LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (IX)

Passaggio del faro.— Combattimento di Reggio.
I.— Durante la guerra del 1859, e nell’intervallo che separò le due campagne di Lombardia e di Sicilia, la Francia non cessò un solo istante d’adoperarsi a frenare e rattenere lo slancio rivoluzionario del? Italia meridionale e centrale. Lo spettro dell’unità italiana turbava i sonni di Napoleone: se non che alla frenesia unitaria delle popolazioni invano il Governo francese ave» opposto i patti di Villafranca e Zurigo. Aveva Napoleone desiderato vedere l’Italia indipendente dall’Alpi all’Adriatico, ma non riunita e non fusa in un sol corpo politico; e vista l’impossibilità di applicare il concetto federale aveva sul Mincio arrestato la carriera dell’armi abbandonando l’Italia alla metà della guerra. Nel trattato di Zurigo imponevasi il riconoscimento degli antichi Stati sotto i legittimi Duchi od Arciduchi cui l’avversione dei popoli spinti aveva in esilio. Ma invano con tali mene credevasi porre un argine all’irrompente patriottismo della gioventù, alle passioni politiche del popolo nostre. Gli avvenimenti, malgrado gl’inciampi e gli ostacoli, procedevano oltre} e le combinazioni diplomatiche completamente abortirono davanti alla perseverante fermezza italiana. E ai primi giorni del maggio l’ambasciatore francese a Torino, con più dispiacere che meraviglia, sentiva la partenza di Garibaldi e dei Mille, recantisi a liberar la Sicilia (162).
II.— Le recriminazioni che allor si levarono a tutti son note: la diplomazia francese ne mosse speciali lagnanze a Napoli, a Torino, a Parigi ed a Londra. L’ardito tentativo di Garibaldi, troncando le esitanze e gl’indugi, aveva interamente rovinato i piani di Napoleone e posto l’avvenire d’Italia sulla sua vera e legittima base. L’Imperatore dei Francesi erasi adoperato ad evitare il pericolo di vedersi elevare ai fianchi una monarchia potente e i disastri a cui l’improvvida conflagrazione della penisola avrebbe eventualmente potuto condurre. Era della politica napoleonica doppia l’azione ed uno l’intento} e mentre s’arrovellavo a Torino a comprimere il movimento unitario, a Napoli esortava il Borbone a cangiare di sistema ed entrare francamente nella via delle liberali riforme affine di torre al Piemonte il pretesto’ a compire la tanto avversata unità (163); Tuttavia dobbiamo osservare che l’ostinazione tenace di Francesco II contribuiva non meno delle vittorie garibaldiane a sventare un progetto che avrebbe reso impossibile il Regno attuale d’Italia.
III.— Verso i primi di giugno si sparse in Europa la falsa notizia che Garibaldi già vinto e disfatto si fosse rifugito tra le montagne inaccessibili del centro dell’Isola. Nella supposta disfatta dei Mille il ministero napoleonico intravvide la possibilità d’un accordo: e Thouvenel proponeva al conte Cowley che cercasse d’indurre il governo inglese a riunire i suoi sforzi con quelli della Francia affine di prevenire, consigliando la tregua, uno inutile spargimento di sangue in Sicilia (164). Ed era specioso il pretesto in quanto che intromettendosi e salvando gli avanzi dei Mille dalle forche borboniche, oltre all’ottenere l’intento bramato, avrebbero i Napoleonidi nel tempo medesimo acquistato un diritto alla gratitudine della democrazia italiana. Ma il sogno si dileguò come un’ombra: l’espugnazione improvvisa di Palermo bastava a dissipare la vana illusione e la tregua proposta diveniva un pio desiderio.
IV.— Caduta la capitale siciliana ed inaugurata la dittatura di Garibaldi la Francia tornava a formulare la vecchia canzone, desiderando che l’Inghilterra, si unisse con lei a consigliare ai combattenti una sospensione temporanea delle ostilità, e sperando con tal mezzo arrestare il corso delle vittorie garibaldiane. La medesima proposta fu fatta a Torino ed a Napoli, ma collo stesso infelice successo, poiché le condizioni la rendevano reciprocamente o illusoria o inaccettabile. Il Re di Napoli dichiaravasi pronto ad una tregua di tre mesi in Sicilia a condizione che il Piemonte vietasse ogni ulteriore spedizione di volontari nell’Isola (165). Inoltre Francesco II acconsentiva ad accordare la costituzione del 1812 colla riserva eziandio di modificare la clausola relativa alla separazione dei due Stati, sempreché le due corone rimanere dovessero allo stesso sovrano (166). Dall’altra parte il governo piemontese per prima condizione poneva che i Siciliani fossero lasciati in perfetta libertà a decidere dei loro destini (167): e il governo borbonico aderiva, a patto però che i Siciliani non potessero pronunciare un mutamento di dinastia (168), il che equivaleva a rompere le trattative diplomatiche.
V.— Circa la libertà da concedersi ai Siciliani di decidere dei propri destini il governo borbonico inoltre obbiettava che vera libertà non sarebbe mentre fosse la votazione avvenuta sotto il dominio ed in presenza di Garibaldi e de’ suoi (169). E il conte Cavour esprimeva l’opinione che mentre Messina trovavasi in potere dei Regii era vano proporre al generale Garibaldi la tregua ((170)).
VI.— A tenore della tregua proposta Garibaldi sarebbe rimasto padrone di Palermo e Catania, del centro e dell’ovest dell’Isola: le piazze forti di Messina e Siracusa e quasi l’intiera costa orientale avrebbero continuato in potere dei Regii (171). Se Francesco II avesse aderito sarebbe stato quanto abdicare a’ suoi dominii di là del Faro; la diplomazia medesima era convinta che ove si fosse pe’ Siciliani trattato di votar l’annessione questa avrebbe senza dubbio ottenuto la quasi unanimità de’ suffragi (172): e i Napoletani credevano la causa regia non essere pervenuta al punto di dovere sottomettersi a tutti i danni che risulterebbero appena da una rotta completa (173). Eglino possedevano tuttavia le principali fortezze e le più forti posizioni dell’Isola, ed in loro sentenza nutrivano fiducia che le sorti della guerra potessero ancora rivolgersi in loro favore. Invano l’ambasciatore inglese osservava che la disfatta poteva condurre più lungi di quello che si calcolava, e che l’annessione della Sicilia, compiuta senza preventivo accordo col Governo, assai probabilmente avrebbe trascinato la perdita di Napoli e la caduta della monarchia (174): Francesco li era inflessibile: egli preferiva perdere tutto anziché salvare nna parte del Regno con atti codardi ed indegni.
VII.— Ma coll’avvicinarsi del pericolo nel Re diminuiva la fermezza e l’ardore guerriero: la sventura è potente a snervare i sentimenti del cuore e ad abbattere ogni più saldo proposito.
