LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (III)

LIBRO III
Sbarco a Marsala. Battaglia di Calatafimi
I. — Il giorno medesimo che Garibaldi accingevasi a salpare da Genova, un proclama del generale Giovanni Salzano annunziava ai cittadini di Palermo levato per volere sovrano lo stato d’assedio a cui la città soggiaceva. Sole ventiquattr’ore prima, il 4 maggio, era comparso il famoso proclama del luogotenente Castel Cicala che minacciava il rigore delle leggi militari ai detentori ed asportatori d’armi da fuoco e da taglio, di qualsiasi dimensione esse fossero.
I palermitani colpiti rimasero da questo nuovo tratto di non aspettata, né ambita, clemenza sovrana, come quelli che non potevano indovinare le cause che sì repentinamente consigliavano al governo misure di giustizia e di pace. Contuttociò non era guari difficile scorgere nella irresolutezza che animava in quell’epoca i consigli borbonici un sintomo male dissimulato e coperto d’apprensione e paura. Cosicché, lungi dal calmare e tranquillare l’effervescenza rivoluzionaria del popolo, l’intempestiva clemenza di Francesco II non fece che aggiungere nuova esca all’incendio e precipitare gli eventi. Coll’alternare perennemente le minaccie e le lusinghe,da clemenza e la forza, la Corte di Napoli non faceva che rivelare la propria debolezza e le interne apprensioni. Ed infatti gl isolani traevano dalle recenti ed inaspettate concessioni nuovo argomento per credere gl’interessi del despota versare in terribile crisi, dappoiché lo vedevano confusamente appigliarsi ai partili più contraddicenti ed opposti. Air odio che i popoli pel tiranno nutrivano s’aggiunse il dispregio che sempre accompagna l’orgoglioso e il polente quando, spogliato di autorità e di forza, ha cessato d’imporre rispetto e d’incuter paura.
II.— Usare, secondo i casi, o della severità della legge o della clemenza del padre, fu sempre attributo precipuo di saggi e virtuosi monarchi. Ma questa alternativa vuol essere parcamente e saggiamente applicata e solo ne’ casi eccezionali e difficili. Coll’una il sovrano si cattiva l’amore dei sudditi, coll’altra egli impone il rispetto alla sua autorità. L’abuso dell’una e dell’altra ingenera l’incertezza, la diffidenza, scalza il fondamento dei troni e mette a soqquadro i governi. Ed è ciò che avvenne a Francesco II. Egli fu tiranno quando conveniva mostrarsi padre dei popoli; volle esser clemente quando gli abbisognava adoperare la maggiore energia: ed abusando alternamente delle arti di regno si condusse da se stesso a rovina.
III.— I Palermitani risposero alle speranze di Francesco II con una nuova dimostrazione politica crebbe luogo la mattina stessa del 5. Il giorno seguente, domenica, i cittadini accorsero in folla alle chiese di S. Francesco e dell’Olivella. ove erano stati la sera prima invitati mediante piccoli avvisi a penna divulgati per tutta Palermo. Nella prima celebratasi una messa festiva e solenne: ed oltre i popolani delle dimostrazioni, una immensa moltitudine di fedeli v’era accorsa ad assistere ai religiosi misteri. I liberali seppero approfittare di questa circostanza per rendere la dimostrazione più imponente e generale e per trascinare nel circolo dell’opposizione quelli ancora che, per religiosa timidezza o coscienza, si mostravano alieni da ogni movimento insurrezionale e politico. Al terminar della messa, e quando il sacerdote intuonò con voce profonda e monotona Vite. Missa est, i liberali, come se quello fosse il convenuto segnale, proruppero in un Viva all’Italia. Sulle prime quel grido suscitò nella moltitudine ignara e sorpresa un movimento di stupore e paura: ma ben tosto il crescente fragor degli evviva echeggianti per le auguste volte del tempio produsse un effetto generale, indicibile entusiasmo. l’ebbrezza guadagnò tutti i cuori e trascinò nella sua orbita eziandio quelle anime che di loro natura sembravano più tranquille e pacifiche: come invaso da una corrente elettrica il popolo tutto prese parte ad una dimostrazione che in altre circostanze molti avrebbero condannato siccome un sacrilegio ed una profanazione. Altrettanto o poco meno avvenne all’Olivella: se non che i liberali non essendosi prima convenuti sull’istante in cui doveasi cominciare la manifestazione, le grida proruppero isolate e con qualche confusione e disordine. Esse parvero il tentativo di pochi fanatici anziché l’espressione della volontà generale. Per il che in luogo di entusiasmare la folla vi suscitarono una immensa agitazione: e lo spavento che invase i fedeli fu tale che persino il sacerdote che celebrava la messa, atterrito dall’improvviso tumulto, abbandonando l’altare, si ricoverò in sacristía. Ciò nulla ostante la dimostrazione ottenne, almeno in parte il suo effetto, poich’era pur sempre un atto di sdegno e di sprezzo alle lusinghe della Corte Borbonica.
IV.— Già da più giorni Palermo pareva sepolta nella desolazione e nel lutto. Il commercio era nullo, le transazioni interrotte, ogni relazione coll’interno dell’Isola troncata, mal sicure le strade e chiuse le botteghe e gli stabilimenti pubblici. Quella popolazione, si viva, sì gaia ed appassionata, era divenuta ad un tratto taciturna, cupg. e malinconica, dacché spostato pareva ogni vincolo d’esistenza sociale. A porre un termine a questo stato di cose, e forse anco all’intento di evitare nuove complicazioni, la Polizia fece aprire la mattina del 7 le botteghe di via Toledo per forza, sperando così animare la città e toglierle l’aspetto di squallore in cui la cessazione d’egli affari l’aveva sepolta. Dal canto loro i cittadini diramarono a nome del popolo secretamente l’invito che nessuno per tre giorni per quella strada passasse. Il popolo unanime si conformò a quell’invito: e nei giorni 8, 9 e 10 di maggio la via Toledo sarebbe rimasta deserta se stata non fosse frequentata dai commissarii, dai birri, dai soldati e dalle spie. Così il governo trovava una opposizione invincibile e ferma, tanto nell’adoperarsi a diminuire le cause di squallore e scontento, quanto nel rappigliarsi ai consigli più arbitrarii e tirannici.
V.— Nel pomeriggio del 9 una nuova dimostrazione era stata ordinata. Ma come la riunione non poteva aver luogo nella via Toledo, che fu, come si disse, per progetto lasciata ai birri ed alle spie, il popolo si raccolse nella vasta contrada Nuova o Macqueda. Questa fu la dimostrazione più imponente e più vasta che per lo addietro si fosse fatta in Palermo e la meglio concertata e condotta. Una immensa moltitudine accorse da tutte parti della città a celebrare questa nuova protesta contro il governo borbonico. Dalle ore 22 alle 24, corrispondenti in quella stagione alle 5 ed alle 7 pomeridiane, la folla percorse con passo lentissimo la lunghezza di strada Macqueda sempre mantenendo il più assoluto ed imponente silenzio. Ha scoccate le 24 lo scoppio di un mortaretto, di già apparecchiato a bella posta ai Quattro Cantoni sulla piazza Vigliena, diede alla popolazione il segnale di fare un evviva all’Italia, il che fu eseguito sugli occhi medesimi dei commissarii e dei birri. Questi, esasperati, posero mano alle daghe ed ai moschetti e si scagliarono come altrettante iene sulla folla inoffensiva ed inerme. Moltissime persone rimasero ferite o malconcio nella contusione terribile che seguì la fucilata dei Regii, i quali sfogarono la rabbia loro brutale sulla strada e nel tempo stesso contro le vicine finestre.
