Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (IV)

Posted by on Apr 26, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (IV)

LIBRO IV

Marcia da Calatafimi a Pioppo Misilmeri

I. —Calatafimi o Calatasimi, volgarmente Catalfano, od altrimenti Castello di Fimi o d’Eufemio, deve il suo nome al capitano greco che nella prima metà del secolo IX invitò e condusse i Saraceni alla conquista dell’Isola. Egli amoreggiava una fanciulla di nobile schiatta e doviziosa e potente famiglia: ma i parenti: di questa, mossi da personale rancore, o per altra cagione, rifiutarono al giovane amante la mano dell’invaghita donzella.

E bisogna ben credere che questa fosse presa della più viva passione, o che la famiglia d’Eufemio ben fosse potente, se i parenti della fanciulla, come narra la tradizione popolare, si trovarono costretti a’ seppellirla nella solitudine di un chiostro perché non cadesse nelle mani del suo innamorato. La donna si fece religiosa in un monastero nelle vicinanze di Siracusa: ed il giovane, accecato dalla passione e dall’ira, esulò della terra natale recandosi in Africa, ove abiurata la fede de’ suoi padri, divenne seguace del profeta degli Arabi; Alla testa di un’armata africana ritornò pochi mesi appresso in Sicilia e la pose a ferro ed a fuoco: vendicandosi in tal guisa, sopra una popolazione innocente, dei torti d’una sola famiglia (42).

II.— Calatafimi sorge dalle rovine dell’antica Longarium. sulla vetta d’un colle, come quasi tutte le città siciliane: essa giace a cinque miglia da Alcamo ed a venti da Trapani. Ubertosissimo è il suo territorio come quello che abbonda d’ogni sorta di frutti fra i quali le uve così dette di malvagia godono della più bella riputazione e rinomanza all’Interno ed al Pesterò. Due vaste e selvose catene, diramazioni del monte Ghinea, quasi due antemurali elevati dalla natura a ¡proteggerla, si stendono al sudovest e nord-ovest, circondandola per cosi dire di una linea di rupi scoscese e pressoché impraticabili. La prima di queste catene è la stessa che si prolunga alla cima chiamata il Monte del Pianto Romano, che fu il giorno prima teatro della vittoria di Garibaldi e della vergogna di Laudi.

III.— Era vicina già l’alba, ed i Garibaldini, raccolti e tranquilli, riposavano sul campo dei loro trionfi. Al di fuori regnava il più alto silenzio: nella vicina città, nelle valli, sui monti e dovunque era calma e torpore profondo, sepolcrale e terribile. Soltanto per intervallo rompeva l’uniforme tranquillità della notte il passo lento e pesante delle ronde e il grido delle sentinelle che vegliavano alla sicurezza dell’armata ed osservavano le mosse nemiche. Ma il Generale solo col suo Stato Maggiore meditava e tracciava il piano d’attacco col quale doveva il giorno appresso insignorirsi di Calatafimi, obbietto per allora precipuo de’ suoi desiderii. Se non che il generale borbonico, occultamente la notte fuggendo, ai Garibaldini rapiva l’onore di nna seconda, e più certa vittoria.

IV.— Verso la punta del giorno un rumore confuso, prolungato e crescente, improvvisamente elevavasi dalla vicina città: pareva il fremito dell’uragano, o lo scoppio del tremuoto o del tuono. Le scolte, paventando un’insidia, diedero il segnale d’allarme, ed in pochi minuti i volontari trovaronsi schierati al lor posto. Eglino contemplavano al bagliore dell’Incerto crepuscolo quella massa brunastra e solitaria che stendevasi davanti ai loro occhi: ed attendevano con ansietà che comparisse il nemico per avere il piacere una seconda volta di batterlo. Ma i Regii erano già lungi: e nell’ora medesima, oltrepassato Alcamo, Landi fuggiva sulla strada di Masa Quarnero e Partinico.

V.— Cagione dell’improvviso tumulto fu che i cittadini, accortisi della partenza dei Regii, si posero a schiamazzare, a chiamarsi per nome, a fare aprire i pubblici stabilimenti e le case, a festeggiare in una parola la libertà conquistata ed il trionfo ottenuto. L’entusiasmo era al colmo: la moltitudine correva qua e là senza scopo e senz’ordine, resa dalla gioia frenetica e pazza. L’odio al dominio ed al nome borbonico, non più compresso dall’arti di polizia o dalla ferocia delle baionette, apparve, qual era, tremendo, universale, implacabile. In mezzo agli urli ed alle imprecazioni della folla, le insegne napoletane disparvero dai pubblici stabilimenti e dai negozi, ove furono al medesimo istante surrogate da migliaia e migliaia di bandiere italiane. Ed i senatori (43) associandosi all’entusiasmo dei cittadini, inviarono una deputazione a Garibaldi perché gli desse parte dell’avvenimento e lo invitasse ad entrare in città.

VI.— Cosi la mattina del 16, sollecitati dalle autorità e dalla popolazione, i Garibaldini entrarono trionfalmente in Calatafimi dove erano ansiosamente aspettati. Non è a descrivere l’accoglienza fraterna ed unanime fatta da quei cittadini ai veterani della libertà nazionale: il fausto avvenimento solennizzavasi colla massima pompa religiosa e civile. Miriadi di bandiere tricolori, di tutte le forme e dimensioni, sventolavano dalle finestre, dai tetti delle case e dei palazzi, dai campanili e dalle chiese: ed i sacri bronzi suonavano a festa, consociandosi alla gioia entusiasta del popolo. I volontari parevano alla folla accalcata e sorpresa più che uomini e più che soldati: tutti ammiravano quei volti abbronzati dal sole e dall’aria dei campi, il loro marziale contegno e la magnanima fermezza dei loro sembianti. I popolani li abbracciavano con trasporto indicibile, li conducevano alle case loro e li accarezzavano, cercando per quanto era in loro potere soccorrerli ne’ loro bisogni. Più tardi nelle varie chiese della città si cantava un solenne Te-Deum in rendimento di grazie per l’ottenuta vittoria. La sera ebbe luogo una illuminazione generale e spontanea, musica, balli e canzoni patriottiche: magnifico ed inusitato spettacolo per quegli abitanti, dopo tanti anni d’oppressione, di silenzio e di lagrime.

VII.— Garibaldi frattanto, posto il suo quartier generale al palazzo del Comune, poche ore prima occupato da Landi, prese il possesso della città in nome della Nazione e di Vittorio Emanuele suo Re. La felice notizia venne tosto, con apposito avviso, divulgata nella popolazione e tra militi: e fu acclamata, festeggiata ed accolta siccome l’espressione della volontà generale. Quindi il Generale coi Senatori e col suo Stato Maggiore si strinse a consiglio per ventilare e discutere i futuri ordinamenti del tratto di paese già libero. Furono prese le misure opportune per imporre alle comunità que’ sussidii in danaro ed in viveri che il bisogno della campagna rendea indispensabili, si tracciò una rete di comunicazioni per aver pronte e sicure notizie di quanto accadeva nei varii punti dell’Isola e si decretò un centro ove potessero radunarsi i volontari del paese che intendessero arruolarsi nell’armata italiana. Venne pure costituito un governo provvisorio incaricato d’eseguire le leggi ed i decreti dittatoriali, a regolare i rapporti del paese coll’esercito e ad amministrare la publica cosa. Per tale maniera Calatafimi divenne interinalmente, sino alla presa di Palermo, la capitale di un terzo dell’Isola, la base delle future operazioni militari e la sede legale della Dittatura Siciliana.

VIII.— Nell’ordine del giorno del 16 maggio, Garibaldi, deplorando la dura necessità di dover combattere contro soldati italiani, altamente felicitava i suoi volontari del trionfo ottenuto. Le sue parole furono poche, severe e degne di sé e dai soldati e della nobile causa per cui guerreggiava. Egli non dissimula punto il valore dei nemico e la resistenza da esso opposta a’ suoi sforzi, ma dichiara confermata la fiducia ch’egli aveva riposto ne’ suoi seguaci e nelle fatali loro baionette. Da ultimo, versando una lagrima sui forti caduti in battaglia, prometteva di segnalare al loro paese il nome dei prodi che condussero i meno esperti alla pugna, e di quelli che più si distinsero. Egli conchiudeva col fare appello al loro coraggio pei giorni di prossimi e maggiori pericoli. L’elogio era giusto e meritato: e la piena soddisfazione del loro Generale, si altamente proclamata, fu la più ampia ricompensa alle sostenute fatiche e la prova più manifesta della loro eroica bravura (44).