Allarmato dall’agitazione popolare, che ognor più dilatavasi acquistando in dimensione ed in forze, e dall’abbandono in cui si vedeva lasciato, finalmente Francesco II acconsentiva ad accettar le condizioni che gli si volevano imporre. Pochi giorni dopo a Londra e Parigi, con soddisfazione o dispetto, si seppe che il governo napoletano avea definitivamente richiamata l’armata dall’Isola, abbandonando il paese a se stesso ed in facoltà di regolare le cose in quel modo che meglio gli fosse piaciuto (175). »
VIII.— Napoleone avversava l’impresa di Sicilia sotto il vano quanto specioso pretesto che l’annessione dell’Isola avrebbe tosto trascinata quella di Napoli, poscia delle Marche e da ultimo la guerra coll’Austria, il che avrebbe seriamente compromesso l’opera francese in Italia. Il vero si è che Napoleone osteggiava l’unità perché la giudicava in opposizione agl’interessi al disegni ed alla politica tradizionale della Francia. Se non che le circostanze aveano mutato: la Sicilia era inevitabilmente perduta e sarebbe stata follia pensare soltanto di risottometterla al vecchio regime: per impedire che la penisola si costituisse in un solo Stato abbisognava, più che riconquistar il perduto, conservar quella parte che stava in procinto di perdersi. Il gabinetto francese considerava il richiamo delle truppe napoletane dall’Isola come la più saggia misura e più atta a scostare gli ostacoli che opponevansi ad un componimento fra i Re di Piemonte e di Napoli: pokhè non poteasi sperare nelle trattative fra i due governi mentre in Sicilia continuasse ad infierire la guerra (176). A tale erano giunte le cose quando la vittoria di Milazzo (20 luglio) giungeva improvvisa a troncare i discorsi e ad attraversare l’esecuzione eziandio di quest’ultimo sforzo.
IX.— Dal sin qui detto appar manifesto che il Governo francese, non volendo addossarsi l’odiosa missione d’impedire da sé solo la rovina della monarchia napoletana, desiderava che l’Inghilterra s’unisse con lui nell’esecuzione di questo disegno. Fortunatamente gl’interessi di quest’ultima potenza in Italia erano in aperta opposizione con quelli che vi aveva la Francia. Osteggiando prima e durante la guerra del 1859 la causa dell’emancipazione italiana l’Inghilterra perdeva nella penisola quella popolarità e simpatia che nel 1848 acquistato le aveano i discorsi e le ciarlatanesche passeggiate del famoso lord Minto: mentre la simpatia per la Francia s’era giustamente accresciuta pel soccorso recatoci e pel sangue prodigato sui campi di Montebello, Magenta e Solferino. E già lord John Russell maliziosamente avea rimarcato che la politica del gabinetto francese era stata da varii anni più attiva in Italia di quello che il fosse la politica del ministero britannico (177).
X.— Avventurosamente per l’Inghilterra la poetica francese ed italiana seguivano nella penisola una direzione diversa: quella voleva un’Italia confederata, questa volevala unita: indi recriminazioni e discordie. Ammessi contrarii principii riuscire le conseguenze del pari dovevano opposte; la Francia in onta all’unità imponeva il trattato di Zurigo ed attraversava la dedizione della Toscana e dell’Emilia, e la spedizione garibaldiana nel sud; e gl’Italiani per contro e in onta alla confederazione votavano l’annessione a Bologna e a Firenze e s’accingevano a compirla coi popolari suffragi di Palermo e di Napoli. Nell’amichevole dissenso sopravvenuto fra il governo francese e la popolazione italiana l’Inghilterra intravvide l’opportunità di riacquistare, a spese della Francia, in Italia gran parte della perduta influenza; influenza di cui essa sopratutto si serve ad estendere il suo commercio e ad aumentare i suoi traffichi. Nulla contribuisce a cattivare la simpatia ed il favore dei popoli quanto il vezzeggiare le loro passioni politiche: e l’Inghilterra, veduto che la pubblica opinione in Italia inclinava all’unità, si pose a seguir la corrente e si fece essa stessa unitaria. Cosicché, mentre apertamente affettava la maggior deferenza alle osservazioni del governo francese, di soppiatto approvava e favoriva le mire annessioniste del. conte Cavour. Tale politica veniale ispirata non tanto dal desiderio di contrabbilanciare l’influenza francese quanto dall’amore del guadagno e del lucro: aveva essa col Piemonte un trattato di commercio che le era sommamente vantaggioso: sotto il sistema del libero scambio essa inondava delle sue manifatture lq provincie sabaude, ed era a sperarsi che allargandosi il Regno la sfera eziandio degli affari allargata sarebbesi (178).
XI.— L’Inghilterra avea molto a guadagnare dall’annessione delle provincie meridionali al Piemonte, e nulla dalla conservazione del Regno borbonico: quindi l’indirizzo della sua politica non poteva esser dubbio. Francesco II ebbe sempre il cervello un po’ pigro e bisbetico, e non trovò di suo genio la sublime teoria del libero scambio: ed il ministero britannico saggiamente abbandonava ai suoi destini un governo che non volle mai riconoscere la missione progressista e civilizzatrice dei prodotti industriali di Londra e Manchester. Ben inteso che la sua simpatia od antipatia sarebbesi unicamente limitata a qualche parola d’incoraggiamento o di biasimo; il Borbone poteva mille volte trionfare o cadere senza ch’esso s’inducesse ad abbruciare, pro o contro, una cartuccia od a spendere un obolo.
XII.— Ciò nullameno, sollecitato dalla Francia, John Russell finalmente s’indusse a tentare presso il conte Cavour una riconciliazione, forse temuta, col Regno di Napoli, la sospensione delle spedizioni da Livorno e da Genova e la cessazione immediata delle ostilità in Sicilia. Sopra tutto volevasi che il governo piemontese s’adoperasse ad impedire a Garibaldi il tragittare lo Stretto (179); disegno ch’egli, al punto in cui erano le cose né voleva, né forse avrebbe potuto, compire. Alle prime richieste il ministro sardo rispose essere il suo governo presto ad acconsentire: ma per ciò che riferivasi a Garibaldi dichiarò non avere sopra di lui alcuna autorità: disse che il Dittatore si regolava indipendentemente dalle suggestioni di chicchessia, come l’avea provato scacciando da Palermo il signor La-Farina (180). Che ciò nullostante avrebbe pregato Sua Maestà a raccomandare con una lettera privata al Dittatore di desistere da ogni attacco contro la terra ferma napoletana (181). Pochi giorni dopo però soggiungeva aver egli di fatti consigliato il Re ad inviare a Garibaldi una lettera del tenore indicato, ma che nel frattempo essendo sopravvenuta la battaglia di Milazzo non poteva rispondere dell’impressione ch’essa avrebbe prodotto sull’animo del Generale (182). Le trattative importante, e forse così si voleva, inefficaci eziandio questa volta rimasero.