VI.— I luttuosi fatti del 9 si rinnovarono la successiva sera del 10 in una proporzione più vasta ma non col medesimo effetto. La folla numerosissima accorse come il giorno avanti nella contrada Macqueda, non tenendo alcun conto delle minaccie della Polizia e dell’esercito. I poliziotti e parte dei soldati assaltarono armata mano la moltitudine per fugarla e disperderla, ma questa volta i popolani non erano per nulla inclinati a cedere il campo. Gli assalitori vennero a colpi di sassi respinti e per lungo tratto di strada inseguiti dai cittadini già esasperati per gli antichi e recenti massacri. La notte scese ben presto a dividere i combattenti e ad impedire una inutile effusione di sangue.
VII.— La mania delle dimostrazioni aveva invaso l’intiera città. Tutte le classi sociali, dal nobile il proletario, furono attratte quasi da misteriosa potenza, entro forbita dei movimenti politici. Ogni distinzione di casta, di professione o d’età scompariva davanti runica idea che animava le menti di tatti. Le indefinite gradazioni della pubblica opinione erano esse pure scomparse: una l’idea, riunirsi alla patria italiana, ed uno lo scopo, di protestare con tutti i mezzi contro il dominio borbonico. La storia del mondo raramente presenta in un popolo una uniformità si sentita di tendenze di aspirazioni e di fede. Dal 4 aprite all’11 maggio in Palermo fu una dimostrazione continua, incessante e solenne: né le proscrizioni né i massacri dei Regii pervennero a soffocare l’accanimento del popolo. L’ultima delle dimostrazioni inermi ebbe luogo poco oltre il mezzogiorno dell’11, mentre appunto Garibaldi ed i suoi prodi argonauti sbarcavano presso Marsala.
VIII.— Marsala è città situata sulle coste occidentali dell’Isola, quasi al centro della valle di Mazzara, a 160 chilometri circa da Palermo. ed appartiene alla provincia di Trapani. Essa elevasi sulle rovine dell’antica Lilibeo, si famosa nelle guerre dei Cartaginesi e dei Romani, la cui origine si perde nella barbarie dei tempi antistorici. I Saraceni che la riedificarono nel secolo X dell’èra nostra le cangiarono il nome e ne fecero la capitale di un vasto dominio, che stendevasi sino al centro ed all’estremità meridionale dell’Isola. Marsala è fabbricata a cavaliere di una piccola altura che domina la rada ed il porto, ed è circondata da colline amenissime, da superbi vigneti e da boschi di limoni ed aranci. La vantaggiosa situazione ed il magnifico porto altre volte rendevanla il punto principale del commercio siciliano. I suoi traffichi, le immense sue relazioni coi porti del continente accrebbero lungo i secoli la sua floridezza e potenza: sotto l’impero di Roma e sotto i Califfi ed i Normanni mantenne fra l’emule città l’importanza che aveva acquistato. Ma la sua prosperità non durò oltre la metà del secolo XVI: nel 1562 Carlo V ordinò che il suo porto fosse colmato per impedirne l’approdo al famoso corsaro Barbarossa, il quale a que’ tempi colla flotta ottomana infestava il Mediterraneo dalle coste della Siria alle spiaggie di Madera e di Cadice. Il porto di Marsala fu così miseramente distrutto: né poscia, per quanti tentativi si facessero, si potè mai ridurlo al primitivo suo stato. Oggi ancora subisce la maledizione di tre secoli addietro: gl’immensi banchi di sabbia che lo ingombrano e la poca profondità, ne tolgono l’accesso alle navi da guerra ed ai vapori di grossa portata. Fu quello un terribile colpo pel commerciò di Marsala: i suoi traffichi da quel tempo languirono e decaddero, né più la città si riebbe. Tuttavia un estesissimo commercio dei vini che portano il suo nome le infondono una parte di quella vita e splendore che ricordano l’antica sua floridezza ed opulenza. Oggi ancora essa conta moltissime case commerciali, inglesi per la maggior parte: il traffico vi è in qualche modo attivo e disteso ed ha 20 mila abitanti.
IX.— A mezzora del pomeriggio i due vapori italiani, spinti a tutta velocità, vogavano per un mare tranquillo verso l’imboccatura del porto, e dal canto loro i piroscafi napoletani colla medesima ardenza inseguivanli. Il porto di Marsala è situato al sudovest ed a qualche centinaio di passi dalla città che lo signoreggia ed adorna. Abbenché ostruito ed ingombro, come si disse, di sabbia, esso serba tuttavia le vestigia dell’antica grandezza, ed offre ai legni di mole non vasta un sicuro ricovero contro l’infuriare dei venti e dell’onde. Il Piemonte più piccolo e leggiero penetrò senza incontrare ostacolo veruno nell’interno del porto: non cosi il Lombardo che tirando tropp’acqua fu arrestato dai banchi di arena e costretto a gettar l’ancora ad un centinaio circa di metri dal molo.
X.— Le barche peschereccie ed i palischermi del porto aveano già notato ravvicinarsi dei due piroscafi portanti bandiera italiana, e non dubitando che quello fosse un soccorso fraterno inviato dall’Italia settentrionale alla insorta Sicilia, s’affrettarono a raggiungerli affine di cooperare allo sbarco. Il primo di detti palischermi sì recò difilato verso il Piemonte forse per dare al Generale le recenti notizie di quanto accadeva nell’Isola. Sembra che il battello suddetto stesse già attendendo l’arrivo dei volontari, e che una specie di misteriosa convenzione esistesse tra i litorali della Sicilia ed i nostri argonauti (21). Poco stante la superficie del porto apparve coperta di barche di tutte le velocità e dimensioni che vogavano parte verso il Lombardo e parte verso il Piemonte.
XI.— Sulle prime gli apparecchi per lo sbarco si operarono con qualche lentezza. La distanza che dovevano percorrere le barche per giungere a bordo, e la confusione stessa ch’ebbe luogo nel porto pel movimento simultaneo di tanti piccoli legni, cagionarono un breve ritardo. Ma quella perdita di tempo tosto fu riparata con altrettanta solerzia. Il Piemonte fu il primo raggiunto e circondato dalle imbarcazioni dell’Isola: ed i Garibaldini incominciarono a sbarcare serbando l’ordine il più. perfetto, mentre il Generale dal cassero sorvegliava e dirigeva i movimenti dei volontari e dei barcaiuoli ad un tempo. I palischermi e le barche minori riempivansi tosto di uomini, e le piroghe ed i trabaccoli di più grande portata si caricavano delle artiglierie, delle armi e delle munizioni fabbricate a bordo durante il viaggio. Era bello il vedere quelle barche rigurgitanti d’armati vogare con celerità incredibile verso la riva e porre i Garibaldini ali asciutto e ritornare colla emulazione medesima a riprendere nuovi carichi a bordo. Un Inglese, presente alla scena, esprime la più viva emozione che in lui produsse lo strano e singolare avvenimento. «Giungono battelli in gran numero, die egli: e gli uomini vi discendono in buonissimo ordine. I Garibaldini, che all’arrivo loro parevano pochi, e divennero così numerosi che non parca credibile che tanti potessero capire nella stiva di un legno si piccolo di mole siccome il Piemonte. Eglino addossavano in parte una camicia rossa, il che dava loro l’aspetto di truppe inglesi: altri erano vestiti in verde, ed altri infine in a abito comune (22).» Durante il tempo medesimo sul Lombardo eseguivasi la stessa operazione di sbarco, ma ad onta dell’impazienza di Bixio, con molta lentezza, attesa la maggiore distanza da terra e la grande quantità di materiali e soldati che quel legno portava. Il comandante dal cassero tempestava minacciando barcaiuoli e volontari ma invano: gli uomini non fanno se non ciò che umanamente è possibile.
XII.— Era scorsa già l’ora che i vapori italiani stavano fermi sull’ancora. I volontari del Piemonte trovavansi a terra, meno i pochi incaricati del trasporto delle salmerie e delle munizioni, ed era il Lombardo per metà scaricato, quando i vascelli napoletani che gl’inseguivano, il Tancredi ed il Capri, questo comandato da Marino Caracciolo, quello dal contrammiraglio Guglielmo Acton, girando il capo Bona minacciosi comparvero davanti a Marsala. I Regii a tutta corsa dirigevano la prora verso il centro del porto, colla evidente intenzione di sorprendere e disordinare i volontari nell’atto che questi scendevano a terra. Questi, all’avvicinarsi del pericolo, ancorché si presentasse coll’aspetto più grave, nulla perdettero dell’usato coraggio, e continuarono Popolazione con impassibile risolutezza ed audacia.