‘IX.— Alle dieci mattutine del medesimo giorno entrarono in Calatafimi i quattrocento volontari di Castel Vetrano, preceduti da banda musicale e da una superba bandiera tricolore, portata da un frate. Eglino s’eran raccolti appena ebber saputo io sbarco di Garibaldi a Marsala, ad oggetto d’unirsi con lui e colle squadre da lui comandate. Ma per quanto avessero affrettato la loro partenza non si posero in cammino se non dopo ch’egli ebbe abbandonato il litorale: e lo avevano seguito più giorni senza mai poter raggiungerlo. Essi erano armati in parte con fucili di munizione, il resto con piccoli schioppi da caccia: ma nel sembiante e nel contegno animati mostravansi dal più vivo desiderio di misurarsi in battaglia coll’oppressore borbonico. Giunti sulla piazza di Calatafimi; il frate arringò la popolazione e gl’insorti e li fece giurare di non riconoscere altro Re che Vittorio Emanuele e di non adottare altra politica che quella dell’unita nazionale.

X.— Alle cinque antimeridiane del 17 i Garibaldini si riposero in marcia ed alle otto arrivarono ad Alcamo, alla distanza di circa dieci chilometri. Alcamo è città ragguardevole sulla grande strada militare di Palermo, da cui dista circa quaranta chilometri ed ha 12,000 abitanti. Essa giace, secondo alcuni, sulle rovine dell’antica Segesta, alle radici del monte Bonifato, in un territorio maravigliosamente ubertoso e ricchissimo di prodotti minerali ed agricoli. I volontari vi furono accolti col più ardente entusiasmo e festeggiati con bandiere, conmusica, con applausi a con fiori: i cittadini con le più vive dimostrazioni di gioia aderirono al nuovo ordine di cose, ed abbattuti gli stemmi borbonici, innalzarono dovunque il tricolore italiano. Poco stante giunsero due frati con due piccole squadre d’insorti, e come al solito arringarono il popolo assembrato ed i militi, esortandoli a sorgere in armi contro il comune nemico ed a confidare in Dio, nella patria e nel prossimo trionfo dell’unità nazionale.

XI.— Il giorno medesimo Garibaldi ebbe certa notizia dell’itinerario seguito, e delle crudeltà perpetrate dai Regii nella vergognosa lor fuga. Ad Alcamo, comechè vicino a Calatafimi, non osarono dar libero sfogo alle passioni brutali di massacro e saccheggio: la prossimità dei volontari avevali tenuti in rispetto. Ma pervenuti a Masa Quarnero, piccolo villaggio sulla strada di Palermo e sepolto fra le gole dei monti, ritenendosi abbastanza lontani e sicuri, non esitarono a commettere le solite atrocità ed infamie. Ella è cosa pur vera, e l’esperienza lo prova, che il soldato abbonda in ferocia quanto manca in valore e militare coraggio: il primo a fuggire davanti al nemico sul campo di guerra, è sempre il primo ed il più inesorabile nelle devastazioni delle proprietà e nelle carnificine perpetrate contro gl’inermi ed i deboli. Il generoso abborre dalle distruzioni e dal sangue: ed il soldato che non ha il coraggio del prode ha l’ardir del carnefice.

XII.— L’annunzio di sventure si gravi ed orribili riempi d’amarezza e d’affanno il cuore generoso e sensibile di Garibaldi: i volontari ne rimasero altamente indignati e compiansero la sorte di tanti infelici che non avevano potuto difendere. Impértantosollecitarono la loro partenza. ed il successivo mattino 18, lasciato Alcamo, marciarono sopra Masa Quarnero celeramente e in buon ordine. Era intenzione di Garibaldi di raggiungere il nemico e completamente sbandarlo, o per lo meno di restringere il campo delle sue distruzioni. I volontari parimenti anelavano a vendicare nel sangue borbonico le stragi inumane dei vicini villaggi.

XIII.— All’entrare in Masa Quarnero i Garibaldini inorridivano al triste e lugubre spettacolo che lor si parava davanti; un terzo dei caseggiati non era più che un mucchio di macerie sanguinose ed inerti: e le dense colonne di fumo che da que’ muti rottami elevavansi al cielo, attestavano ancora non ¡spento l’incendio che i Regii vi aveano appiccato. L’intiero villaggio fu abbandonato al furore ed alla lubricità dei soldati; non età, né sesso o condizione sociale, bellezza od innocenza, trovarono grazia presso i cannibali campioni dell’ordine: il paese fu da capo a fondo saccheggiato e per un terzo distrutto; e le donne violate, indi uccise, e massacrati i contadini o moribondi sepolti sotto le rovine delle loro proprie abitazioni. Tali furono i fasti e tali sono le vittorie ed i trofei che i Borboniani possono vantare nei ricordi della campagna Siciliana del 1860.

XIV.— I volontari, dopo avere cercato, per quanto era umanamente possibile, di alleviare le calamità di quei villici, proseguirono il loro viaggio alla volta di Partinico e Palermo senza mai scorgere traccia del fuggente nemico, sul quale ansiosamente desideravano vendicarsi di tante nefandità e vergogne. Ma il giusto desiderio, dei bravi Garibaldini era già in parte compiuto. Gli abitanti di Martinico avevano in tempo avuto notizia degli orribili fatti di Masa Quarnero per lo che, avvicinandosi i Borboniani (dai quali a giusta, ragione temevano un egual trattamento), risolsero di correre all’armi e difendersi: ottimo divisamento che in parte salvavali da certa rovina; tanto è vero che il valore attivo e l’audacia in guerra allontanano o sviano talvolta, almeno in parte, quei tremendi disastri che la rassegnazione e l’inerzia attirano sovente sul capo dei popoli (45).

XV.— Determinata cosi la difesa, ne mandarono incontanente l’annunzio alle varie bande insurrezionali che battevano intorno il paese, e dalle quali potevano sperare cooperazione e soccorso. Gli insorti diffatti aderirono ed accorsero volonterosi all’appello dei fratelli in pericolo. Al tempo stesso si barbicarono le strade che mettono all’ingresso del villaggio: e gli abitanti si disposero nell’interno delle case o si misero in agguato sulle circostanti colline. I Regii frattanto s’avanzavano: ma come pervennero in vicinanza di, Partinico, laddove lo stradale serpeggia in una rete di colli più o meno dirupati e scoscesi, si trovarono improvvisamente assaliti dai lati e da tergo ad un tempo. Se non che i popolani, non osando mostrarsi, li bersagliavano da lungi appiattati nei boschetti e tra le macchie: ed i Regii ricompostisi ebbero campo di proseguire il cammino senza gravi molestie. Ma giunti dinanzi a Partinico la contestazione si fece più seria: gli abitanti aveano risoluto di non lasciarli penetrare nel villaggio e di seppellirsi piuttosto, sotto le ruine delle loro case: altra strada non v’era; ai fianchi gl’insorti sempre più li stringevano ed alle spalle i Garibaldini da un istante all’altro potevan raggiungerli. I Napoletani si trovavano in una posizione assai critica: era mestieri o forzare il passaggio o rassegnarsi a perire sotto il ferro degl’insorti e dei volontari. A nulla valeva fuggire era d’uopo combattere: per il che, fatta di necessità virtù, irruppero con impeto e respinti i difensori penetrarono a viva forza nel villaggio. Né gli abitanti abbandonarono perciò la difesa, ma ritrattisi in ordine dai lati e stesisi in catena continuarono il fuoco. Ciò fu cagione che i Regii non osando soffermarsi nel villaggio lo traversarono a precipizio, quasi fuggendo, come se non vincitori, ma fossero stati battuti. In tal guisa Partinico per la massima parte fu salva, poiché i Regii, malgrado la sete di bottino e di strage, dovettero persuadersi che non era agevole cosa fare degli uomini armati ciò che aveano pur fatto contro villici inermi. In questa fazione i Napoletani perdettero quaranta soldati nel primo attacco sullo stradale ed altrettanti nell’interno del villaggio: né Partinico del tutto andò esente; alcune case furono saccheggiate ed altre date alle fiamme, e s’ebbe eziandio a deplorare qualche vittima: ma il danno sofferto da que’ buoni popolani fu nulla in paragone di quello che avrebber potuto soffrire.