XIII.— Ma indarno spendevansi maneggi e parole ad invitar Garibaldi a desistere e troncare un’impresa la cui riuscita facea la principale speranza di tutti i patriotti. La lettera di Vittorio Emanuele fu recata da un’ordinanza della Casa Reale, incaricata eziandio a ricevere e a riportar prontamente la risposta a Torino (183). Garibaldi ben sentiva la terribile responsabilità che addossavasi: ma d’altronde poteva egli esitare? S’egli avesse ceduto la sospirata emancipazione di Napoli sarebbesi rimandata a tempo indefinito, perduta l’occasione a costituire l’unità e ripetuta sul Faro l’ignominiosa convenzione del Mincio. Poteva egli rinunciare ad un’idea cosi cara al suo cuore abbandonare un progetto intorno al quale tanto avea travagliato, e compromettere persino il risultato delle sue prodigiose vittorie? Garibaldi nol doveva e nol fece: egli conobbe nel colpo che gli veniva diretto la mano misteriosa che lo aveva scagliato, e ricusò sottomettersi. La risposta alla lettera di Vittorio Emanuele rivela il più profondo attaccamento alla persona del Re, ma in pari tempo la sua irremovibile volontà di costituire l’Italia. Non posso, egli scrisse, arrestarmi a metà della via: ma tosto che abbia adempiuta la santa missione io deporrò ai piedi di Vostra Maestà i miei poteri e me stesso (184).
XIV.— Finalmente Napoleone comprese che a frenare l’ardore guerriero di Garibaldi né miglior mezzo, né più securo rimanea della forza: ed anche a questo sarebb’ egli giunto se avesse per avventura trovato più condiscendente ed arrendevole il gabinetto britannico. Thouvenel impertanto invitava il ministro John Russell ad accordarsi con lui nell’intenzione di spedire agli ammiragli delle squadre francesi ed inglesi nel Mediterraneo l’ordine espresso di significare a Garibaldi ch’eglino gli avrebbero ad ogni costo vietato il tragitto del Faro (185). Il ministro rispondeva: «essere opinione del suo Governo non doversi dipartire dal principio generale del non-intervento.» D’altra parte obbiettava l’inutilità di una misura in se stessa impolitica e ingiusta. «Garibaldi non basta da solo» cosi ragionava lord Russell, «a rovesciare il governo di Napoli: se la flotta, l’esercito e gli abitanti sono veramente attaccati al Re loro il Dittatore, sarà senza dubbio disfatto: se dall’altro canto sono essi disposti a riceverlo la nostra intromissione diverrebbe un intervento negli affari interni del Regno, ed avremmo violato una legge da noi medesimi primamente formulata e sancita (186). Se poi, continuava lord Russell, la Francia vuole interporsi da sola noi ci limiteremo a disapprovare la sua condotta, ad una formate protesta. Secondo noi i Napoletani debbono esser padroni di respingere a loro talento o ricevere il general Garibaldi» (187).
XV.— Per amore del vero dobbiamo accennare ad un fatto che parrebbe incredibile se nei documenti ufficiali della diplomazia irrefragabilmente non fosse affermato. Gli sforzi tentati da Napoleone per condurre ad un accordo i gabinetti di Torino e di Napoli, aveano risollevato le cadute speranze di Francesco II. Fu un istante in cui i Borbonici credettero alla possibilità d’un’alleanza col Piemonte non solo ma eziandio sulla rivendicazione dei diritti nella perduta Sicilia. Francesco II lusingavasi che Garibaldi avrebbe ceduto alla perseverante insistenza dell’Imperatore ed anzi che passare lo Stretto stato sarebbe forzato a restituire Palermo all’antico signore. Illuso da tali speranze e rassicurato dagl’interni terrori il governo napoletano poteva pensare agl’ingrandimenti territoriali ed appetire la sua parte nelle spoglie del santo Pontefice. In que’ giorni s’apparecchiava a mandare i suoi plenipotenziari a Torino a trattarvi e concludervi la sospirata alleanza: e fra le istruzioni che loro si diedero era quella di riconoscere il Vicariato di Vittorio Emanuele nelle Legazioni a condizione però che il ministero sardo accettasse per le Marche e per l’Umbria il Vicariato di Francesco Borbone. E il Papa che in appresso anatomizzava l’ambizione del Re di Piemonte non ebbe che parole teneramente fraterne per l’ambizioso Re di Napoli. Cosi spesso le nozioni del giusto e dell ingiusto dipendono dagli interessi o dal capriccio degli uomini! (188)
XVI.— Mentre la diplomazia in tal guisa agitavasi e pasceva Francesco II di belle speranze, Garibaldi, sbaragliate le truppe di Bosco a Milazzo, apparecchiavasi a sbarcare in Calabria, obbietto precipuo delle sue operazioni. Da Milazzo egli aveva presso di sé richiamato il suo capo di stato maggiore Sirtori rimasto a Palermo (189), dandogli a successore alla direzione suprema del governo il deputato Depretis (190). Quindi si recava a Messina con tutto l’esercito, e dispose le sue forze sulle spiaggie del mare, aspettando che l’occasione propizia s’offrisse ad eludere la vigilanza della flotta reale ed a tentare il tragitto.
XVII.— Ai primi d’agosto l’armata meridionale componevasi di quattro divisioni la decimaquinta, decimasesta, decimasettima e diciottesima, comandata dai generali Stefano Türr, CosenzEnrico, Giacomo Medici e Nino Bixio. A questa dovevasi aggiungere la diciannovesima destinata a Giuseppe Sirtori e non per anco formata. Contava inoltre quattro battaglioni di Cacciatori dell’Etna, il battaglione dei Carabinieri genovesi, due battaglioni di Cacciatori chiamati delle Alpi, uno squadrone di Guide, un reggimento dei Figli della libertà (nel quale figuravano varii stranieri) comandati da Dunne, e due batterie di artiglieria di campagna agli ordini del generale Orsini, insieme i diversi corpi ammontavano a circa quindici mila soldati, cifra non grande, gli è vero, se paragonata alla superiorità numerica dell’esercito regio, ma prodigiosamente forte a fronte delle immense difficoltà superate a raggiungerla. I periti dell’arte possono essi soli comprendere e degnamente encomiare un generale che dal nulla, in tre soli mesi, seppe creare ed ordinare un esercito atto a sostenere lo scontro di tutte le forze di un regno, ricco di danari e di mezzi e difeso per terra e per mare (191).