XIII.— All’arrivo di Garibaldi due legni inglesi, l’Intrepid e l’Argus, stavano nella rada di Marsala sull’ancora: essi furono spettatori e testimoni oculari del fatto. Garibaldini ed Inglesi sulle prime credettero che i Napoletani sarebbero incontanente venuti ali assalto: ma questi, appena giunti a tiro di cannone dal porto, anzi che aprire il fuoco, senza veruna apparente ragione arrestarono il corso, quasi temessero un’ insidia od esitassero a compiere il loro pensiero. Poco stante una scialuppa si staccò dal Tancredi indirizzandosi verso il Lombardo: se non che pervenuta alla metà dello spazio frapposto, quasi colpita da improvviso terrore, piegò bruscamente a sinistra ed a tutta forza vogando raggiunse l’Intrepid. I Napoletani domandarono all’ufficiale di bordo se inglesi fossero le truppe che aveva veduto sbarcare. Al che questi rispose che inglesi non erano, ma che i comandanti dei due legni ancorati, Marryat ed Ingram, con pochi ufficiali trovavansi a terra. I Napoletani, udito ciò, se ne andarono.,
XIV.— Gl’Inglesi, che sin dal principio supposero al vero nel giudicare chi fossero gli uomini del Lombardo e del Piemonte ed a quale oggetto condotti, erano, come accennammo, persuasi che i Regii incontanente dovessero assalirli e bombardarli. Non è mestieri descrivere la loro sorpresa quando invece li videro arrestarsi, tergiversare, perdere un tempo prezioso, e lasciare che Garibaldi co’ suoi guadagnasse la riva. Con tutto ciò, stimando inevitabile l’attacco, l’ufficiale di bordo sull’Intrepid inviò la scialuppa a Marsala a prendere i comandanti e gli assenti ufficiali. Durante questo tempo il Tancredi ed il Capri retrocedono, avanzano, si volgono a destra e a sinistra, quasi non avessero uno scopo prefisso, o mancassero di direzione e di guida. In luogo d’assalire il nemico s’accontentano d’inviare segnali di convenzione ed una fregata a vela che da lunge seguivali. Poco dopo un ufficiale napoletano ritornò sull’Intrepid a chiedere con qualche ansietà quando i comandanti avrebbero raggiunto i legni loro, ed avuto per risposta che già s’era spedito a levarli, rifece di nuovo la via d’ond’era venuto.
XV.— In questo mentre i comandanti Marryat ed Ingram, accompagnati dall’agente consolare Cossins, raggiunsero l’Intrepid e di là si recarono a bordo Tancredi. Il contrammiraglio Acton disse loro essere obbligato a far fuoco contro la gente pur allora sbarcata e domandava se vi fosse qualche ostacolo per parte dei legni britannici. L’agente consolare Cossins rispose non esservi da parte sua nessuna obbiezione, sempreché si rispettassero i luoghi su cui sventolava la bandiera inglese ciò che il napoletano promise di fare. Allora soltanto, ma tardi, i Napoletani aprirono il fuoco: i volontari già stavano a terra e molti eziandio erano entrati in città.
XVI.— Appena toccata la spiaggia i Garibaldini schieravansi a quattro per quattro e dirigevansi verso Marsala, non guari, come sopra dicemmo, lontana. I Carabinieri genovesi per ordine del Generale vennero collocati sul molo affine d’impedire che i nemici eventualmente sbarcassero. I quattro pezzi d’artiglieria da campagna colle rispettive salmerie e munizioni s’avviavano verso la città: il Lombardo ed il Piemonte erano presso che sgomberati. Il primo colpo del cannone nemico era fuori del tiro pei Garibaldini schierati sul lido, ma non già per quelli, sebbene in piccolissimo numero, che sui vapori ancora trovavansi. Garibaldi aveva ordinato che abbandonando i legni si aprissero i rubinetti onde si riempissero d’acqua e divenisse ai nemici impossibile di rimorchiarli altrove. L’operazione sul Lombardo, benché compiuta sotto il cannone regio, riuscì a meraviglia: non cosi sul Piemonte, il quale o per troppa fretta o per altro, fu lasciato a galla in balia del nemico.
XVII.— Il Tancredi ed il Capri frattanto appressavansi e fulminavano colle artiglierie il molo e la spiaggia. Ad ogni colpo di cannone i Garibaldini gettavansi a terra per modo che le palle fischiando sul capo loro passassero e tosto sorgendo sfidavano la rabbia borbonica col grido di viva Garibaldi e l’Italia. Non è umanamente possibile descrivere l’entusiasmo di que’ prodi che affrontavano i primi pericoli della lunga e gloriosa campagna. Eglino mostravano col marziale contegno e colla imperturbabile audacia essere i rappresentanti dei valorosi che tanta fama di sé lasciarono sui campi di Velletri, di Varese e di Como. Nel breve corso di un’ora e mezzo 1062 volontari italiani e 5 ungheresi discesero a terra in presenza, ed in parte sotto il fuoco dei vascelli nemici, senza dare il menomo segno di sgomento o disordine.
XVIII. Allora il Tancredi avvicinandosi a riva, occupava una formidabile posizione al di sotto del porto, donde poteva colle artiglierie tempestare nella sua piena lunghezza la strada che dal Faro. sopra un piano leggermente inclinato. conduce alle porte della città. Vicino alla cinta ed al di là della strada medesima, s’innalza un fabbricato, una specie di palazzino di campagna, che dal colore della sua facciata ha nome di Casa bianca. Davanti a questa casa lo stradone del porto allargandosi forma una piazza abbastanza spaziosa e scoperta dal lato del mare che si stende fin sotto le mura. Su quella piazza, per cui i Garibaldini dovevano necessariamente passare per recarsi a Marsala, i Napoletani dirigevano centinaia di colpi. Il contrammiraglio Acton aveva assicurato il comandante Marryat che le sue artiglierie tiravano basso affine di non danneggiare la città: i Garibaldini all’opposto assicurano che le palle nemiche passavano sopra il loro capo e colpivano le finestre e fin anco i tetti delle case di Marsala. Da ciò si potrebbe concludere che i Napoletani non sapevano o non potevano aggiustare i lor colpi.
XIX.— In questo mentre sopraggiungeva la fregata a vela da guerra, già sopra accennata, quella stessa che il Tancredi ed il Capri da un’ora sembravano attendere, ed incontanente disponevasi a sostenere l’attacco. Con una rapida evoluzione, rivolgendo a terra i suoi fianchi armati d’una batteria di grosso calibro vomitò una tempesta di mitraglia. I Garibaldini che previdero il colpo si gettarono a terra e la bufera passò senza cagionare alcun danno: eglino allora si rilevarono e continuarono le loro operazioni come nulla fosse accaduto. Era l’ultima squadra dì volontari, che seguivano i loro compagni già entrati in Marsala, conducendo seco i carri delle munizioni, i quattro pezzi di artiglieria e gli attrezzi da campo., A quell’ora i vapori erano già abbandonati, né sul molo unica rimaneva la compagnia dei Carabinieri di Genova, che il Generale vi avea fatto disporre in catena. Da quel momento i Napoletani si ritrassero indietro ed il fuoco cessò, meno qualche raro colpo a palla che non fece più danno a nessuno. Sul Lombardo ed il Piemonte, già soli nel porto, sventolava la bandiera italiana unica mira al furore ed alla vendetta dei Regii.