‘XVI.— Né il furore della popolazione cessò coi terminar della zuffa: la vista del sangue l’aveva, come sempre accade, inebbriata. Gl’incendii ed i massacri di Masa Quarnero e le vittime stesse di Partinico imprecavan troppo alto vendetta sul capo dei loro assassini. Non potendo saziare la giusta sua rabbia sul nemico fuggente, la folla inferociva sui cadaveri napoletani, dei quali altri furono barbaramente mutilati o squartati, altri arsi od abbrustoliti e poscia gettati per le vie e per le macchie, pasto agli uccelli ed alle belve. Orribile rappresaglia fu quella; ma se in essa v’ha colpa, devesi attribuire, non ad una moltitudine sdegnata ed esasperata dal lungo soffrire, ma bensì ad un governo che a forza di vessazioni e d’infamie trascinava i suoi popoli ad atti cotanto brutali e riprovevoli.

XVII.— Ad onore del vero tuttavia dobbiamo soggiungere che gli abitanti di Partinico seppero, almeno in parte, rispettare le convenienze sociali e la sventura dei vinti. Il furor della folla si contenne davanti il nemico soffrente: i feriti non ebbero torlo un capello, anzi vennero umanamente raccolti e medicati nel seno delle famiglie che forse nell’atto medesimo piangevano qualche lor vittima. Ai prigionieri non si fece alcun male: eglino furono tradotti al palazzo del Comune e soccorsi di quanto lor poteva abbisognare.

XVIII.— Verso mezzogiorno i volontari arrivarono a Partinico e furono in parte spettatori dell’immane spettacolo. Ma Garibaldi, appena entrato, pose un termine a quell’orgia infernale, ordinando che i mutilati cadaveri fossero incontanente e com’era dovere, onorevolmente sepolti. A tre ore i Garibaldini partirono, dopo breve fermata, malinconici e tristi, quasi preferissero fuggire da una terra contaminata da fatti cotanto atroci ed orribili, la barbara scena di Partinico troppo vivamente li aveva conturbati e commossi.

XIX.— La sera. medesima attraversarono la vasta pianura, od altipiano, di Renne, che stendevi, rotta a grandi scaglioni, incontro a Palermo ed al suo magnifico porto. La capitale dell’Isola, in una svolta della strada, davanti ai volontari improvvisamente comparve co’ suoi mille comignoli, co’ suoi giganteschi palagi, le torri ed i templi. Essa disegnavasi nell’orizzonte siccome un’enorme massa biancastra contro il verde lussureggiante delle opposte montagne e contro l’azzurro del mare: ed i Garibaldini, presi da stupore, ne ammiravano la forma regolare, la posizione stupenda, e la splendida magnificenza e grandezza. A destra, sorgeva il palazzo Reale, antico e sontuoso edificio, già residenza dei Re Aragonesi e più tardi del primo Ferdinando e di Carolina d’Austria: a sinistra sulla riva del mare elevavasi il superbo, castello di Alderamo mutato, ad uso dell’arte moderna, in un forte. Palermo, la meta di tanti dolori e fatiche, fu salutata con immenso entusiasmo: mille voci ad un tempo echeggiarono, mille esclamazioni s’udirono, voci ed esclamazioni di ebbrezza, meraviglia e speranza. Pareva che la vista sola di Palermo centuplicasse l’energia, la confidenza e l’audacia nel cuore dei militi (46).

XX.— Il 18 i volontari pernottarono al Casino Francesco, già deliziosa e superba villeggiatura Reale, bombardata e distrutta nella campagna del 1849 dagli stessi soldati borbonici. La mattina per tempo ripresero la via di Palermo: ma come sapevasi vicino il nemico, e la possibilità di incontrarlo più ognora pressanti facevansi, eglino progredivano lentamente, in ordine di battaglia e pronti del pari alla difesa od all’attacco. Quella marcia ebbe ‘luogo sotto un cielo nubiloso ed opaco e sotto una pioggia continuata e minutissima che rendevate oltremodo faticosa e monotona (47). Il Generale, che tutte divideva le molestie dell’arduo viaggio, camminava pensieroso all’a testa dell’armata: e di tratto in tratto soffermavasi ad esaminare il paese, senza che alcuno potesse penetrare ciò ch’egli volgea per la mente. In quei giorni, forse i più solenni della sua vita, Garibaldi si mostrò infaticabile: egli sempre condusse in persona i suoi militi, fece e rifece da solo i suoi piani, diede ordini e ricevette messaggi e veglio sulla sicurezza di tutti. Era l’uomo provvidenziale, a cui la stessa fortuna ed il destino parevano cedere.

XXI.— Il terreno da Calatafimi a Palermo, abbenché intersecato da monti e colline, presenta l’aspetto d’un’immensa pianura inclinata, ed insensibilmente discende lino di fronte alla stessa città. È una successione continua di vasti alt, piani, disposti a spaziosi scaglioni, e gli uni agli altri soggetti: le colline ed i monti che li dominano o rompono sono diramazioni detraila catena «entrale che divide le tre valli dell’Isola. Tutte queste diramazioni, tra sé parallele, si protendono a destra ed a sinistra sui mare circondando a Levante ed a Ponente con triplice o quadruplice linea la capitale, la rada ed il porto. Codeste linee, dirupate e selvagge e non di rado irte di rupi e boscaglie, si possono considerare siccome le cinte d’altrettanti teatri gli uni negli altri incassati e più angusti. L’ultimo e più piccolo è quello che stendesi intorno alle mura stesse della città, altramente appellato l’agro palermitano: esso distaccasi dalla riva del mare, lambe le radici delle colline dalle quali s’elevano Santo Isidoro e Monreale, raggiunge il villaggio di Parco, e di là compiendo il semicerchio progettasi alle rive orientali del golfo che bagna la città dalla parte di Termini. Per tal modo un esercito che da Calatafimi s’avanzi a Palermo conserva, sopra una linea d’oltre cento chilometri, la superiorità del terreno, e signoreggia le posizioni tutte dal golfo di Castellamare sino al centro dell’Isola.

XXII.— Suprema cura di Garibaldi impertanto era quella di approfittare dei vantaggi che la situazione gli offriva. Dal Comitato insurrezionale di Palermo, col quale tenevasi in giornaliera e secreta corrispondenza, egli riceveva continue relazioni sul numero dei Regii, il presidio, dei forti, le forze che potevano slanciare in campagna, la quantità delle artiglierie, gli ordini del giorno e le mosse militari. Nella capitale e nei dintorni i Napoletani ammontavano a ventiquattro mila soldati, forniti di numerose artiglierie e fortificati con tutte le cure dell’arte. Inoltre potevano contare sull’attivo concorso dei numerosi satelliti della Polizia, sui doganieri, per la massima parte venuti dal continente, sui gendarmi ed eziandio sui pochi Siciliani rinnegati che s’eran venduti al governo borbonico. Tutta questa gente non valeva certamente nelle operazioni del campo, ma poteva divenire utilissima a frenare la città qualora si avesse dovuto sguernire le fortezze e diminuire il presidio (48).

XXIII.— Stando così le cose era agevole scorgere che un attacco diretto contro la capitale avrebbe presumibilmente potuto condurre i volontari a certa ed inevitabil rovina. Il valore dei mille era senza eccezione e al di sopra d’ogni confronto, Garibaldi stesso l’aveva asserito; eglino pienamente confidavano nel genio del Dittatore e nella propria virtù: ma l’umana possanza ha un confine, oltre il quale non è coraggio ed ardire, ma temerità ed ingiustificabile audacia. Il Generale non aveva che la sua piccola armata su cui potesse realmente contare: le varie squadre di Picciotti che s’erano ad essa congiunte valevano per battere il paese o per mostra; ma sul campo di guerra non sarebbero state di nessuna utilità e vantaggio. I Siciliani che avevano assunto le divise, e sperano inscritti nelle compagnie de’ volontari si mostravano bravi, coraggiosi e valenti: ma il piccolo numero loro appena bastava a riempire il vacuo lasciato dalla zuffa di Calatafimi e dagli ammalati e feriti. Il Comitato di Palermo (49) redigeva e pubblicava proclami ridondanti di frasi pompose di vittoria, di libertà ed unità nazionale; ma non mandava né soldati, né armi. Esso accontentavasi a scrivere lettere od indirizzi a destra e a sinistra, ai generali borbonici, ai comuni vicini od a’ suoi corrispondenti dell’Italia settentrionale, senza punto pensare all’armamento, alle barricate, alla guerra. In tal guisa Garibaldi trovavasi ridotto alle, sole sue forze: egli non aveva più che mille soldati, coi quali doveva sbaragliare un esercito di oltre ventimila uomini ed espugnare una città ragguardevolissima e fortificata dalla natura e dall’arte. In quell’istante supremo egli ricorreva all’inesauribile fecondità del suo genio, poiché da esso, più assai che dalle forze materiali di cui disponeva, poteva sperare vittoria. Fu allora che il Generale concepiva, meditava e rivolgeva in sua mente quel piano complicato di mosse e contro mosse strategiche col quale confuse in appresso la saviezza dei condottieri nemici e si rese in pochi giorni padrone della principale città di Sicilia. Intanto dopo un viaggio faticosissimo e lungo i volontari pervennero al villaggio di Pioppo e vi posero il campo.