XVIII.— Durante la prima quindicina d’agosto l’armata si trovava disposta nel modo seguente: La sedicesima divisione Cosenz, di due brigate agli ordini di Malenchini e di Sacchi, occupava l’estrema sinistra del campo alla punta del Faro dove la roccia di Cariddi elevandosi a picco sull’acque d’un mare mugghiente ed inquieto anticamente atterriva i navigatori italici e greci. La decimaquinta divisione Türr s’accampava non lungi da Sant’Agata, ameno soggiorno dei ricchi messinesi durante il bollor della state, in que’ luoghi soffocante e caldissima: ed essa pure comprendeva due brigate condotte da Eberhard e Spangaro. Medici colla decimasettima divisione teneva il centro nel porto e nei dintorni di Messina: ed era formata dalla brigata Simonetta e dal reggimento Dunne. Finalmente Bixio colla diciottesima guardava Giardini e Taormina e la strada di Scaletta: e componevanla tre reggimenti comandati dai colonnelli Dezza, Piva e Taddei: l’artiglieria stava alla sinistra colle guide ed i carabinieri presso la divisione Türr.
XIX.— I mezzi di trasporto erano adequati alla difficoltà dell’impresa. La massima parte della flotta siciliana aveva ordine di concentrarsi a Messina o nelle rade adiacenti: essa componevasi di undici legni e poteva tragittare circa undici mila soldati colla rispettiva artiglieria, le munizioni e gli attrezzi (192). Inoltre in due piccoli laghi situati
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nelle vicinanze del Faro e che il Dittatore avea posto per mezzo d’un canale in comunicazione col mare, stavano in bellissimo ordine disposti oltre duecento cinquanta battelli e barche di varia dimensione portanti venticinque cannoni rigati. E tutti codesti trasporti venivano collocati in maniera da non aver nulla a temere dalla flotta napoletana che incrociava nello Stretto (193).
— Né tuttavolta la posizione di per sé stessa eccellente dei nostri era scevra di rischi e pericoli. La linea dell’esercito Garibaldiano occupava uno spazio di oltre venti miglia in lunghezza, e quindi malagevolissima a difendersi contro un attacco o una sorpresa della flotta nemica. Alla estrema sinistra sul Faro, a nove miglia circa nord di Messina, avevano i volontari eretto alcune trincicre, munite d’artiglieria, ma non cosi forti da poter resistere ad un serio assalto combinato di mare e di terra. La costa, specialmente in prossimità del Faro, è aperta ed accessibile ai legni di non grande portata: e se i Napoletani avessero osato tentare, alle spalle dei nostri, uno sbarco, la posizione del Faro e Sant’Agata poteva trovarsi seriamente compromessa. Avventurosamente i Regii avevano abbandonato per sempre il pensiero di riacquistar la Sicilia, e solo miravano ad impedire a Garibaldi il passaggio in Calabria (194).
XXI.— L’armata nemica sotto gli ordini dei generale Briganti in que’ giorni accampavasi a Reggio e guardava con numerasi presidii le fortezze di Villa San Giovanni, Alta Fiumara, Scilla e Saline, situate lungo la costa calabrese di fronte alla linea stessa dei Garibaldini. La flotta frat tanto distribuita nei porti di Scilla, di Palmi e di Reggio continuamente solcava le acque dello Stretto ed invigilava le mosse dei nostri: pronta ad accorrere ed a schiacciare col suo peso le imbarcazioni italiane quando queste s’avventurassero a salpare dall’Isola (195). Quanto Fumana prudenza od astuzia poteva suggerire, in opera tutto dai Regii fu posto a render impossibile un attacco nemico: ma la doppia linea di difesa terrestre e marittima dietro cui trincieravansi nulla valse contro la fortuna di Garibaldi e il valore de’ suoi.
XXII.— Da più giorni i volontari aspettavano l’ordine d’imbarcarsi e portarsi in Calabria, la terra promessa delle sospirate e future vittorie, e con generosa ansietà misuravan lo spazio che tuttavia separavali dai loro nemici. Quand’ecco divulgarsi pel campo la strana notizia che il Generale abbandonando per pochi giorni l’esercito, si era improvvisamente allontanato da Messina per un ignoto e lontano viaggio. Nessuno, meno gl’intimi suoi, conosceva la direzione che il Dittatore avea preso: e pertanto, come avviene in simili casi, fra i soldati correvan le voci più assurde ed opposte. Chi lo voleva a Palermo chiamatovi da urgenti necessità di governo, chi a Livorno od a Genova a sollecitare rinvio di nuove truppe; mentr’egli, ottemperando invece a secrete ispirazioni si recava nelle acque di Cagliari a contromandare in persona l’ordine dato al Comitato di Genova per l’invasione delle Marche, ed a condurre in Sicilia i soldati che doveano far parte di quella intrapresa (196). Com’egli riuscisse al lettore è già noto: la politica del ministro Farini ottenne per quel viaggio la sua piena esecuzione, ed il colonnello Pianciani, lasciando il prediletto suo piano, venne rimorchiato a Palermo co’ suoi (197).
XXIII.— Soffermatosi poche ore nella capitale dell’Isola e date le istruzioni opportune ai ministri pel buon andamento dell’amministrazione, ripartiva colle truppe di Pianciani alla volta del Faro. Il suo ritorno fu dai soldati accolto e festeggiato con frenetici evviva: poiché tutti sapevano che la sua presenza preludiava al compimento del piano tracciato. Diffatti gli apparecchi vennero spinti con nuova alacrità e vigore: e nulla restava oggimai che attendere l’istante opportuno a salpare.
XXIV.— La notte del 12 agosto, dopo essersi imbarcato quasi sotto gli occhi della crociera napoletana, il maggiore Missori collo squadrone delle guide da lui comandato e coi bersaglieri di Cosenz, trecento nomini in tutto, con incredibile audacia tentava e felicemente compieva il passaggio del Faro e poneva piede pel primo in Calabria. Dall’estrema sinistra del campo italiano Missori, favorito dalle tenebre, tagliava alla spiaggia opposta una retta e prendeva terra in un punto isolato tra Scilla ed il forte Cavallo e sotto il tiro dei cannoni di entrambi. S’avvidero, ma tardi, i navigli napoletani dell’ardita manovra ed accorsero sul luogo ad impedirla quando non era più tempo. Tuttavolta l’allarme fu dato: l’artiglieria dei prossimi forti tuonò nel silenzio con orrendo fragore, annunziando ai volontari rimasti sul Faro che la lotta era già incominciata dall’altra parte del mare.
XXV.— La piccola truppa radunavasi sulla costa sostenendo colla solita intrepidezza il terribile fuoco a mitraglia che avviluppavate del pari a destra e a sinistra. Nelle file, tale era l’ordine, mantenevasi il più rigoroso silenzio, il che fu cagione che sulle prime gli artiglieri nemici, attesa l’oscurità, mal potessero aggiustare i lor colpi. Ma la notte era giunta al suo termine: e l’alba sorgendo nel sereno oriente indorava le vette dei monti e spargeva d’un fioco chiarore le campagne ed il mare. Coll’apparir della luce i Napoletani s’accorsero del piccolo numero de’ volontari contro cui avevano sprecato il loro valore e le or munizioni: e fatti coraggiosi pel numero marciarono ad incontrarli in aperta campagna, nello scopo evidente di schiacciarli, ributtarli in mare o costringerli a deporre le armi (198). Ma bentosto a proprie spese si avvidero aver essi calcolato sul numero non sull’invincibile valentia dei loro avversari.