XX.— Era tale il rispetto che il nome di Garibaldi incuteva, che i Napoletani non ardirono assaltare il Piemonte e il Lombardo né anche allorquando, sbarcati i volontari, non rimaneva più alcuno a contrastarli e a difenderli. Già da qualche tempo i piroscafi nostri non davano segno di vita né indizio d’umana presenza, ed i Regii, non solo esitavano ad avvicinarsi, ma quasi colpiti da misteriosa paura indietreggiavano come da quelle moli abbandonate e silenziose dovesse ad ogni istante sbucare un nuovo sciame di camicie rosse che agli occhi apparivano cotanto terribili. In quel frangente un ufficiale del Capri si portò sull’Intrepid a richiedere il capitano di accompagnarlo sulla sua propria scialuppa e colla bandiera inglese a bordo dei legni italiani. Marryat negò di acconsentire non credendo opportuno di accordare la protezione della bandiera britannica per una visita che poteva apparire un atto di ostilità verso Garibaldi ed i volontari da lui comandati. Del resto potrebbe credersi che i Borboniani desiderassero la compagnia del capitano Marryat affinché i volontari, che si temevano in agguato sui legni loro, per rispetto alla bandiera inglese, nell’appressarsi, non li mandassero picco.
XXI.— Ma trascorso qualche tempo ed osservando i legni italiani mantenere nel porto il più alto silenzio malgrado l’infuriare della tempesta borbonica, i Napoletani incominciarono a persuadersi che veramente fossero vuoti. Allora, ripigliato coraggio, e. non essendo il timore del tutto cessato, con qualche esitazione, si avventurarono nell’interno del porto e salirono a bordo. Resi audaci dal facile acquisto i Borboniani infuriarono sull’inanimata materia e sulle spoglie dei volontari lontani, e prodigarono nell’abbattere la bandiera italiana un valore insensato che avrebbero con più onore dovuto rivolgere contro Garibaldi ed i suoi. Cosi le due navi, che avevano servito al glorioso viaggio, caddero facile preda di un nemico il quale certo non meritava l’onore di tanto trofeo. Il tricolore fu posto a brani e gettato nel mare: il Piemonte, la cui macchina era già stata disfatta, venne rimorchiato nell’alto, ed il Lombardo, avendo ripiena d’acqua la stiva e non potendosi muovere fu lasciato nel porto. Esso giacque più settimane di fronte alla spiaggia mezzo arenato e sommerso (23).
XXII.— La condotta dei Napoletani parve allora e sembra tuttavia inesplicabile. All’arrivo del Tancredi e del Capri, circa due terzi dei volontari del Piemonte ed appena la metà di quelli venuti sul Lombardo avevano toccato la riva, la fregata a vela sopraggiungeva prima che fosse lo sbarco totalmente compilo. A detta del capitano Marryat, giudice competente in fatto di cose marittime, i Regii avrebbero potuto seriamente disturbare e forse anche impedire lo sbarco. «Ivapori napoletani, egli scrive, avrebbero potuta collocarsi a due o trecento passi dalla nave arenata ed in posizione tale che ogni palla di cannone l’avrebbe traversata in tutta la sua lunghezza; ed ella è cosa evidente che in questo caso non potevasi continuare lo sbarco col mezzo dei battelli. Avrebbesi potuto far iscoppiare le caldaie, in una parola, cagionare incalcolabili danni. — Da parte del comandante napoletano, non vidi, egli aggiunge, se non confusione e stoltezza (24).» In tal guisa l’inerzia o la codardia del comandante borbonico (25) cospirava colla fortuna di Garibaldi, ad agevolargli la strada ad un’’impresa che i più audaci avrebbero giudicato pericolosa e pressoché impraticabile. Il contegno dei Napoletani parve infatti si strano, che gli Inglesi presenti alla scena dubitarono sveglino intendessero opporsi, o soltanto assistere allo sbarco di Garibaldi e dei mille (26).
XXIII.— Ad un’ora pomeridiana l’avanguardia dei volontari aveva fatto l’ingresso a Marsala: a tre ore l’intiero corpo di spedizione vi si trovava raccolto, meno i Carabinieri di Genova, i quali, come si disse, erano stati sin dallo sbarco disposti in catena sulle rivendei mare, accoglienza che fecero i cittadini di Marsala all’armata liberatrice (se pure questo nome può darsi a quei drappello di giovani eroi) fu alquanto fredda e riservata: del che senza dubbio fu causa la presenza dei regii piroscafi ed il tradizionale timore delle vendette borboniche. Le case eran chiuse, le strade deserte: e non fu senza difficoltà che i Garibaldini poterono procurarsi gli oggetti e le derrate di cui abbisognavano. In quella sera medesima per la prima volta dopo partiti da Genova fu loro distribuita la paga, una lira italiana per testa: tale era il grasso stipendio di que generosi che un mese più tardi dovevano essere padroni di un regno (27).
XXIV.— Benché stanchi ed affranti dalle fatiche del mare, dalle veglie e dagli allarmi continui, dovettero pel rimanente del giorno restare uniti ed in armi. Le navi napoletane non avevano ancora lasciato quelle acque: il cannone che tuonava di quando in quando avvertiva i volontari della loro presenza (28). Il nemico, superiore di numero, avrebbe potuto approdare nelle vicinanze ed improvvisamente sorprenderli isolati o al bivacco: e nella confusione di un attacco inaspettato i valorosi possono talvolta soffrire que’ danni che in circostanze diverse saprebbero infliggere. La notte soltanto e ad ora assai tardi fu loro concesso il riposo: ed eglino ne approfittarono per rifarsi dei sostenuti disagi ed apparecchiarsi a nuove fatiche (29).
XXV.— La prima notte dei Garibaldini passata in Sicilia fu abbastanza tranquilla. Nel porto, sul mare, regnava il più profondo silenzio: le navi napoletane ed inglesi veleggiavano altrove e la rada da Favignana a Mazzara rimaneva deserta. Il riposo dei Garibaldini non fu turbato da verun accidente: ma non si tosto il primo raggio di luce rifulse sui colli vicini la tromba di sveglia li richiamò alle fatiche del campo. Verso le cinque e mezzo mattutine del 12 maggio abbandonarono la città di Marsala, primo teatro dei loro successi, e si diressero sulla via di Palermo.
XXVI.— Sono le strade in Sicilia generalmente costruite assai male, peggio ancora tenute, pericolosissime e pessime. Cionondimeno quella che da Marsala conduce a Palermo non è senza qualche importanza commerciale e strategica. Essa percorre sopra una linea di trecento cinquanta chilometri le coste settentrionali, dove pure si trovano le città principali e le fortezze dell’Isola. Il largo tratto di paese che giace tra Castelvetrano, Catania, le montagne ed il mare, fu sempre il teatro delle operazioni militari e delle grandi vittorie successivamente riportate dai Latini, dai Saraceni e dai Normanni (30). Là trovasi la capitale, l’imprendibile cittadella di Messina, le fortezze di Milazzo e di Trapani: là è il campo delle battaglie e delle stragi borboniche del 1821 e del 1849. E Garibaldi ebbe la felice ispirazione di sorprendere ed attaccare il nemico nel centro delle sue difese, persuaso che una volta padrone delle grandi valli di Mazzara e di Noto, di Messina e Palermo, avrebbe signoreggiato sull’Isola intiera.
XXVII.— I Garibaldini, lasciando Marsala, seguirono la strada maestra sino alla Cascina di Robengallo posta sopra una collinetta a dieci ore di marcia dal mare. Il tempo fu, quanto può dirsi, magnifico ed il viaggio assai dilettevole. I volontari percorselo pianure vastissime assai ben coltivate e colli ricoperti d’innumerevoli macchie di ulivi ed aranci. Giunsero a Robengallo alle ore quattro e mezzo pomeridiane, e vi pernottarono.
XXVIII.— A Rubengallo altre disposizioni si presero sull’ordinamento della piccola armata. Erano sette, come altrove si disse, le compagnie che costituivano l’intiero corpo di spedizione: quivi loro soggiunse l’ottava e la nona. Si tolse a ciascuna compagnia un numero proporzionato di uomini e cosi si costituirono due corpi novelli sotto gli ordini dei rispettivi lor comandanti. Così le singole compagnie perdevano della forza numerica e l’armata guadagnava nell’ordinamento dei quadri. Più tardi si vedrà che questa nuova disposizione del Generale non fu senza ragione né senza importanza, allorquando si trattò destituire l’esercito nazionale dell Isola. La sera medesima si elessero i due comandanti: rollava compagnia fu data a Bassini e la nona a Graziotti.