XXIV.— Pioppo è un piccolo villaggio situato sulla strada, ed alla distanza di sette chilometri circa da Palermo. Di là i Garibaldini scoprivano la vasta spianata, le mura della città e l’accampamento dei Regii. Salito sur una piccola altura il Generale studiava attentamente la natura del suolo e la direzione dei monti ad oggetto di maturare e compiere il piano strategico già imaginato. Stavano i Napoletani, in gran numero schierati davanti il villaggio di Parco, a sette miglia al sud di Palermo: la cavalleria e l’artiglieria occupavano un vasto spazio sotto le mura della città, ed a Monreale, di cui solo una parte vedevasi, sventolavano le bandiere borboniche: il che faceva supporre che fosse del pari presidiata dal Regii. Garibaldi vide e risolse: egli tutto dispose per trarre i Napoletani in inganno, per attirarli dal lato di Monreale, dividere le loro forze con una finta ritirata ed assaltare Palermo mezzo abbandonata e sguernita. Il Generale ordinava impertanto che si accendessero fuochi su tutte le cime all’intorno, volendo al nemico far credere le sue forze assai più numerose di quello che il fossero. Egli spinse gli avamposti ad un chilometro circa più avanti da Parco e ne fece altrettanti osservatorii che vegliassero sui movimenti dell’armata Borbonica.

XXV.— Cosi passò il 19: il giorno 20 fu speso in fare gli apparecchi necessarii per la progettata marcia strategica, a sollevare i volontarii dalle fatiche del lungo viaggio ed a prepararli a novelli pericoli. Furono i militi distribuiti per modo che presentassero al nemico una fronte estesa e lunghissima, mentre i Picciotti a destra ed a sinistra tenevano le sommità delle circostanti montagne. Il generale Bosco, comandante le forze nemiche, scorgendo una linea si vasta giudicò che un intiero esercito tenesse il suo campo fra le gole di Pioppo. Tuttavia non si mosse, senza dubbio aspettando che i volontari accennassero di attaccare Monreale. o Palermo, per accorrere laddove i bisogni della difesa potesser chiamarlo. Garibaldi nel giorno medesimo ricevette le deputazioni di Carini e di Trapani le quali venivano a felicitarsi, delle vittorie acquistate ed a far voti pel prossimo trionfo della libertà nazionale. Il Generale gentilmente le accolse e rimandò con benigne parole ma ricevute ben altramente e festeggiale le avrebbe sé fossero venate, non con frasi sonore ed inani, ma con danari o con uomini.

XXVI.— Scopo del general Garibaldi e precipuo obbietto delle sue operazioni era quello di trascinare, con un finto attacco su Monreale, i Napoletani da quella parte ed indurli ad abbandonare la vantaggiosa posizione che dinanzi a Parco e dinanzi a Palermo occupavano. Egli voleva dividere il nemico, distaccarlo dalla capitale, attirarlo nel centro del paese, e con ardita manovra girando di fianco assalire la città sprovveduta, insignorirsene e rivolgersi quindi contro l’esercito e sbaragliarlo. La situazione dei volontari davanti a Palermo ha una perfetta analogia con quella in cui Bonaparte trova vasi nel 1796 nella campagna contro il generale Alvinzi; la marcia da Pioppo a Misilmeri quella, ricorda di Ronco, d’Albaredo e di Arcole: ambe furono concepite ed eseguite con abilità straordinaria, ed ambe ottennero pieno e decisivo successo.

XXVII.— A destra ed a sinistra da Pioppo sorge la catena di monti o colline, già sopra accennata che in linea curva distendesi d’intorno a Palermo. A destra del villaggio medesimo innalzasi una montagna di forma conica, detta il Castellazzo, forse dalle rovine di qualche rocca feudale: e dietro questa l’antica Abbazia di S. Martino posta a cavaliere di una collina scoscesa e selvaggia di fronte a Monreale. Quest’ultima era occupata dal valoroso e sventurato Rosolino Pilo Gnoemi dei conti Capece (50), il quale con una banda d’insorti da più giorni aggiratasi e mantenevasi in quelle vicinanze continuamente battendo e molestando i nemici appostati a Monreale. Garibaldi approfittando di tale circostanza ordinò che l’armata, girando il Caslellazzo, si portasse per la cima dei colli sopra Monreale, quasi. volesse quivi congiungersi cogl’insorti comandati da Pilo. La mattina del 21 con una rapida evoluzione manovrando sulla sua sinistra, il Generale italiano manifesta mostrò l’intenzione di assalire la destra nemica e di minacciare la capitale di fronte e dall’angusta penisola che giace al nord-ovest tra il golfo di Castellamare, il promontorio Uomo Morto e San Gallo e la città. Contemporaneamente i Napoletani, usciti da Monreale, attaccavano sulle alture di San Martino gl’insorti di Pilo, il che ingarbugliava alcun poco il piano di Garibaldi, mentr’egli desiderava, non già impegnarla battaglia, ma operare semplicemente una ricognizione strategica.

XXVIII.— Il generale Bosco, a cui non isfuggiva il più piccolo movimento dei volontari, vistili marciare su Monreale e punto non dubitando che volessero da quella parte assaltar la città, levò prontamente il campo da Parco e spinse a tutta corsa l’armata contro l’audace avversario. Era divisamento del comandante borbonico gettarsi tra i volontari e le mura, assalirli protetto dall’artiglieria dei forti e ricacciarli tra le gole dei monti di San Martino e Carini, dove agevole diventava batterli completamente e disperderli. Numerose truppe, uscendo da Palermo, venivano a ricongiungersi a quelle di Bosco, il quale marciava per Pagro Palermitano con un’armata ammontante a 12 od a 15 mila soldati di tutte le armi.

XXIX.— Dall’alto di un colle il general Garibaldi stava col cannocchiale osservandola marcia di Bosco e le mosse delle truppe che uscivano da Palermo a raggiungerlo. Il suo stratagemma otteneva l’intento, il nemico cadea nella rete. Gli ufficiali garibaldini erano altamente meravigliati dell’estrema contentezza che traspariva dal sembiante e dagli atti del lor Generale. Ma come, contro il solito, videro ch’egli non dava niun ordine né faceva disposizione veruna, incominciarono a sospettare e ad indovinare in gran parte i segreti suoi fini.

XXX.— Ma il cannone che tuonava sulla sua sinistra con crescente insistenza, richiamò tosto l’attenzione di Garibaldi. Egli ben sapeva che Rosolino Pilo, amico suo, e col quale da Calatafimi erasi tenuto in corrispondenza continua, trovava accampato fra que’ ornati, né punto dubitava che i Regii non fossero gli assalitori. Un drappello di Carabinieri genovesi fu spinto quindi in avanti, per quella direzione coll’ordine di cooperare alla vittoria di Pilo o di proteggerne la ritirata, in pari tempo dispose le truppe sul versante delle colline, colla solita astuzia allungando la linea affinché i Napoletani, non pervenissero a scoprirne la deficienza di forze. Questi infatti credevano aver a fare, non con un corpo di mille soldati volontari e raccogliticci, ma con un esercito imponente per disciplina, per armamento e per numero.