XXVI.— Se la nuova luce ai Napoletani additava la possibilità di soverchiare la piccola truppa italiana, essa offeriva nel medesimo tempo a Missori la maniera di sottrarsi alla certa ed imminente catastrofe. Erano i volontari trecento; né, comunque valorosi ed a battere avvezzi non a contare i nemici, potevano essi affrontare le migliaia di Regii. da tutte le parti accorrenti all’ineguale conflitto.
XXVII.— Previde Missori il pericolo e seppe evitarlo con quella prontezza e precisione che gli era abituale e che degno facevalo della fiducia del condottiero alla cui scuola era stato educato. Con un rapido movimento di fronte, precorrendo gli avanguardi napoletani, passò inosservato. tra le loro colonne e si ritrasse a salvamento co’ suoi fra le dirupate montagne che s’elevano a settentrione di Reggio. Quell’abile ed astuta manovra venne con tale celerità ed audacia eseguita che il nemico di nulla si accorse: pervenute le truppe borboniche sul luogo occupato pochi istanti prima dai nostri trovarono lo spazio già sgombro e deserto ed amaramente dovettero rimpiangere la lor delusione. Forse l’orgoglio dei soldati si senti lusingato dal pensiero di avere fugato un nemico il cui valore avrebbero essi con renitenza assaggiato in battaglia.
XXVIII.— Diversi distaccamenti furono tantosto spediti ad inseguire i fuggiaschi, la squadra cioè di Missori: ma tutti gli sforzi riuscirono inefficaci od inutili. Coperti dalle ineguaglianze e difficoltà del terreno e protetti dalle roccie e dai boschi i volontari respinsero con’ gravissime perdite i primi assalitori: e talvolta, scendendo le alture, percorrevano i villaggi soggetti e battevano alla spicciolata i corpi separati dell’esercito nemico sino alle porte stesse di Reggio.
XXIX.— Trecento, siccome gli eroi delle Termopili, eglino tenevano si può dire in ¡scacco le truppe di Briganti e i presidii delle vicine fortezze. Missori pose il campo sui gioghi di Aspromonte, stupendo gruppo di montagne che si spiegano in varia direzione e le cui estremità orientali e meridionali si bagnano nelle acque del ionio e del mare Mediterraneo. E i volontari accampati sulle rive di Messina e Sant’Agata tutte le notti contemplavano i fuochi dei loro compagni al di sopra di Reggio, segnale precedentemente convenuto tra Garibaldi e Missori per indicare la loro dimora.
XXX.— Passato Missori, la vigilanza esercitata nello Stretto dalla flotta napoletana divenne più attiva e severa: quindi nuove difficoltà per trasportare sul continente il grosso delle truppe italiane. A trarre in inganno il nemico e scostare gli ostacoli, Garibaldi faceva giornalmente eseguire da’ suoi delle marcie e contromarcie strategiche: e minacciando al tempo medesimo tutto il litorale studiavasi mascherare le proprie intenzioni e nascondere il punto sul quale ideava effettuare l’imbarco. Ciò spiega i numerosi movimenti osservati a’ que’ giorni nell’armata italiana, come pure gli ordini continui e contrordini emanati dal suo Generale.
XXXI.— La mattina del giorno 14 un grande affaccendarsi fu notato nel campo dei nostri: il Dittatore aveva ‘ordinato alle truppe di tenersi allestite pel cader della notte. Sul far della sera un contr’ordine sopravenne a sospendere la mossa di già incominciata, e i volontari dolenti si ritrassero nei loro alloggiamenti. Per comando dittatoriale la divisione Bixio il 15 abbandonava Giardini recandosi alla volta di Geri, magnifico paese situato sul mare ed ai piedi dell’Etna: e colà raggiungevate il 16 un espresso di Garibaldi che le richiamava a Giardini (199). Gli stessi tentativi facevaosi da Cosenz e Medici tutte le notti dal 14 al 18: e tutti del pari infruttuosi riuscivano (200).
XXXII.— Bixio il 18 si ripose in marcia per Gerì, dove riceveva un dispaccio che gli annunziava l’arrivo di due piroscafi appartenenti alte marina dell’Isola, il Torino ed il Franklin. Il Generale recavasi a bordo, a dare le disposizioni opportune: ma come il capitano del Torino rifiutava tragittare i volontari in Calabria e quello del Franklin si schermiva adducendo che la nave faceva acqua e che le pompe non bastavano a estrarnela, ambedue li fe’ porre agli arresti e prese egli stesso il comando dei legni (201).
XXXIII.— A mezzogiorno giungea Garibaldi. La brigata Eberhard, della divisione Türr, ch’era stata riunita alla diciottesima divisione, occupava già i due vapori. L’intiero corpo spedizionario, sfilando in bell’ordine davanti alla rada, celeramente ed in silenzio recavasi a bordo, ed alle ore sette della sera rimbarco era già terminato. Garibaldi ponevasi alla direzione del Franklin, lasciando il Torino al comando di Bixio: era in quattro mesi il secondo viaggio che i due fortunati argonauti insieme, alla conquista d’un Regno, imprendevano.
XXXIV.— Alle nove della sera col massimo silenzio salparono e trasversalmente scorrendo sul mare diressero il corso all’estrema punta del suolo continentale italiano. Protetti dall’oscurità e dalla buona stella garibaldiana, il Torino ed il Franklin oltrepassarono le nemiche crociere, ed alle ore quattro e mezzo del mattino seguente sani e salvi toccarono la costa bramata (202).
XXXV.— Il Franklin, diretto dalla mano maestra del Dittatore, felicemente approdava, ed accingevasi in fretta e con ordine ad operare Io sbarco dei militi. Non cosi il Torino, che un solo istante negletto da Bixio, per inettitudine od ignoranza del pilota, investiva in uno de’ numerosissimi banchi di sabbia che ingombrano quella spiaggia per poco deserta, rimanendovi profondamente sepolto fino alla metà della chiglia. L’accidente non apportò verun danno alle truppe, tranne un primo ed invincibile sgomento cagionato, dall’urto improvviso del vapore contro la costa: e i militi, come nulla fosse avvenuto, tranquillamente discesero a terra e si disposero in linea sulle alture che dominano il mare e la rada ov’eran sbarcati. Così il mattino 19 agosto Garibaldi prendeva terra in Calabria a mezzo miglio dal villaggio di Melito, non lungi dal luogo, ove il cavalleresco Autari, tredici secoli addietro, verso il 587, poneva l’estremo confine della monarchia Longobarda.