XXIX.— Alle ore dieci antimeridiane del 13 i volontari partendo da Robengallo si portarono a passo di corsa sopra Salemi, di cui Garibaldi volea impadronirsi prima che il nemico l’avesse occupata. Questa marcia fu alquanto penosa, perocché, abbandonando la via principale, i Garibaldini s’internarono in un labirinto di colli, ove non era traccia di strada militare, ma sentieri tortuosi, angusti, malagevoli. Tuttavolta, malgrado l’immensa difficoltà del terreno, i volontari divoraron lo spazio, ed in poco più di due ore si trovarono in faccia a Salemi dove entrarono alle dodici e mezzo pomeridiane.
XXX.— Salerai, come il dinota il suo nome, deve la sua origine od almeno Fattuale sua costruzione ai Saraceni, che ne fecero nel secolo X la residenza d’imo de’ loro governatori. Essa giace sulle rovine dell’antica Alicia, o secondo altri di Semellio, sopra la vetta di un colle pittoresco ed ameno. La sua posizione è della più alta importanza come quella che domina la strada di Calatafimi e di Castelvetrano, il corso della Delia e del Brigi, le valli e le alligno colline. Al di fuori è di bella apparenza ma nell’interno è squallida e sporca: le strade sonovi anguste e costrutte a guisa di scale, e guaste e tenute malissimo. Essa conta da 13 mila abitanti.
XXXI.— A Salerai i volontari trovarono festosa e cordiale accoglienza. La città era stata delle prime ad insorgere dopo i fatti di Palermo avvenuti in aprile: e stata allora in grande apprensione, essendo corsa voce che un forte corpo di Regii avanzatasi da Alcamo e Calatafimi senza dubbio a ricondurvi L’ordine borbonico con tutti gli orrori e le vendette che lo accompagnavano. La comparsa di Garibaldi e de’ suoi valorosi compagni ridestò fra quei cittadini il più vivo entusiasmo: i generosi sentivano che da quel punto nulla più loro rimaneva a temere da parte dei Regii. Salerai rigurgitava di insorti. armati per lo più di carabine da caccia, di alabarde o semplicemente di sciabole, ma tutti entusiasti ed ardenti. Buona parte di questi si unirono all’armata liberatrice e presero servigio sotto le bandiere della libertà e dell’Italia. Altrettanto era avvenuto nei piccoli paesi dai Garibaldini visitati nel loro passaggio: da ogni parte la gioventù accorreva ad accrescere le file italiane. ed il corpo di spedizione aumentava a misura che penetrava nell’interno dell’Isola.
XXXII.— I Garibaldini, non per anco rimessi dai disagi del mare ed inoltre affaticati da una marcia forzata per cattivissime strade, abbisognavano di riposo e di quiete. Eglino tutto avean tollerato senza mormorare o lagnarsi: come le fatiche e i pericoli fossero per essi un trastullo ed un giuoco, li affrontavano coll’incuranza della gioventù, colla magnanimità del soldato. Le anime loro parevano indomabili, ma la natura ha delle necessità alle quali è pur forza obbedire. Di più il Generale aveva dagli esploratori avuto certa notizia che i Napoletani trovavansi accampati in buon numero sulle alture di Calatafimi: né voleva marciare ad incontrarli con soldati rifiniti dalle privazioni e dalle veglie. Prese impértanto le disposizioni opportune affinché il nemico non avesse a sorprenderlo, invitò i volontari a rifarsi con tranquillo riposo dei mali sofferti.
XXXIII.— Fu a Salerai che comparve il proclama del 14 maggio col quale Garibaldi dietro invito dei principali cittadini e sulla deliberazione dei comuni liberi dell’Isola (parole testuali del proclama medesimo) assunse la dittatura in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia (31). Questa suprema decisione imposta dalle circostanze e consigliala da imperiosa prudenza, fu accolta dai volontari e dal popolo come l’attuazione d’un desiderio comune. La sera si festeggiò, per quanto la ristrettezza del tempo il permetteva, il felice avvenimento, e se ne trassero i più favorevoli auspici per l’avvenire d’Italia.
XXXIV.— In que’ giorni medesimi il Generale emanava due nuovi proclami, l’uno diretto ai militi dell’esercito napoletano, e l’altro agli abitanti della Sicilia: ma come non portano data di luogo né di tempo non è facile stabilire dove e quando furono scritti. Col primo Garibaldi rammenta ai nipoti dei Sanniti e dei Marsi ch’eglino sono i fratelli, non gl’inimici, degl’Italiani del settentrione, ed addita le nostre discordie come la cagion principale del patrio servaggio. «Il giorno che i Napoletani, stretti ai fratelli della Sicilia porgessero la destra ai compatriotti del nord, il popolo nostro ripiglierebbe il posto che gli è dovuto tra le prime nazioni del mondo. Egli, soldato italiano, ambire soltanto vederli schierati accanto ai soldati di Varese e San Martino per combattere i nemici d’Italia.» Ed ai Siciliani annunziava aver loro guidato una schiera di prodi resto delle battaglie Lombarde: li esortava a correre all’armi dichiarando codardi e traditori coloro che, sotto qualunque pretesto, rifiutassero di rispondere all’appello della patria in pericolo (32). Da ultimo con un ordine del giorno, improntato dell’eloquenza di cui solo ha il secreto, Garibaldi apparecchiava i compagni ad un prossimo scontro.
XXXV.— I Garibaldini rimasero fermi a Salerai tutto il giorno 4. I numerosi esploratori che il Generale avea spedito a sorvegliare i movimenti dei Regii riportarono che il generale Laudi, alla testa di quattro a cinquemila soldati, erasi fortificato davanti a Calatafimi, dove pareva disposto ad attendere, in una vantaggiosa posizione, lo scontro dell’armi italiane. Più tardi, sul far della notte, i volontari spediti a riconoscere il fatto, riferirono che nel campo napoletano osservatasi un movimento generale ed insolito: la qual cosa faceva nascere il sospetto che eglino intendessero avanzarsi alla volta di Salerai. A premunirsi quindi da un attacco notturno gli avamposti furono spinti più innanzi sullo stradale di Vita, al piccolo cascinaggio di Sant’Antonicchio situato sopra un colle che domina le vicine campagne (33).
XXXVI.— E ciò ancora non bastando, un drappello di Carabinieri da Genova, di conserva con un distaccamento della prima compagnia, ebbe l’ordine di fare a notte già fitta una ricognizione sopra il villaggio di Vita che sospettavasi dal nemico occupato. Eglino più ore camminarono fra le tenebre più profonde e sotto minutissima pioggia: e soltanto allo spuntare dell’alba e senza incontrare nessuno, trafelati e stanchi, raggiunsero i loro compagni.
XXXVII.— A giorno già chiaro e verso le cinque antimeridiane i Garibaldini partirono da Salemi, accompagnati dalle felicitazioni del popolo, e dopo un’ora e mezzo di marcia arrivarono al sunnominato villaggio di Vita, dove sostarono circa per trenta minuti. Alle sette successive si rimisero in cammino: precedevano le guide condotte da Missori: venivano poscia i Carabinieri genovesi e le nove compagnie sotto i rispettivi lor duci: e chiudevano la marcia i quattro pezzi di artiglieria da campagna ed i carriaggi delle munizioni e dei viveri. I pochi Siciliani, o Picciotti (34), accorsi all’appello di Garibaldi e riuniti all’armata, come più pratici dei luoghi, vennero distaccati a destra ed a sinistra nello scopo di battere la campagna e sorvegliare le mosse nemiche.