XXXI.— I Carabinieri di Genova intanto con precipitosa e faticosissima marcia giunsero sulle alture di San Martino, mentre appunto gl’insorti, stretti da forze tre volte superiori, abbandonavano il campo sbandandosi da tutte le parti. Invano Pilo, con pochi ufficiali, cercava rianimarli e rattenerli. i popolani non ascoltavano altra voce che quella del proprio spavento. Era quella posizione importante irreparabilmente perduta se i Carabinieri di Genova non giungevano in tempo ad abbattere la baldanza dei Regii ed a troncare la loro carriera. La facile vittoria da questi sugli insorti ottenuta fu con altrettanta facilità abbandonata ai volontari (51): dopo mezz’ora di fuoco i Regii dovettero cedere all’impeto non alla numerica quantità dei nemici. I volontari a passo di corsa riacquistarono il terreno perduto: ma if sollecito loro soccorso non valse a deprecare la sorte dell’illustre ed infortunato Rosolino. Le ultime scariche dei Regii troncarono la carriera delle armi e della gloria al generoso e liberale patriota: egli cadde colpito nel fronte mentre adoperavasi ad arrestare il disordine e la fuga de’ suoi. La sua morte fu una sventura per la Sicilia e l’Italia; all’annunzio della sua caduta Garibaldi lo pianse siccome alla perdita d’una persona amatissima e cara. Egli mori alla vigilia della decisiva vittoria del popolo, a cui aveva potentemente e sopra ogni altro contribuito nell’esilio, nelle secrete riunioni e sul campo di guerra. Ma il nome di Rosolino Pilo vive nella memoria dei liberali siccome una santa e prediletta memoria: ed il giorno che l’Italia avrà costituita su basi durevoli la propria ed intiera nazionalità, la statua del giovane eroe verrà sul Campidoglio innalzata accanto a quella di Ferruccio e di Rienzi.

XXXII.— Il 21 passava, se togli il fatto di San Martino, in tranquilla aspettazione di avvenimenti ulteriori. Dopo il mezzogiorno le due armate si trovarono a fronte, benché a rispettosa distanza. Ma Garibaldi, che solo mirava a trarre i Napoletani dalle lor posizioni, avea tutt’altro pensiero da quello di scendere al piano: e Bosco dal canto suo non voleva assalirlo sul monte collo svantaggio del terreno ed aspettava l’attacco dei volontari sotto le mura della città. Intanto nuove truppe da Palermo accorrevano a rinforzarlo, per modo che verso la sera Garibaldi giudicava ammontare l’armata borbonica a non meno di sedici mila soldati. Lo stratagemma del Generale era in parte riuscito, ancora un ultimo sforzo ed il suo piano avrebbe ottenuto il suo pienissimo rateato.

XXXIII.— La notte del 21 al 22 numerosissimi fuochi furono accesi sulle vette dei colli che dominano l’agro Palermitano, specialmente dal lato che guarda a Monreale. I Picciotti, divisi in varie squadre, comandate dai rispettivi lor condottieri (per Io più cappuccini), tenevano le cime del Castellazzo e di San Martino. Ma la successiva mattina un ordine improvviso di Garibaldi fece retrocedere l’armata italiana sulla strada di Partinico, abbandonando le posizioni due giorni prima occupate. Scorgendo l’esitazione dei Regii ad assalirlo ed a distaccarsi da Palermo, il Generale risolse incoraggiarli col simulare la ritirata affine di farsi inseguire. Ed intanto dava tutte le disposizioni per effettuare l’ardito progetto che volgea per la mente.

XXXIV.— Verso la sera del 22 pervenne a Garibaldi l’avviso che i Regii finalmente s’erano spinti in avanti e minacciavano pel giorno successivo un attacco generale. Egli non desiderava più oltre. Primamente diede ordine a’ suoi volontari di tenersi pronti a partire, e prese quindi le necessarie misure per occultare al nemico lo scopo del suo viaggio Egli dispose quindi che i Picciotti, il cui servigio in battaglia era assai contestabile e dubbio, tenessero le lor posizioni, e che venendo dal nemico assaliti, senza punto impegnarsi in una lotta disuguale, si ripiegassero in ordine sopra Partinico e Calatafimi, preferibilmente battendo la via delle montagne. Il Generale italiano non dubitava che Bosco, vedendo i Picciotti sfuggire da quella parte, non li credesse la retroguardia dei volontari e non li inseguisse nell’ovest dell’Isola. Se il progetto di Garibaldi riusciva gran parte dell’armata borbonica, impegnata a perseguitare i fuggiaschi, sarebbesi recata sì lungi da non potere più oltre molestarlo nell’attacco che meditava contro Palermo.

XXXV.— Ad un’ora prima di notte i volontari ebbero l’ordine di porsi in cammino, e nessuno ancora conosceva perché né dove si andasse. L’intiero corpo di spedizione senza suono di tamburo o di tromba levò tacitamente il campo e si diresse sulla strada che gli veniva additata. I volontari per breve spazio seguirono un sentiero serpeggiante fra le colline ed i boschi, ed abbastanza buono e carreggiabile. Ma come giunsero ad un piccolo cascinaggio, per così dire, perduto nei campi, nessuna traccia di strada trovarono. Allora smontati i cannoni si caricarono sulle spalle dei soldati: a ciascun d’essi furono distribuiti tre pani che infilzarono sulla baionetta ed un po’ di cacio: ed era il segnale che dovevano apparecchiarsi ad una marcia faticosissima e lunga.

XXXVI.— Era intanto la notte divenuta estremamente buia lino a torre la vista agli oggetti più prossimi. La pioggia che avea da qualche tempo incominciato si faceva più minuta e noiosa, la nessuna pratica dei luoghi rendeva il cammino pericoloso e difficile. I volontari dapprima inoltrarono fra alcune piccole colline intersecate da burroni, da macchie o da fossi, e presero in seguito a salire un’alta montagna circondata da boschi, da rupi, da torrenti e da balze. Per siffatte strade il soccorso dei cavalli ó dei muli era del tutto inutile, per cui il Generale, come pure il suo Stato Maggiore, fu obbligato a camminare a piedi come l’ultimo dei soldati. Un viaggio al buio e per luoghi invii e sconosciuti non può farsi senza qualche disordine, ed abbisognerebbe un volume per descrivere gli incidenti di quella memorabile notte. I poveri Garibaldini camminavano alla cieca arrampicandosi alla meglio tra gli sterpi e le roccie sempre in pericolo di capitombolare in qualche precipizio o voragine. Le nebbie e la pioggia rendevano la notte oltremodo tenebrosa: non si vedeva più nulla ed alla distanza di un passo l’amico smarriva l’amico, il compagno perdeva il compagno. Gli ordini erano rotti, le compagnie sparpagliate: e non potendosi servire della vista il milite era costretto ad ascoltare il rumore delle pedate altrui per sapere da qual parte rivolgere il passo. Nell’oscurità di quella notte infernale sarebbesi detto che, non un’armata, ma che un branco di pecore vagasse sui fianchi della montagna in traccia di cibo. Malgrado il rigoroso silenzio imposto dal Generale s’udivano di quando in quando tronche esclamazioni, accenti sommessi e giuramenti e bestemmie di coloro che inciampavano ne’ sassi o capitombolavano in qualche macchia od in qualche burrone. Spesso quelle esclamazioni e quelle bestemmie servivano di guida agli smarriti a ripigliare il perduto sentiero. Arrogi che il terreno, essendo di sua natura argilloso, inzuppato dalle continue pioggie, malamente sosteneva i passi del soldato. In alcuni luoghi i Garibaldini affondavansi a mezza gamba od anche fino ai ginocchi e talvolta ritraendo il piede vi lasciavan la scarpa, per cui poscia costretti trovavansi a terminare a piedi scalzi il viaggio (52).

XXXVII.— In tali condizioni, certamente non invidiabili, i volontari marciarono tutta la notte. Moltissimi soldati rimanevano addietro dispersi tra i precipizii ed i boschi, ed un’intiera compagnia si smarriva in quella profonda ed insolita oscurità. Ad un certo punto la difficoltà del terreno e la stanchezza dei militi fu tale che si dovettero abbandonare i quattro pezzi di artiglieria portali da Talamone e quello acquistato a Calatafimi, trofeo d’un’ insigne vittoria. Tuttavolta non s’ebbe a lamentare nessuna perdita: la mattina del 23 i volontari pervennero ai villaggio di Parco, dodici chilometri circa al sud di Palermo, ed occuparono la posizione medesima due giorni prima tenuta dai Regii. La compagnia che s’era la notte smarrita ed i soldati rimasti in addietro, raggiunsero poche ore dopo il loro posto, ed alcuni villici, mandati dal Generale sulle traccie dei cannoni, prima di mezzogiorno, li recarono al campo. Cosi terminava quella marcia, stupenda egualmente e per il Generale che la concepiva e pei soldati che l’eseguivano. Solo sarebbe stato a desiderarsi che le guide siciliane pratiche dei luoghi ed incaricate a condurre l’armata, invece di essere collocate alla fronte, fossero state distribuite nelle singole compagnie. Con ciò sarebbero evitati molti scompigli e notturni disordini: ma l’uomo ragionevole non può accusare nessuno se a tutto non si provide con matematica precisione.

