’altro vapore poco innanzi osservato. Apparteneva questo, come s’avea dubitato, alla crociera napoletana e correa per quelle acque alla ricerca di Garibaldi. Ma l’insolita oscurità della notte ed il profondo silenzio dei volontari fecero sì che non s’avvide di loro presenza. Esso tranquillamente seguitò il suo cammino nella direzione nord-ovest senza punto curarsi di chi gli rimaneva alle spalle.

LXXIII.— L’ultima parte del viaggio e, senza confronto veruno, la più perigliosa, rimaneva a compirsi. Dalle vicinanze di Tunisi doveva Garibaldi tracciare trasversalmente una retta alle sponde siciliane, a Marsala, dove avea divisato sbarcare. In tal guisa la linea dai volontari percorsa si presenta sotto l’aspetto di un vasto triangolo ottusangolo, di cui formano la base le coste d’Italia da Talamone ‘alla Sicilia, e sommità n’è il punto che in quell’istante i nostri navigatori occupavano.

LXXIV.— Il restante della notte passò senza che verun accidente venisse a turbare la tranquillità del viaggio. Proseguendo nella direzione nord-est Garibaldi lasciò alla sua destra il gruppo delle Pantellarie e sempre più avvicinatasi alle rive dell’Isola. In tal modo la linea percorsa dai nostri formava un angolo acuto colle sponde del mare, il quale sempre più restringevasi a misura che Garibaldi avvicinatasi al termine del suo pericoloso cammino. Alle ore cinque del mattino le coste della Sicilia apparvero in distanza coperte di boschetti d’ulivi e d’aranci, sormontati da opache e silvestri montagne. I due legni, rapidamente solcando la superficie di un mar placidissimo e quasi volando sull’acque, giunsero poco prima di mezzogiorno di fronte a Marittimo, isolotto o vuoi scoglio fortificato e il più occidentale delle Egadi non lungi da Trapani. Di là Garibaldi diede ordine perché i vapori volgendosi bruscamente a diritta si indirizzassero verso Marsala, città indi non molto discosta. Ed allora solo i volontari seppero con certezza in qual punto dell’Isola il Generale intendesse sbarcare.

LXXV.— Ma sebbene i movimenti di Garibaldi fossero eseguiti colla massima celerità, ed ancorch’egli avesse saputo con astutissimi stratagemmi deludere la vigilanza nemica, non potè far in modo che i legni della crociera napoletana non s’avvedessero della sua presenza in quelle acque. Mentre questi lo aspettavano di fronte s’accorsero che egli alle spalle trovavasi, e quindi si misero a dargli la caccia. Garibaldi colle sue mosse e contromosse li trasse in ingannò ancora una volta. Il nemico vedendolo veleggiare apertamente verso la estremità nord-ovest dell’Isola sospettò che volesse tentare lo sbarco nella rada di Trapani e si diresse colà ad impedirlo. Ma quando il Generale lo vide accorrere da quella parte ed inoltrarsi fra gli scogli e le isole vicine, ordinò ai due vapori di piegare direttamente a Marsala. I Napoletani lo videro così allontanarsi nel punto che si credeano vicini a raggiungerlo e furono costretti a descrivere una curva per correre nuovamente sulle sue traccie. Con quest’abile manovra il Generale pervenne a guadagnare un’ora almeno di tempo, e quell’ora decise dei fati dei volontari e del dominio borbonico. Se non che conoscendo che i legni nemici erano più rapidi assai che il Piemonte e il Lombardo Garibaldi ordinò ai macchinisti di spingere a tutta forza il vapore con non lieve pericolo di sé e dei compagni.

LXXVI.— Poco oltre il meriggio da lunge si scorse un naviglio che a vele gonfie avvicinavasi alla squadra italiana, il che fu a bordo cagione di qualche apprensione e scompiglio: ma fu ben tosto riconosciuto per un legno mercantile appartenente alla marina britannica. Come giunse passando vicino al Lombardo gli si domandò quale cammino tenesse, ed essendo risposto che veleggiava per Genova gli si gettarono alcuni pacchi di lettere per quella destinazione. Nell’atto che allontanavasi Bixio gridò dall’alto del ponte: «Dite a Genova che Garibaldi sbarca in questo momento» ed additava parlando la vicina città di Marsala come ¡1 punto destinato all’approdo. Un urrah di gioia e di viva l’Italia si levò dai tre legni ad un tempo: ed Italiani ed Inglesi proseguirono quindi con opposta direzione il loro corso.

LXXVII.— Né il nemico dormiva. Erano tre i legni napoletani che a breve distanza uno dall’altro inseguivano i nostri argonauti. Dall’alto del ponte i volontari li vedevano avvicinarsi: ma ogni idea di timore già era svanita. Essi si sentivano proietti da una forza misteriosa e superiore e con quella forza si credeano invincibili. Era il genio di un uomo che poneva in iscacco le forze di un vasto regno e le arti di un possente tiranno.

LXXVIII.— In tal guisa il Lombardo e il Piemonte spinti alla maggiore possibile celerità divoravan lo spazio. Invano oggimai il nemico inseguivali. La buona stella di Garibaldi vegliava alla salvezza dei volontari e d’Italia. Ad un’ora e mezzo del pomeriggio, venerdì 11 maggio 1860, dopo cinque giorni di varia e pericolosa navigazione, i legni italiani entrarono felicemente nel porto di Marsala e vi gettarono l’ancora.

continua……

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