XXXVI.— Mentre i volontari, accampati sulle prossime alture, per brev’ora s’abbandonavano a un dolce e necessario riposo, il Franklin adoperavasi a liberare e rimorchiare il vapore arenato. Se non che il Torino giaceva così profondamente confitto nelle sabbie che inutili riescirono tutti gli sforzi a cavamelo. Il Franklin ostinavasi tuttavia al di là di quanto il comportasse il pensiero della propria salvezza: esso corse pericolo di perdervi la macchina. Finalmente dopo più ore di stenti infruttuosi e fatiche s’avvide che rimanendo più oltre sarebbe stato quanto porre a sbaraglio la libertà e forse anche l’esistenza della ciurma e del legno: e disperando salvare il compagno tutto solo. rivolse la prora a Messina.
XXXVII.— Verso le ore otto le vedette notarono due navi napoletane che volando sulla calma superficie del mare pareano dirigersi al punto dove i volontari erano a terra discesi. Incontanente l’allarme fu dato e le truppe imbrandito il fucile si allinearono in ordine di battaglia sul colle di fronte alla quieta marina. I Napoletani diffatti navigavano in tutta fretta verso il Torino, ch’essi già scoprivano dall’alto, fermo ed immobile, vicino alla spiaggia. Forse la presenza e l’immobilità del naviglio li trasse in inganno: e potevano essi credere che le truppe non fossero ancora sbarcate ed accorrevano in conseguenza a sorprenderle nell’atto che a terra scendessero.
XXXVIII.— Non potevasi dubitare che i Napoletani non venissero ad assalire e catturare il Torino sguernito di truppe e difese, al cui bordo solamente trovavansi pochi marinai e macchinisti. Bixio impertanto distaccava una compagnia e di concerto con Garibaldi mandavala ad occupare il naviglio ed a difenderlo nel prossimo assalto.
XXXIX.— In questo mentre i Napoletani avvicinatisi a tiro di cannone dal Torino aprirono il fuoco coprendolo d’una terribile gragnuola di bombe e di palle. L’ufficiale comandante la compagnia da Bixio inviata a difenderlo, come giunse alla riva, trovò l’equipaggio in piena fuga e abbandonato e vuoto il naviglio, l’ufficiale allora afferrò per un braccio il capitano del Torino ingiungendogli di ritornarsene a bordo e ricondurvi i suoi marinai: ma gl’innumerevoli proiettili che pioveano, pur durante l’alterco, d’intorno, al tapino toglievano la volontà d’obbedire. Dall’altra parte il Garibaldino aveva una consegna della quale doveva rispondere, ed un ordine cui bisognava ad ogni costo eseguire: e per conseguenza si credeva obbligato a minacciare il capitano colla pistola alle tempie per indurlo a risalire sul legno lasciato. Se non che le minaccie non valsero meglio delle preghiere: le une e le altre son mute allorquando domina sovrana la paura nel cuore dell’uomo. In quel punto Bixio, che sempre si trova tra i primi quando trattasi d’affrontare i pericoli della guerra, sopravenne ove fervea la contesa tra il capitano e l’ufficiale. Bixio vedendo impossibile oggimai difendere un legno per metà perduto, ordinò all’ufficiale di desistere e di ritrarsi colla compagnia sulle alture a raggiungervi il resto del corpo (203).
XL.— Frattanto le due fregate, sempre più appressandosi al lido incominciavano a mitragliare i Garibaldini dalle alture stesse dove preso avean posizione. Mancando di artiglieria per rispondere alle insolenti provocazioni nemiche Garibaldi fece indietreggiare le truppe oltre il tiro di cannone, e colà risolse aspettare i Napoletani se pur questi avessero avuto la temerità di sbarcare e d’inseguirlo entro terra. Ma i Borboniani, soddisfatti di avere con si piccolo rischio costretto Garibaldi alla ritirata, si rivolsero invece a raccogliere i frutti di tanta fortuna.
XLI.— I Napoletani si accostarono colle debite precauzioni alla spiaggia, ed esplorato il Torino, ed assicuratisi ch’era già abbandonato, valorosamente salirono a bordo in cerca di preda e bottino. Munizioni, viveri, attrezzi, vele e cordami, fu tutto saccheggiato o disperso e distrutto o per ispregio gettato nel mare: come i ladri del deserto gli eroi di Francesco II lasciavano dietro a sé la devastazione ed il nulla. Per vero dire il bottino fu magro, né i soldati vi rinvennero quello che aveano sulle prime sperato; i Garibaldiani erano troppo poveri perché le loro spoglie bastassero ad arricchire i famigli di Casa Borbone.
XLII.— Impossessatisi cosi del Torino i Napoletani risolvettero rimorchiarlo a Sapri od a Napoli affine di mostrar al padrone una testimonianza della loro solerzia e valore. Ma per quanto si adoperassero non venne lor fatto di smuovere il naviglio dalle sabbie in cui sembrava inchiodato. Allora vi appiccarono il fuoco; e le dense colonne di fumo che poco stante elevaronsi al cielo annunciarono ai Garibaldini la catastrofe del legno perduto. Poche ore dopo il Torino era affatto scomparso: e la carbonizzata carcassa e pochi frantumi fumanti e ‘dispersi qua e là sulle rive e sulle onde indicavano il luogo dove prima esso aveva approdato. I Borboniani abbandonarono la spiaggia e la nave che tuttavia abbruciava nutile trofeo d’ingloriosa vittoria.
XLIII.— Alle ore tre antimeridiane del 20 l’armata italiana si ripose in viaggio lasciando a sinistra Saline, ed oltrepassato Pentadattilo si diresse alla volta di Lazzaro ove giunse alle dieci ed ove riposò fino alle sei della sera. Come il sole piegava all’occaso le truppe si trovavano in ordine e pronte a partire; e Garibaldi, arringati in quell’ora solenne i volontari, dichiarò volerli condurre la notte stessa all’assalto di Reggio, la capitale della Calabria ulteriore. Le parole del Dittatore produssero il solito effetto: l’entusiasmo dei soldati era al colmo, e gli evviva al Generale e all’Italia proruppero spontanei da mille cuori abituati sotto lui a lottare ed a vincere.
XLIV.— La strada che mette da Lazzaro a Reggio era abbastanza buona e spaziosa quando paragonala ai viottoli che i volontari aveano dovuto percorrere sulle coste e nell’interno dell’Isola. Eglino proseguirono silenziosamente la marcia sino a circa la metà della strada ove Garibaldi avea divisato fermarsi e dare le disposizioni pel prossimo attacco. Quivi il Dittatore raccolse gli ufficiali superiori delle spedizioni dando loro gli ordini opportuni sia in riguardo alla marcia, sia per l’assalto di Reggio: poscia procedette oltre.