XXXVIII.— Il mattino stesso del 23 il generale Bosco, vedendo l’avversario ostinato a non discendere al piano, adottò la risoluzione di portarsi egli stesso ad assalirlo sui colli. Il corpo dei Garibaldini erasi, è vero, ritirato da Pioppo verso l’altipiano di Renne, ma nulla faceva sospettare al comandante borbonico che in quel momento si trovasse nella posizione di Parco, venti chilometri almeno lontano dal punto dove tuttavia lo credeva accampato. I Picciotti, che per ordine avuto da Garibaldi tuttora occupavano la sommità delle loro colline, contribuivano a mantenerlo nell’errore e gli esploratori Regii, ingannati dallo stratagemma, riferivano essere l’armata italiana schierata in ordine di battaglia a tergo dei Picciotti medesimi. Sedotto dalle mendaci apparenze Bosco giudicava che i Garibaldini si fossero ritirati pel timore di un attacco per parte dei Napoletani, e fatto più ardito in questa sua supposizione determinava d’inseguirli e costringerli ad accettar la battaglia. Con tale intendimento si mosse con tutto l’esercito e poco avanti il meriggio sboccò sull’altipiano alle spalle di Pioppo, ripromettendosi assai dal numero delle sue truppe e più ancora dal timore ch’egli attribuiva stoltamente al nemico.

XXXIX.— Le prime squadre dei Napoletani assalirono verso un’ora le posizioni dei Picciotti i quali senza attendere furto indietreggiarono alla volta di Partinico. Questa mossa retrograda degl’insorti, eseguita senza combattere, accrebbe nella mente di Bosco la persuasione che i volontari non osassero affrontarlo e fossero in piena ritirata sopra Calatafimi. Egli fece allora inseguire i Picciotti pensando con questi sbaragliare e completamente disperdere l’intiera armata di Garibaldi.

XL.— Ma a trarlo dai sogni della facil vittoria sopravvenne in quel punto l’avviso che Garibaldi trovavasi a Parco quasi alle porte di Palermo. Se non che il fatto pareva si strano che il generale borbonico non sapeva prestar fede ad una notizia che aveva del favoloso insieme e dell’assurdo. Egli stesso aveva veduto, o gli era sembrato vedere, i Garibaldini indietreggiare sulla strada di Partinico e nessuna affermazione potuto avrebbe persuaderlo del contrario. Bosco persisteva a credere che Garibaldi gli fuggisse dinanzi e giudicava le truppe che occupavano Parco siccome un corpo isolato e diverso da quello che effettivamente comandava il Generate italiano. Per questa ragione egli divise l’armata: una parte fu mandata a perseguitare i fuggitivi coll’ordine di assalirli dovunque e sconfiggerli, coll’altra si tolse incontanente alla volta di Parco. I Napoletani inviati contro gli insorti sprecarono invano tempo e fatiche a cercarli: gli altri raggiunsero inutilmente del pari il nerbo dell’armata italiana.

XLI.— Garibaldi fermatasi a Parco per lutto quel giorno. Colla mossa strategica di Pioppo era riuscito ad allontanare dalla capitale un numero ragguardevole di truppe: colla sua dimora nella nuova posizione mirava ad attirare altre forze in campagna, contando poscia, coll’abilità e rapidità d’una marcia traile nel centro dell’Isola. Impertanto egli fece mostra di fortificarsi sulle alture di Monte Calvario che sovrasta al villaggio, dove furono altresì collocati i pezzi d’artiglieria. Al tempo stesso faceva militarmente occupare i prossimi colli affine d’ingannare vieppiù sempre il nemico sul conto delle sue secreto intenzioni come anche allo scopo di premunirsi contro gli assalti dei Regii. La notte successiva fece, come al solito, accendere una fila di fuochi su tutti i punti elevati che dominano la pianura ed il campo.

XLII.— Il 24 di buonissima ora il generale Bosco alla testa di ottomila soldati giunse a fronte di Parco, e dovette suo malgrado convincersi che non un corpo isolato, ma rimerà armata italiana colà con Garibaldi accampava. Il Borboniano rimase perplesso ed attonito: quando egli credeva l’avversario sulla sua destra lo rinveniva dietro la estrema sinistra e mentre lo giudicava fuggiasco ed in rollìi lo trovava fortificato e disposto in perfetto ordine di battaglia. Egli sentiva affascinato dal genio dell’uomo fatale che sembrava ridersi del numero e del valor dei nemici e già presentiva in cuor suo la vicina disfatta dei Regii. La meraviglia e l’apprensione di Bosco fu tale che non osava attaccarlo ad onta delle decuple forze di cui disponeva (il presidio di Monreale già l’aveva raggiunto) e chiedeva con crescente insistenza nuovi rinforzi al quartier generale di Palermo. In quel frattempo un drappello di Napoletani, che s’era spinto volontariamente in avanti sotto il tiro di fucile dei nostri, venne salutato da una grandine si futa e si ben diretta di palle che rotto e scompigliato ignominiosamente dovette ritrarsi fra i suoi con grave perdita di morti e feriti.

XLIII.— Bosco aveva faticato tutta la notte. Il mattino ad ora tarda incominciava l’attacco. Il piano del generale borbonico non era né senza abilità né senza merito. Con diecimila soldati da opporre agli sforzi dei mille Garibaldini egli poteva sperare una facile e decisiva vittoria. Il numero delle truppe e la pratica conoscenza dei luoghi elevavano la fiducia e l’alterigia di Bosco, ed a poco a poco rinvenuto dalla prima sorpresa giunse a dimenticare con chi aveva a combattere. Impértanlo divise il suo corpo in due profonde colonne: la prima doveva schierarsi di fronte all’avversario ed allungando la sua sinistra girarlo di fianco e respingerlo nel villaggio: la seconda per la via dei colli portarsi alle sue spalle, salire la Piana dei Greci e stringerlo da tergo, mentre l’altra colonna e le montagne l’avrebbero serrato davanti. Un terzo corpo, formato di truppe fresche, e pur allora uscite di Palermo, doveva manovrare sulla sinistra e percuotere gli italiani all’estremità diritta del loro campo. Con tali movimenti, la cui esecuzione sembrava d’altronde facilissima, Bosco pensava intercludere ai volontari la ritirata e costringerli a deporre le anni: ma egli aveva fatto i suoi conti senza tener calcolo della strategica valentia del nemico.

XLIV.— Garibaldi istintivamente previde le mire del generale borbonico, ed un’abile manovra era già apparecchiala per trarlo nella rete ancora una volta. Il disegno di Garibaldi stava presso a compirsi ed a misura che l’istante decisivo appressavasi, pareva che il suo genio aumentasse di energia, di profondità e d’astuzia. Egli sapeva colorire e velare il suo piano con una maestria veramente prodigiosa e degna di tutti gli elogi, sembrava che il nemico non avesse altra missione che quella di servirlo ed ajutarlo a riuscir nei suoi fini. I Carabinieri di Genova furono spinti in avanti, oltre Parco, essi dovevano arrestare la marcia dei Regii che celeremente avanzavansi, tormentarli con continue scariche, ed in ogni caso ritirarsi per la via dei monti e lentamente raggiungere il grosso dell’armata. Nell’atto stesso il Generale, levato il campo, discese da Monte Calvario e si diresse per la grande strada di Corleone verso la Piana dei Greci, acciocché il nemico non vi giungesse pel primo e lo stringesse tra due fuochi siccome avea divisato di fare. I militi ritirandosi per la montagna udivano a tergo il tuonare dell’artiglieria nemica già venuta all’assalto del campo italiano (53).