XXXVIII.— L’intrepida confidenza di Garibaldi rendevalo impaziente d’affrontare l’esercito regio. Ma l’audacia del Generale era assicurata dalle precauzioni più sagge, e la sua impazienza guidata dalla disciplina e dall’ordine. Con tutto ciò la marcia dei volontari era lenta: la vicinanza del nemico imponeva dei riguardi, né doveasi pervenire sul luogo dell’azione con soldati rotti ed affranti dalle fatiche di un precipitoso viaggio.
XXXIX.— Alle dodici meridiane i volontari, nell’ascendere un piccolo colle, si trovarono improvvisamente di fronte a Calatafimi ed alla linea napoletana. Occupavano i Regii una formidabile posizione sui fianchi dirupati d’un’altra montagna che stendesi davanti a Calatafimi e di cui sembra formare la naturale difesa. Il centro teneva il punto più elevato della montagna medesima: la sinistra loro s’appoggiava ad un bosco, mentre la destra distendevasi a cavaliere della strada di Vita. Il generale Landi aveva scelto quel luogo, siccome il più centrale e strategico, per le sue operazioni, dond’eragli parimenti agevole il penetrare nell’ovest dell’Isola, od, in caso d’impensati disastri, ripiegarsi sopra Palermo. Le sue forze consistevano in 3500 uomini, uno squadrone di cavalleria, due compagnie di cacciatori e quattro pezzi d’artiglieria da montagna. La riserva, in numero di 1000 soldati, presidiava la vicina città, dove pure trovavansi l’ospitale ed i magazzini dei Regii.
XL.— Salito sul colle Garibaldi al primo colpo d’occhio comprese l’importanza delle posizioni nemiche e la difficoltà dell’attacco: ma il suo grand’animo anziché smarrirsi, crescendo coll’aumentar del pericolo, parve raddoppiare in quel punto di prudenza e d’audacia. A fronte di un nemico quattro volte superiore di forze, munito di artiglierie e schierato in posizioni pressoché inaccessibili, il generale italiano trovò nell’inesauribile fecondità del suo genio un piano di guerra che doveva supplire al difetto del terreno e del numero.
XLI.— A destra dei volontari, e per contro alla posizione occupata dai Regii, innalzasi un’altra montagna, più alta e, per gran tratto, parallela alla prima: e Garibaldi la scelse qual perno de’ suoi movimenti. In un lampo furono prese le opportune misure ed impartiti gli ordini perché il pensiero del Generale potesse avere la sua esecuzione. I quattro pezzi d’artiglieria vennero collocati sulla strada per torre l’adito alla cavalleria napoletana di penetrare da quella parte e sorprendere i volontari da tergo. Due compagnie furono lasciate a guardare lo stradale ed i cannoni, mentre la prima comandata da Bivio doveva rimanere a custodia delle munizioni e dei carri. I Carabinieri genovesi, le guide e le sei rimanenti compagnie furono a passo di corsa slanciale ad occupare la suddetta montagna, della quale i Picciotti dovevano salire la cima più elevata.
XLII.— La distanza che i volontari doveano percorrere era di circa un chilometro e mezzo: ed in meno d’un quarto d’ora si trovarono lutti al loro posto. Ad un cenno eglino si distesero in catena sul declivio della montagna medesima, la cui sommità venne tosto dai Picciotti occupata: seguivali Garibaldi accompagnalo dal suo Stato Maggiore.
XLIII.— Di là, sereno in volto e col sorriso dell’impassibilità sulle labbra, Il Generale attentamente studiava le posizioni nemiche e le mosse dei suoi. Tra le due montagne giace una piccola valle che prolungasi a destra sino ad un profondo burrone, che appar di lontano sepolto fra i boschi a sinistra, e taglia trasversalmente lo stradale di Vita, continuando nella direzione di Trapani. I volontari tenevano il versante orientale della montagna a ponente: e stavano i Regii schierati sul declivio occidentale di quella situala a levante. In tal guisa i due campi si trovavano soltanto divisi dalla valle suddetta.
XLIV.— In tale condizione di cose l’avventurarsi all’assalto. stato pe’ Garibaldini sarebbe pericoloso e fors’anco fatale. I Napoletani apparivano così numerosi da poterli schiacciare col peso del numero: ed ogn’altra combinazione strategica diveniva impossibile stante l’impraticabile configurazione del suolo. Il Generale impertanto decise rimanere sulla difensiva ed aspettare che i Regii, discendendo per attaccarlo, com’era probabile, perdessero la superiorità del terreno, di cui stavasi in apprensione assai più che del loro coraggio.
XLV.— Infatti, sino dal primo comparire dei nostri, erasi nel campo nemico osservato un movimento continuato, crescente, inesplicabile. Intiere compagnie e battaglioni schieravansi in linea, poscia si distendevano in catena, volgevansi a destra ed a sinistra, ad ogni istante cangiando di posizione e di mosse. Eglino s’affaticavano a tutt’uomo quasi volessero dare spettacolo di sé, e mostrare quanto ne sapessero di evoluzioni campali e di tattica abilità. I Garibaldini per contro, avvezzi ai pericoli, più che all’esattezza, delle manovre guerriere, maliziosamente interpretavano quella smania di muoversi qual sintomo male dissimulato di sgomento e paura (35).
XLV.— Alla fine, ricevuto un rinforzo di truppa che senza dubbio attendevano, e collocate le artiglierie ne’ punti che più opportuni credevano, i cacciatori napoletani. incominciavano a discendere. a spiegarsi in catena e ad apparecchiarsi all attacco. Era quanto Garibaldi ansiosamente aspettava. I Carabinieri di Genova e le guide che formavano la fronte di battaglia aveano l’ordine di non trar colpo ma di attendere a piè fermo il nemico, ed allora soltanto che fosse pervenuto a pochi passi dalla lor posizione, lo caricassero alla baionetta e lo rovesciassero. I Napoletani bentosto aprirono il fuoco: ma non è a dire quanto alta? mente stupiti restassero nel vedere la profonda incuranza e l’immobilità dei nemici. La strana ed incrollabile imperturbabilità, colla quale i Garibaldini sostennero furto, solfammo dei Regii produsse una più viva impressione che non avreb’ beco fatto le loro armi e i lor colpi. Agli occhi di questi, quegli uomini imperterriti che senza scomporsi e difendersi affrontavano la grandine delle palle nemiche, parevano, non esseri umani ma guerrieri fatali, invulnerabili. Con tutto ciò incalzati alle spalle dalle schiere avanzantisi ed incoraggiati dai loro ufficiali, sebbene con qualche esitazione, si avvicinavano sempre più ai volontari, che dal canto loro non cangiavano né contegno né aspetto.
XLVII.— Ma non si tosto i cacciatori napoletani giunsero a mezzo tiro di fucile circa dai nostri, come se quello fosse ristante designato, un grido unanime, fragoroso, guerriero di viva Garibaldi e l’Italia scoppiò da mille petti ad un tempo, si che ne rimbombarono le montagne, le valli contigue e le torri stesse di Calatafimi. I Regii ristettero maravigliati ed attoniti: ed i Garibaldini, dato di piglio al fucile, con irresistibile furia si slanciarono ad incontrarli in battaglia serrata. L’urto fu repentino e tremendo: i volontari, rovesciati od uccisi i più arditi, sgominarono le prime schiere nemiche e le costrinsero a precipitosa fuga.