XLV.— Innanzi a tutti marciava Nino Bixio, il suo aiutante di campo, due ufficiali d’ordinanza, due guide con un altro ufficiale ed un maresciallo d’alloggio: indi seguiva l’avanguardia formata dal primo battaglione di Bersaglieri sotto il comando di Menotti Garibaldi. Poi il reggimento comandato da Dezza e la seconda brigata Eberhard appartenente alla Divisione di Türr. Il secondo battaglione di Bersaglieri chiudeva la marcia e formava la retroguardia del corpo.
XLVI.— Ad un punto fissato Garibaldi abbandonò lo stradale avvicinandosi al piede delle montagne che dividono nella sua lunghezza il paese da Maida a Mileto. Aveva egli deliberato assalire la fortezza di Reggio dalle colline che si dirigono a settentrione della città verso le giogaie d’Aspromonte ove stava in quel tempo accampato il maggiore Missori co’ suoi. Inoltre il Dittatore desiderava allontanarsi dal mare per non esporsi alle artiglierie della flotta che non avrebbe mancato di accorrere in aiuto all’assaltata fortezza.
XLVII.— Alle quattro mattutine del giorno 21, dopo un viaggio felicissimo e senza incontrare un solo soldato napoletano, le truppe di Bixio penetrarono nel sobborgo di Reggio sino alla gran piazza ove stavano accampate due compagnie di nemici. A quella vista i volontari non seppero più contenersi, ma inebbriati d’ardore marziale proruppero in frenetici evviva all’Italia. I Napoletani bruscamente dall’improvviso fragore svegliati diedero di piglio alle armi: ed una viva fucilata ne seguì con orribili danni da una parte e dall’altra. Il generale Nino Bixio rimase ferito al braccio sinistro ed ebbe ucciso sotto il cavallo: molti dei nostri caddero per non mai più rilevarsi al fragore delle patrie battaglie. La breve distanza che divideva i due campi spiega la gravità delle perdite da entrambe le parti sofferte. Se non che i Borboniani, dopo quel primo slancio, abbandonarono la lor posizione, correndo a precipizio in cittadella a salvarsi.
XLVIII.— Tintiero presidio consisteva in otto compagnie di linea, mezzo squadrone di lancieri ed una batteria da campagna, e comandavalo il generale Gaietta cui la voce pubblica attribuiva non ordinari talenti e somma perizia nelle cose di guerra. Eppure né quelli, né questa, né il personale valore di cui si pretendeva fornito, bastarono a salvarlo dall’onta di una capitolazione non dissimile da quelle che Lanza e Bosco avevano dovuto accettare a Palermo e a Milazzo.
XLIX.— I volontari, inseguendo col ferro alle calcagna i fuggiaschi, confusamente con essi penetrarono in città ed in poco d’ora se ne reser padroni: e Bixio già disponevasi ad assalire un piccolo forte situato nella parte meridionale sulla riva del mare. Nel frattempo il generale Calotta dispose le truppe in maniera da proteggere la cittadella ed impedire Inaccesso alle truppe italiane. Spediva quindi un distaccamento ad assaltare nell’interno di Reggio i volontari o per lo meno a trattenere la loro marcia alla volta della fortezza.
L.— Un battaglione del reggimento Dezza fu tosto mandato contro il distaccamento dei Regii che già s’avanzavano sul grande stradale che congiunge la città alla superiore fortezza. I volontari s’inoltrarono a passo di carica, e dopo un vivo combattimento riuscirono ad accerchiare ed avviluppare il nemico ed a costringerlo a deporre le armi. Nel tempo medesimo Bixio stringeva il piccolo forte della marina, il quale separato dalla cittadella e circondato dalle truppe italiane, dopo una difesa che durò ben quattr’ore si credette obbligato ad arrendersi. La bandiera tricolore innalzata sugli spaldi del forte annunciava a Garibaldi che Reggio intieramente trovavasi in potere dei nostri.
LI.— Garibaldi frattanto colla brigata Eberhard celeramente marciava sulla vetta dei colli nell’intenzione di attaccare la cittadella dal lato del nord-, mentre Bixio l’avrebbe assalita dalla parte del sud. Alle ore nove del mattino dopo incredibili fatiche sostenute con eroica rassegnazione? il Dittatore pervenne sul luogo di già destinato’ Allora il combattimento s’accese all’intorno e sotto le mura stesse del forte, bersagliando i nostri con fuoco incessante il nemico dietro gli spaldi medesimi della sua cittadella. I Napoletani, muniti di numerosa artiglieria, inutilmente sprecavano i colpi, mentre i volontarii nascosti dietro gli alberi o nelle case e tra le sinuosità del terreno colle loro terribili carabine inglesi, sola arma che avessero, prendevano di mira ed atterravano gli artiglieri borbonici sin dietro le lor cannoniere. Moltissimi soldati napoletani caddero per tal modo feriti od uccisi e fra questi il valente colonnello De Lorenzo precipitava colpito da palla italiana e moriva gridando evviva al suo Re: guerriero generoso ed intrepido, degno d’una causa migliore e di migliori destini (204).
LII.— Già da oltre quattr’ore durava la zuffa quando al Dittatore pervenne Pannunzio che il generale Briganti, che batteva la campagna sulla costa di fronte a Messina tra i forti di Villa San Giovanni e Punta dal Pizzo, a marcia forzata veniva in soccorso alla pericolante cittadella di Reggio. Immediatamente Garibaldi lasciò il combattimento e presa con sé mezza la brigata Eberhard la condusse incontro ai Borbonici, i quali viste comparire da lungi le terribili camicie rosse volsero il tergo ritirandosi sotto il cannone di Alta Fiumara. E il Dittatore, visto il nemico già in fuga, senza più oltre inquietarsi, ritornossene al campo e diede colla sua presenza una impulsione novella all’assalto.
LIII.— Verso il mezzogiorno la lotta ferveva concentrata all’intorno del forte cui i volontari dappresso più sempre stringevano: tutti i distaccamenti regii accampati fuori della cittadella erano caduti prigionieri, mentre il presidio assediato in si piccolo spazio e destituito di speranza e coraggio minacciava gettare le armi e darsi esso pure prigione o disperdersi. Allora il generale Calotta ordinò s’inalberasse la bandiera bianca, e le ostilità furono immediatamente sospese da entrambe le parti. Poco dopo un falso allarme sconvolse l’intera città: vociferavasi e con insistenza asseritasi che la flotta borbonica navigasse a tutta forza alla volta di Reggio. Allora ebbe luogo una scena indescrivibile, e si vide l’effetto contrario che il medesimo avvenimento produce sull’animo del vile e del prode: i volontari corsero all’armi e si disposero ad aspettare il nemico, salutando la nuova battaglia siccome il preludio di un’altra vittoria: e gli abitanti per contro, presi da irresistibile panico, abbandonavano le loro case e precipitosamente fuggivano seco asportando le cose più care e preziose. Se non che verificata la cosa, le ansie e i terrori cessarono: i cittadini rassicurati tornarono alle abitazioni loro, e la cittadella alle ore cinque della sera venne consegnata alle truppe italiane. Tutto il materiale da guerra esistente nel forte, cioè otto cannoni da campagna, otto alla Paixhans da ottanta, sei da trentasei, diciotto pezzi da posizione, tre mortai di bronzo e forse mille duecento fucili oltre i magazzini di vestiarii e munizioni, e muli e cavalli caddero in potere dei nostri. I soldati napoletani uscirono cogli onori di guerra: alcuni di essi si unirono ai volontari e molti disertarono e presero il largo dei campi (205).