XLV.— Occupata la posizione da Garibaldi indicata, i Carabinieri aprirono il fuoco contro la prima colonna borbonica, la quale marciava su Parco come a sicura vittoria. I Napoletani sulle prime ristettero: ma poscia e per la vergogna di vedersi sbarrare il passaggio da un centinajo di armati, e per gli incitamenti dei loro ufficiali che li animavano, fattisi arditi, si disposero in catena e s’avanzarono da tutte le parti. I Carabinieri resistettero ali impeto: ma in appresso bersagliati da un fuoco vivissimo ed in pericolo di venire avviluppati dalle masse nemiche, si trovarono costretti a retrocedere verso il villaggio. Mosto, il comandante della compagnia, vista la mala parata, diede egli stesso l’ordine di suonare a raccolta, ed il movimento retrogrado dei volontari fu eseguito con somma bravura ed audacia. Il fuoco dei loro fucili era si ben mantenuto ed aggiustato che i Regii si tennero ad una rispettosa distanza, né mai loro accadde in pensiero di slanciarsi a più stretta battaglia. Eglino si accontentavano di guadagnare il terreno che i volontari abbandonavano; e questi lo cedevano a palmo a palmo colla fronte rivolta al nemico ed in attitudine minacciosa e superba. Erano forse cento soldati italiani che disputavano il campo a non meno di sette mila borbonici, e che dopo prodigi di inaudita costanza e valore riescivano a raggiungere sani e salvi il rimanente dell’esercito (54).

XLVI.— Piana de’ Greci è un ameno e pittoresco villaggio situato sul dorso di un monte aspro, boscoso e di malagevole accesso. È un altipiano spazioso e magnifico intersecato unicamente da piccole ondulazioni dal suolo e da qualche torrente o ruscello che scendendo dalle vicine giogaie dirige il suo corso verso l’agro palermitano. Gli abitanti riconoscono e vantano l’origine da una delle tante colonie albanesi che sul finire del secolo XV, fuggendo la vendetta dei Turchi, emigrarono dall’Epiro nel regno di Napoli. Le altre colonie si trovano disperse nelle Calabrie e nell’Isola, e tutte conservano, almeno in parte, la lingua, i costumi, la religione e la fierezza dei loro antenati, pe’ quali nutrono un. culto fanatico. La dolcezza del clima meridionale nulla potè su quelle anime ferree; né l’abbietto dispotismo borbonico mai giunse a snervare il loro coraggio od a sradicare dai loro petti l’ingenito amore alla libertà ed alla indipendenza. Eglino sono pur sempre i nipoti dei commilitoni di Giorgio Castriotta, Iskender e Scanderberg, l’eroe popolare delle arnaute ballate e dei cantici turchi; quegli stesso che resistette per ventitré anni agli sforzi dei due più grandi e potenti monarchi ottomani, e fece maravigliare l’Europa al racconto delle guerriere sue gesta (55). Animati da tradizioni cotanto gloriose gli albanesi siciliani, tra i primi ad insorgere contro il governo borbonico ed a bandire coll’armi il diritto di vivere liberi. La gioventù del villaggio era già gettata nei boschi; a casa non rimanevano che i vecchi, le donne, ed i fanciulli. All’avvicinarsi di Garibaldi gli abitanti, cui l’età consentiva l’uso dell’armi, presero il fucile: le donne ed i fanciulli si ricoverarono nella montagna per sottrarsi alla brutalità dei Borboniani pel caso che questi pervenissero ad espugnare ed occupare il paese.

XLVII.— L’estrema destra napoletana e Pavanguardia dei volontari (composta delle guide di Missori, in numero di soli quattordici militi) marciava rapidamente verso la Piana dei Greci. L’esito dipendeva e per gli uni e per gli altri, dall’essere i primi ad occupare quella importantissima posizione. Se Bosco riusciva nell’intento, l’armata italiana,avviluppata fra i monti e stretta da tutte le parti, stata sarebbe obbligala ad arrendersi. Ma le guide garibaldiane coll’abituale celerità mostrata mai sempre ne’ lor movimenti, non solo correndo ma volando fra gli sterpi e le roccie lungo la cresta della montagna, guadagnarono un quarto d’ora di tempo: e quel breve intervallo fu la salute dell’armata e dell’Isola. Appena arrivate nel villaggio le guide, scopersero l’avanguardia napoletana che rapidamente saliva per l’erta. Non v’era un istante a perdere: e que’ valorosi non esitarono ad assalirla benché cento volte superiore di numero. Non è a dire la sorpresa dei Regii nel vedersi prevenuti e nello scorgere al di sopra fra i bronchi e le macchie le terribili camicie rosse schierate in battaglia. Eglino s’arrestarono sul fianco della montagna in attitudine di chi pensa a retrocedere piuttosto che venire all’assalto.

XLVIII.— Le quattordici guide mantennero con poche scariche la loro posizione, sinché Garibaldi arrivò coll’intiera armata, coll’artiglieria e coi Picciotti. Ultimi giungevano i Carabinieri genovesi sempre inseguiti dai cacciatori napoletani che s’avanzavano al gridò di viva lo re. In tal guisa le due armate riunite si trovarono in faccia, ed un serio conflitto pareva ornai inevitabile. Dalla parte dei Napoletani Bosco comandava il centro: l’ala sinistra, composta dalle truppe uscite ultimamente da Palermo, agiva sotto gli ordini di Cataldo e la destra era guidata da Flores. La loro linea formava un semicerchio intorno l’altipiano occupalo dai Garibaldini. Il Generate italiano con un rapido movimento di fianco, aveva già disposte le sue compagnie e schieratele di fronte ai Borboniani in perfetta linea di battaglia. Ma i Regii, veduto ciò, ristettero titubanti ed incerti. Benché dieci contr’uno, e malgrado le esortazioni ed i comandi di Bosco, si sentivano mancare il coraggio ad assaltare nella eccellente sua posizione un’armata che difendevasi con tanta ostinatezza e battevasi con indomata energia.

XLIX.— Il sole frattanto, piegando all’occaso, annunziava vicina la sera, né gli eserciti, ordinati Fano in faccia dell’altro, davano segno di venire alle mani. I Regii perché non osavano, i volontari perché non volevano, impegnarsi in un dubbio conflitto, rimanevano del pari in completa inazione. Ma Garibaldi che meditava in quella notte il più ardito progetto che mai cadesse nella mente d’un conduttore d’eserciti, spingeva sull’imbrunire la settima compagnia, sotto il comando di Orsini, sullo stradale che,a traverso tegole della opposta montagna, conduce a Corleone. Alla settima compagnia si aggiungevano i Picciotti, i carriaggi delle munizioni e dei viveri ed i cinque pezzi d’artiglieria. Orsini aveva ordine di ritirarsi lentamente su Corleone attraversando la montagna in vista dei Regii, e di attirare, simulando la fuga, il comandante borbonico più lungi dalla capitale che fosse possibile. Da Corleone egli doveva in seguito piegare a sinistra eseguendo la strada commerciale di Misilmeri, portarsi verso Palermo ove sarebbesi a’ suoi ricongiunto. Il Generale calcolava in tal guisa tenere a bada per cinque o sei giorni l’intiero corpo condotto da Bosco: era il tempo necessario per lui ad assalire ed espugnare Palermo. Cosi ordinate le cose, il colonnello Orsini colla colonna destinatagli dirigevasi a Corleone senza punto studiarsi di occultare al nemico la sua ritirata, la quale anzi eseguivasi con insolito tramestio e rumore allo scopo di viemmaggiormente ingannare i Napoletani. Poco dopo Garibaldi col resto delle truppe, levato secretamente il campo ed abbandonata la strada, spingevasi per un sentiero tortuoso e scosceso, sul declivio della montagna a sinistra, alla volta di Marineo (56).

L.— Guidati dai montanari, esperti conoscitori del suolo, i volontari s’internarono a poco a poco, fra precipizii e burroni, nel centro di profonda e deserta boscaglia. Stendesi questa dalle falde dell’aspra montagna sino alla profondità del vallone che per lungo tratto dal lato d”oriente la percorre e la cinge: ed è cosi ingombra e sì folta che il sole sul meriggio appena vi penetra. In quella secolare a tranquilla solitudine, non mai visitata o percorsa se non da’ cacciatori o dai briganti Garibaldi ed i suoi militi ebbero sicuro e pacifico riposo durante gran parte della notte 24-25. Chiamasi quel luogo il Bosco del Pinnetto; nome celebre nelle tradizioni popolari del paese pe’ racconti di fatti atroci e terribili che ognor vi si associano.