XLVIII.— Inseguiti colle baionette alle reni i Napoletani si ritrassero sopra un colle coperto da un battaglione di linea e difeso da un pezzo da montagna. Allora il combattimento s’impegnò su tutta la linea. I Carabinieri genovesi e le guide si avventarono contro il nemico, salendo per l’erta, Uno nel centro delle formidabili sue posizioni. La moschetteria li fulminava da tutte le parti: la mitraglia decimavav, ed il terreno all’intorno. appariva coperto di feriti e di morti: i valorosi per un istante piegarono, ma non perciò si ritrassero indietro d’un passo: in quei supremi frangenti si ricordarono dell’antica virtù e degni mostraronsi della fama acquistata sui campi di Varese e San Fermo e del nome, che Italia riconoscente lor diede, di veterani della libertà e della patria. Indarno i Napoletani raddoppiavan di sforzi e furore usando di tutti i mezzi per respingerli: erano cinquecento volontari (né forte al principiar dell’azione a tanti pure giungevano): ma tutti, come i Lacedemoni alle Termopili, determinati a morire od a vincere (36). Con un sangue freddo ammirabile si ricomposero sotto la grandine delle palle nemiche, aspettando che il cenno di Garibaldi nuovamente li slanciasse alla carica. In questo mentre il cannone italiano, per ordine del Generale, tuonò sullo stradale di Vita: volevasi imporre rispetto alla cavalleria napoletana che minacciava quel punto, solo atto alle sue evoluzioni: ritenevasi che i Regii, sapendo i volontari muniti di artiglieria, non avrebbero osato penetrare da quella parte, assalirli alle spalle ed avvilupparli colla superiorità del lor numero.
XLIX.— Dall’alto della montagna Garibaldi osservava la spaventevole scena, i due campi e la valle interposta: nessun movimento, o de’ Regii o de’ suoi, sfuggiva alla sua vigilanza. La maggior parte delle forze nemiche era entrala in battaglia: il momento decisivo era giunto. Aveva il generale napoletano collocato il suo centro sulla vetta più alla del monte da lui occupato, e spinto le due ali in avanti sul declivio che mette da un lato allo stradale e dall’altro all’estremità del campo italiano. Per tal modo la sua linea formava una curva, estesa abbastanza per ¡stringere i volontari di fronte ad un tempo ed ai fianchi. A destra egli aveva collocato un pezzo d’artiglieria in una posizione magnifica, protetta da una folta macchia e da una cascina che serviva eziandio di trinciera a’ suoi cacciatori: altri due pezzi stavano collocati nel centro, e l’ultimo all’estremità dell’ala sinistra.
L.— I nostri versavano in grave pericolo: troppo pochi erano i volontari, troppo numeroso il nemico e troppo favorito e protetto dalla difficoltà del terreno. L’aspetto delle cose era sinistro, l’evento dubbio ed incerto: ma il genio del Generale sin da quell’istante intravvide la probabilità d’una piena e decisiva vittoria. La settima compagnia (Cairoli) e l’ottava (Bassini) furono spinte in avanti a sostenere ed a rinforzare i Carabinieri di Genova: Bixio allo stesso tempo ebbe l’ordine: di lasciare i carriaggi e la strada alla guardia della batteria e ‘di forse venti artiglieri e di raggiungere col resto delle squadre il campo di battaglia: ed i Picciotti vennero, da ultimo collocati sulla china della montagna medesima, piuttosto per nascondere al nemico la scarsezza numerica de’ suoi veterani che per trarne alcun più reale e positivo vantaggio. Così disposte le cose, l’uno e l’altro campo alla pugna accingevasi: la fortuna ed il valore stavano por decidere dei loro destini.
LI.— Ad un cenno del Generale le trombe suonaron la carica. Incontanente al solito grido di viva Garibaldi e Malia l’armata italiana si scosse e con fracasso indicibile impetuosa volò ad affrontare i Borbonici. Uno Schiaffino da Camogli, afferrata una delle tante bandiere che sventolavano nelcampo italiano, primo Mi slanciò fra i nemici, animando colla voce e l’esempio i compagni. I Napoletani serrati in massa opposero valida resistenza: il combattimento si fece micidiale e terribile. Schiaffino cadde trafitto ed immerso nel proprio sangue, stringendo tuttavia la bandiera ch’ei non voleva lasciare nemmen colla vita. Un Napoletano la strappò violentemente dalle mani del morto e si ritrasse a salvamento nelle file de’ suoi: i Volontari esasperati tentarono invano di ricuperarla. Fu quello l’unico ed inutile trofeo che i nemici vantare potessero in quella sanguinosa giornata (37).
LII.— Irruppero allora i volontari con terribile furia laddove più denso appariva il nemico ed era maggiore il pericolo: ed i Napoletani dopo aver vanamente tentato resistere, sbalorditi da tanto coraggio ed audacia, retrocessero e finalmente si volsero in fuga. Le due ali dell’esercito, assalite e sbaragliate nel tempo medesimo, inseguite di posizione in posizione e decimate dalle baionette italiane, si ritrassero verso la cima occupata dal centro, gettandovi la costernazione è il terrore. Fu allora che il generale Landi mandò l’ordine di venire a raggiungerlo alla riserva che occupava la vicina città di Calatafimi: ma questa negò l’uscire e di muoversi. Questo appello del comandante nemico alle sue riserve prova ch’egli in sin da quel punto in cuor suo già sentiva impossibile il vincere e la sconfitta già certa (38).
LIII.— L’armata napoletana trovavasi allora ristretta in un piccolissimo spazio sulla vetta della montagna e precisamente nel luogo chiamato Monte del Pianto Romano, per una sanguinosa disfatta che un’antica tradizione popolare racconta aver quivi le romane legioni subita. Quella era una posizione di sua natura imprendibile perché dirupata e protetta da un formidabile fuoco a mitraglia. Ciò nulla ostante i Regii tentennavano, mostrando a chiari segni ch’eglino avrebbero desiderato piuttosto ritirarsi che battersi. Ma la voce e l’esempio dei loro ufficiali e fors’anche la vergogna tenevali fermi al loro posto. Un fuoco micidiale ricominciò su tutta la linea: due pezzi di artiglieria vomitarono sui volontari un torrente di proiettili, e l’esito della giornata parve per un istante indeciso. Al fragore delle artiglierie, alle grida assordanti, alle imprecazioni ed ai viva, s’aggiunse il clangore dei musicali istrumenti che Landi ordinò si suonassero ad oggetto di rilevare il coraggio abbattuto de’ suoi. I sentimenti di paura e di tema, l’angoscia e il terrore, venivano soffocati dalla tremenda e marziale armonia dei tamburi, delle trombe e dei cannoni: e l’esperienza ha mostrato mai sempre che la meccanica operazione dei suoni, col ravvivare la circolazione del sangue e gli spiriti, agisce sulla macchina umana assai più potentemente che non l’eloquenza, la ragione e l’onore.
LIV.— I volontari sperano intanto raccolti sotto un piccolo rialzo di terra che per caso a piè del poggio trovavasi ed in parte, copri vali e proteggevali contro il tempestale della mitraglia nemica. Rimaneva l’ultima posizione a superare, un ultimo ostacolo a vincere: ma per quest’ultimo e definitivo assalto, Garibaldi soccorse essere necessaria la sua presenza e discese tra i suoi. Né s’era ingannato: è indescrivibile l’entusiasmo che il sereno sembiante del Generale suscitò fra i soldati condotti da lui: al suo fianco eglino credevansi, ed erano perciò, invincibili.
LV.— Arringati con brevi e generose parole i suoi militi e dati gli ordini opportuni tranquillamente aspettò che ciascuno avesse raggiunto il posto assegnatogli. Poi, quando vide;che tutto era pronto e che soltanto il suo cenno attendevasi, trasse la spada e sollevando pel primo il grido di viva l’Italia slanciossi contro il nemico.
LVI.— L’impeto, come sempre, fu irresistibile. La linea napoletana sorpresa, commossa, atterrita, indietreggiò, si scompose e si ruppe, gettando la confusione ed il disordine in tutto l’esercito. Nulla valsero le esortazioni degli ufficiali e le imperiose minaccie del comandante: per vero in quella memoranda giornata erasi Landi condotto da valoroso soldato ed abile capitano; ma il genio del generale borbonico doveva cadere sotto l’ascendente d’un altro genio più grande del suo. Sbaragliate lo prime squadre, la moltitudine non conobbe più freno a ritegno: i soldati abbandonavano le armi e le munizioni per essere più spediti e più lesti alla fuga.