LI.— All’alba i volontari ripigliarono il cammino e discesi nel vallone presero a salire sull’opposta montagna. Durante il viaggio il tuonare lontano delle artiglierie nella direzione sudovest, li fece avvertiti che i Napoletani sperano azzuffati colla colonna di Orsini. Il Generale sorrise di gioia al vedere il suo progetto pienamente riuscito. Bosco non aveva nemmen sospettato le intenzioni e la marcia del sagace avversario, e credevate tuttavia davanti a sé, fuggitivo od in ritirata, su Corleone e sui monti interni dell’isola. La partenza e la marcia di Orsini, intrapresa senza precauzioni o riguardi, trasse completamente in errore l’astuto Borboniano e le persuase che l’armata italiana, smesso l’usato ardire, andasse a cercare sicuro ricovero tra le foreste centrali del paese, le quali erano pure il soggiorno delle varie bande d’insorti. Dopo qualche esitazione i Napoletani si mossero sullo traccio degli Orsiniani ma cautamente e coi debiti riguardi, ben conoscendo per prova qual fosse il valore dei volontari e quanto abilmente sapessero aggiustare i lor colpi.

LII.— Ma Orsini, la cui principale missione era quella di guadagnar tempo, di tenere a bada i Borboniani il più lungamente possibile e di confermarli sempre più nella persuasione di avere a fare, non già con un corpo distaccalo, ma coll’intiera armata garibaldiana, marciava a rilento, misurando i passi e d’ora in ora minacciando di venire all’attacco. I Regii che le inseguivano in colonne serrate, ciò vedendo, si credevano obbligati a sostare, a spiegarsi in catena ed a prepararsi a respingerlo. Ed Orsini, allorché vedevali disposti e già pronti alla zuffa, volgeva di nuovo le spalle e continuava il viaggio. Tale astuta manovra ripetevasi per tutta la notte con grande meraviglia di Bosco, il quale non sapeva scorgere le secrete combinazioni di Garibaldi in quel sistema d’assalti alternati e di fughe con cui l’avversario continuamente vessavalo. Così, l’uno lentamente procedendo e l’altro con prudenza avanzando, entrambi gli eserciti s’inoltrarono fra le gole dei monti che sovrastano a Corleone. Fu nell’atto di prender la china verso quest’ultima città che il colonnello Orsini fece collocare le artiglierie sullo stradale e salutare i Napoletani con alcuni tiri a mitraglia. Questi furono i colpi notati da Garibaldi nel salire a Marineo: Orsini mirava in tal guisa a frenare la marcia e l’ardore dei Regii nell’atto che stavano per guadagnare le cime ed acquistare la superiorità dei terreno fino allora tenuta dai nostri.

LUI.— II 25, al mattino, Garibaldi pervenne a Marineo, piccola ma bella città situata sulla cima d’un’alta montagna al nord-ovest di Piana dei Greci a lato dello stradale di Corleone e Misilmeri. La salita, eseguita per luoghi dirupati ed alpestri, sovente senza traccia di strada e sotto un sole cocente, fu oltre ogni dir faticosa, per cui si dovette seriamente pensare a concedere ai militi qualche ora di riposo e di quieto. Dall’altro canto il Generale non voleva né doveva proseguire il cammino senza preventivamente conoscere lo stato del paese che intendeva percorrere. Egli aveva a tal uopo spedilo sino dalla notte antecedente esploratori fidatissimi e celeri per tutte le direzioni coll’ordine di raggiungerlo la susseguente mattina a Marineo: e non avendoli trovati era necessità li aspettasse.

LIV.— La sera dello stesso giorno, ricevuti gli attesi rapporti ed avute certe notizie del paese per gran tratto all’intorno, Garibaldi moveva colla piccola annata alla volta di Misilmeri. Gli abitanti di questa città, prevenuti dell’arrivo dei volontari, uscirono loro incontro ed al lume d’innumerevoli fiaccole li accompagnarono dentro le mura. L’armata italiana vi fu festeggiata con una Illuminazione che durò per tutta la notte e con un entusiasmo indicibile.

LV.— In tal guisa Garibaldi con quattro giorni di marcia ed alcuni piccoli scontri, i quali considerati in se stessi non avevano che poca importanza, riusciva a dividere e disperdere le forze borboniche ed a guadagnare una completa vittoria quasi senza battaglia. Parte delle truppe napoletane batteva la pianura di Renne ed inseguiva Garibaldi fuggitivo sulla strada di Partinico e di Trapani: oltre diecimila nemici condotti da Bosco correvano sulle traccie di Garibaldi verso l’interno dell’Isola: ed intanto Garibaldi trovavasi ad una giornata di marcia dalla capitale e sul punto di espugnarla. Mentre quattro giorni prima, da Pioppo, il più audace soldato avrebbe creduto impossibile attaccare Palermo difesa da ben ventiquattro mila Borboniani, quattro giorni dopo, da Misilmeri, poteva apparire, eziandio ai prudenti, di facile esecuzione. Dei ventiquattro mila Borboniani che difendevano la capitale dell’Isola, appena otto o dieci mila rimanevano a presidiarla, e questi ancora scompigliati e smagati dalla rapidità delle mosse di Garibaldi e soprafatti della superiorità del suo genio strategico. Inoltre avanzandosi nell’interno della Sicilia il Generale italiano si congiungeva ai grande corpo degli insorti da circa un mese accampati su quelle montagne. I Siciliani erano male disciplinati, egli è vero, né potevasi troppo contare sul loro coraggio in battaglia serrata: ma in ogni caso servivano per mostra e come a mascherare la piccolezza dell’armata italiana. La loro presenza nel combattimento di Calatafimi era stata assai utile, abbenché il loro coraggio non fosse stato guari proficuo.

LVI.— Da taluni questa parte della campagna siciliana venne paragonata alla celebre marcia eseguita nel 1796 del generale Bonaparte sulle rive dell’Adige (57). Il confronto è maravigliosamente vero; i due piani strategici furono imposti da eguali necessità, concepiti colla stessa franchezza e rivolti al medesimo scopo: tuttavia se in essi v’ha differenza, è tutta a favore del general Garibaldi. Nel 1796 Bonaparte, stretto dall’esercito imperiale a settentrione ed a levante, abbandonava Verona, ed approfittando del corso tortuoso del fiume, improvvisamente piombava sull’estrema sinistra di Alvinzi, batteva partitamente gli Austriaci ad Arcole, a Porcile e Villanova e rientrava trionfante nella città pochi di prima lasciata. Ma nella gloriosa sua marcia incontrò al ponte di Arcole la più vigorosa resistenza, e non riuscì a superarla se non con perdite enormi e dopo incredibili sferzi. La difesa d’Arcole, sulla quale Bonaparte non avea calcolato, poteva seriamente compromettere l’intero suo piano, ove il nemico fosse stato più avveduto od i repubblicani meno ostinati. La vittoria d’Arcole fu decisiva, ma la gloria che da quella deriva deve dividersi colla fortuna, col valore personale dei soldati francesi e colf ignominia del generale austriaco che non volle o non seppe approfittare del tempo. Da ultimo il Generale repubblicano aveva a lottare con un esercito appena del doppio superiore al suo proprio. Garibaldi all’opposto doveva operare contro un esercito ventiquattro volte superiore per numero a quello da lui comandato, colle sole risorse del proprio genio, in un paese intieramente in poter del nemico. Pel Generale italiano non era quistione di sorprendere e battere separatamente i corpi napoletani, ma bensì di sparpagliarli tra le montagne per modo che nell’istante decisivo e fatale il ricongiungersi lor divenisse impossibile. Bonaparte aveva trovato ad Arcole una resistenza che poteva essere causa della sua perdita, ma Garibaldi seppe eludere la vigilanza e prevenire le mosse nemiche con inarrivabile previsione e sagacia. Le difficoltà dalla natura e dal nemico opposte all’esecuzione del suo vasto progetto furono superate in forza soltanto della sua straordinaria abilità ed audacia. Da ultimo la marcia del Generale francese lasciava dipendere il trionfo dall’esito di uno o più scontri, mentre la mossa di Garibaldi dava certa la vittoria ai suoi mille. La marcia da Pioppo a Misilmeri ha qualche cosa di audace, di strano ed inconcepibile per chiunque conosca la natura del terreno e le condizioni eccezionali dei mille. La campagna di Sicilia del 1860, e specialmente la marcia strategica da Calatafimi a Palermo, sarà sempre una delle pagine più gloriose, le più grandi della storia italiana, e debitamente studiata, formerà l’esempio e l’ammirazione dei posteri.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-PERINI-La-spedizione-dei-Mille-storia-documentata-2025.html#LIBRO_IV

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