In poco d’ora l’armata napoletana disparve dal campo, abbandonando all’avversario gran numero di feriti e di morti, diverse bandiere, un cannone, muli e cavalli, ed Ina immensa quantità di fucili, di attrezzi, di munizioni e di viveri (39).
LVII.— Il generale Landi, accompagnato dal suo Stato Maggiore, viste perdute le cose, fra i primi abbandonò la battaglia, cercando sicuro ricovero dietro le mura di Calatafimi. La grande massa dei Regii accavalcavasi dalla parte medesima ed entrava disordinata in città. Quello più non era un esercito, ma una moltitudine smarrita e confusa, oppressa da un panico indescrivibile e senza disciplina né ordine, che fuggiva in tutte le direzioni per sottrarsi alla furia d’un’armata invincibile ed all’ira d’una forza sovrumana e fatale. Lo spavento ingrandisce gli oggetti: ed il piccolo numero dei Garibaldini poteva ben apparire ai Borboniani tremanti un esercito di migliaia e migliaia di uomini (40).
LVIII.— Ad onore del vero si deve però confessare che alcuni corpi napoletani si batterono con accanimento e ferocia. L’ottavo Cacciatori, che i volontari in appresso si trovarono a fronte in tutti gli scontri da Calatafimi al Volturno, il primo battaglione dei Carabinieri e Partigliene, si distinsero sia nell’attacco, sia nella difesa della lor posizione. Fu un istante che, esaurite le munizioni, i cacciatori borbonici diedero di piglio alle pietre, contendendo all’avversario il terreno a quella guisa che i villani talvolta s’azzuffano per l’acque di un ruscello o per la divisione d’un campo. Il rotolare dei sassi dall’alto, non lievi danni apportò ai volontari: lo stesso Generale ne rimase leggermente contuso alla spalla. Ma tatto fu invano: lo scompiglio del campo rese inutile ogni al terror resistenza: è il valore dei pochi, anziché proteggere l’onore della bandiera ed assicurar la vittoria, non fece che’ perdere i più valorosi; e completar la disfatta.. I Garibaldini oltrepassavano le prime squadre dei Regii che tuttavia combattevano fuggendo dietro l’esercito, e nella confusione della mischia sarebbero penetrati in città unitamente al nemico, se la tromba del campo non avesse suonato a raccolta. Ma in seguito, i Garibaldini riconobbero che il maggior numero dei feriti e degli uccisi apparteneva al corpo dell’artiglieria, ai carabinieri ed ai cacciatori È questa la più bella e solenne testimonianza della loro leale condotta (41).
LIX.— Per tal modo dopo tre ore di combattimento i volontari rimasero padroni del campo ed acquistarono una segnalata vittoria che li rese padroni della parte occidentale dell’isola da Mazzera a Palermo. Impossibile sarebbe descrivere con verità e precisione tutti gl’incidenti di quella gloriosa giornata e le prodezze individuali che immortalarono il valore dei nostri. Se il fatto di Calatafimi si considera in proporzione del numero dei combattenti che si trovarono a fronte, poche vittorie ricordano gli annali del mondo che in grandezza e difficoltà lo pareggino: se guardasi al risultato, questo non potava essere né maggiore né più decisivo. Garibaldi si recava in Sicilia a combattere ed a sbaragliare un esercito di cinquantamila soldati di tutto provvisti e trincerati nelle loro fortezze: il suo piano poteva parere temerario ed impraticabile, e tale molti l’avean giudicato: ma la battaglia, di Calatafimi veniva a rettificare gli erronei giudizii ed a porre in più limpida Luce la sua fama e la superiorità del suo genio. Al Monte del Pianto Romano fu svelato il secreto come un esercito regolare ed ordinato possa essere vinto e disfatto da un corpo di giovani volontari male armati, mal vestiti, e stanchi per le fatiche sostenute in un lungo viaggio di mare e di terra. Inoltre, come i volontari avevano incominciato a vincere, i Napoletani avevano principiato a fuggire, e l’esperienza dimostra che la vittoria o la sconfitta, sollevando o deprimendo gli spiriti del soldato, lo predispone a nuovi trionfi od a nuove disfatte. A questo risultato del tutto morale devonsi aggiungere i vantaggi materiali che ridondarono ai nostri in conseguenza della loro vittoria. Un terzo della Sicilia diveniva indipendente: la vasta provincia di Trapani e il litorale e le coste sino a Sciacca ed a Girgenti passavano dal dominio dei Borboni al Regno della libertà: e la rivoluzione vi acquistava un centro d’unità e d’azione ove consolidarsi ed ordinarsi. I valorosi potevano raggiungere l’armata liberatrice, i tiepidi, gl’incerti, smesso ogni timore delle vendette nemiche, erano invitati ad abbracciare trionfante, quella causa, che avrebbero forse rinnegato, se vinta. Oltracciò i Garibaldini acquistavano un suolo, una patria, per cosi dire, un aumento di forze materiali e morali: ottenevano infine la facilitazione di trarre dal paese gli libero ampii sussidii di danaro, di munizioni e di viveri.
LX.— Ma tutti questi vantaggi, grandi per certo qualora si badi alle conseguenze, costarono gravissime, dolorosissime perdite. Diecisette furono i morti, circa cento cinquanta i feriti, tra i quali un frate siciliano che sin dal principio della zuffa non aveva un istante cessato dall’animare colla voce e coll’esempio i soldati. La compagnia Carabinieri genovesi ebbe solo cinque morti e tre feriti: le altre tutte, qual più qual meno soffrirono. Ma quando si consideri il numero preponderante dei Regii, la strana sproporzione delle forze e dell’armi, le difficoltà del terreno e la durata del combattimento, è necessità confessare che le perdite dei Garibaldini, comunque ben gravi, potevano essere di gran lunga maggiori.
LXI. Vieppiù soffrirono i Regii: l’esercito fu decimato. Oltre la perdita di una fortissima ed importantissima posizione, e duna immensa quantità di materiale da guerra, ebbero trecento uomini tra morti e feriti, gran parte dei quali giacevano abbandonati sul campo. La ritirata loro fu oltre ogni dire disordinata e confusa: intieri battaglioni vennero tagliati fuori della città, intiere compagnie disertarono e moltissimi sbandaronsi, salvandosi alla ventura tra le creste dei monti, nella profondità dei burroni o nel centro dei boschi. Dei tre mila cinquecento soldati che il generale Landi numerava la mattina sotto i suoi ordini appena una metà trovò la sera raccolta dietro le mura di Calatafimi. La demoralizzazione, il panico dell’armata regia era tale che il Generale non osò di attendere il giorno per timore che Garibaldi non venisse ad assaltarlo sin dentro la città e compire la sua distruzione. Perciò dopo la mezzanotte, senza suono di tamburi o di trombe, i Napoletani abbandonarono chetamente Calatafimi e si diressero sulla via di Palermo.
LXII.— I Garibaldini spendettero gran parte della notte a raccogliere ed a medicare i loro feriti. Allo stesso tempo, come l’umanità lo esigeva, prodigavano tutte le cure ai Regii feriti che lo spavento e l’incuranza di Landi avea nelle mani loro lasciati. Garibaldi li visitò la sera medesima ed a tutti rivolse parole di conforto e speranza. Recossi in seguito a dare i provvedimenti oppor, funi per l’ordinamento delle milizie e per la guardia del campo. Gli avamposti furono spinti sin sotto le mura della città, di cui intendeva al primo albore insignorirsi. Speravasi di sorprendervi il nemico, di batterlo nuovamente ed intercettargli lo stradale di Partinico: ma tanta fu la secretezza che usarono i Regii nell’allontanarsi che i nostri non n’ebbero verun sentore. In tal guisa in quella notte Garibaldi occupava il punto medesimo dove il mattino antecedente elevavasi la tenda del generale borbonico. Ed i volontari dopo tante fatiche e pericoli poterono finalmente consacrare ad un tranquillo riposo le ore che rimanevano della notte dal 15 al 16, aspettando che la nuova luce sorgesse a chiamarli a novelle vittorie.
continua……….
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