LIV.— La notte fu spesa a costituire un governo provvisorio, a proclamare la Dittatura di Garibaldi e l’unione all’Italia ed a diramare le opportune istruzioni ai villaggi della provincia: il resto fu dato al riposo ed al sonno. Il mattino 22 per tempissimo Garibaldi rimettevasi in marcia dirigendosi per la via delle colline verso Alta Fiumara dove disegnava sorprendere le truppe del generale Briganti e disfarle completamente o costringerle a deporre le armi. Cosenz e Missori la notte, per mezzo di segnali concertali a tal uopo, avevano appreso le mire del Generalissimo e ciò che per essi restava a tentare. Il maggiore Missori, già disceso dai gioghi d’Aspromonte che gli furono per più giorni inespugnabile asilo, avanzavasi traverso le creste dei monti ad occupare una posizione eccellente situata all’estrema sinistra de’ Regii. Pervenuto colà s’appiattava in una fitta boscaglia attendendo in silenzio l’istante di assaltare il nemico alle spalle, mentre Garibaldi, col grosso dell’esercito lo avrebbe urtato di fronte, e Cosenz colla sua divisione lo venisse a sorprendere a tergo.
LV.— Il 21 ad un’ora di notte, la divisione Cosenz trovatasi già pronta a salpare sulle barche cui il Dittatore aveva fatto a tal uopo raccogliere alla punta del Faro. Elleno presero il largo e raggiunsero senz’altro incidente la spiaggia calabrese dove approdarono tra Scilla e Forte Cavallo nel punto medesimo che prima toccarono i soldati del bravo Missori. Avvedutisi del fatto i presidii dei forti vicini incominciarono in vivo cannoneggiamento, durante il quale, i volontari operarono silenziosi lo sbarco senza perdite gravi o molestie. Impediti dalle tenebre gli artiglieri napoletani dirigevano a caso i loro colpi: le palle passavano fischiando sopra la testa dei nostri ed andavano inutilmente a colpire le cime degli alberi o cadeano in distanza sulla spiaggia od in mare. Terminato lo sbarco il colonnello con sollecita marcia attraversando inosservato la linea dei Regii getta vasi nel centro del paese e per la linea dei colli si portò ad occupare le alture di Pedavoti e Solano. Intanto la flotta borbonica accorreva, ma tardi come sempre al luogo dello sbarco: trovò i volontari di già approdati e scomparsi e si accontentò della cattura di poche miserabili barche che non avevano potuto tornare in Sicilia e le rimorchiò qual trofeo di non ottenuta vittoria a Sapri, a Salerno ed a Napoli (206).
LVI.— Il generale nemico, temendo che i volontari de’ quali ignorava la forza e le mosse, riuscissero alle sue spalle, come avvenne di fatti, ed intercettassero la via di Bagnara e Rosarno, avea fatto occupare le alture di Solano da un forte distaccamento de’ suoi ad oggetto di conservare per ogni evento la ritirata a Cosenza ed a Napoli. Se non che le speranze de’ Regii vennero rovesciate dallo sbarcò e dalla marcia di Cosenz. L’avanguardia italiana, inoltrandosi sulla via di Solano incontrava un nemico a fuggire più atto assai che a difendersi: e i Borboniani, ancorché superiori di numero e collocati in posizione eccellente mal resistendo all’irresistibile furia dei nostri, dopo poche scariche gettarono l’armi e si sbandarono a destra e a sinistra per le vicine montagne.
LVII.— Cosenz, proseguendo con rapida marcia il viaggio penetrò fra le gole di Moni Allo e raggiunse la vasta catena d’Aspromonte dove accampavasi in attesa degli ordini del suo Generale Il seguente mattino scendendo dalle rupi che loro servirono, durante la notte, d’asilo, i volontari si misero in comunicazione col corpo di Missori, che operava sulla medesima linea, ma più a levante e al di sopra di Reggio. In tal guisa l’esercito garibaldiano trovavasi concentrato sul versante meridionale della montagna distendendosi quasi in semicerchio da Reggio alle falde di Mont’Alto, a settentrione di Villa San Giovanni e d’Alta Fiumara.
LVIII.— La notte del 22, per ordine di Garibaldi, l’armata riprese il movimento offensivo incontro alle triplici forze nemiche. I volontari giravano per cosi dire sulla loro destra, nella marcia descrivendo presso a poco la medesima linea. Sui gioghi più elevati, traverso burroni spaventevoli ed abissi, marciava la decimasesta divisione: più basso veniva Missori e il suo piccolo corpo ed in fine Garibaldi in persona col grosso dell’armata sfilava sui colli sovrastanti alle posizioni dell’esercito regio.
LIX.— Aveva il Dittatore disposto che Cosenz si portasse alle spalle di Briganti, e si appiattasse fra le gole delle montagne donde a un dato segnale potesse od assalire il nemico od unicamente sbarrargli la via di Mileto. Missori dal canto suo doveva fermarsi alle falde del Mont’Alto, occultandosi fra le folte boscaglie che ingombrano il versante meridionale della montagna medesima ed apparecchiarsi ad attaccare la sinistra dei Regii, mentre Garibaldi, venendo da Reggio avrebbe manovrato sulla fronte della lor posizione. Cosi il corpo di Missori veniva ad accamparsi sul centro dell’armata italiana ed a servire di punto di ravvicinamente fra le truppe condotte da Garibaldi e da Cosenz. Quel piano, audacemente concetto, fu con altrettanta fortuna e bravura eseguito.
LX.— Garibaldi unicamente mirava a raggiungerò il generale Briganti: ed a tal uopo abbisognavagli evitare ogni inciampo che potesse rattenere il suo corso e ritardare la marcia de’ suoi. Egli seguiva pertanto la linea dei colli, girando alla sua sinistra il forte di Villa San Giovanni. ove il generale Melendez accampava con una intiera brigata di Regii. Infatti i Napoletani s’accorsero del passaggio dei Garibaldini sulle creste dei prossimi monti e vanamente salutaronli con alquante scariche dei loro fucili. Il Dittatore passò oltre senza nemmeno degnar di rispondere.
LXI.— Allora Melendez, indovinati i disegni dell’astuto avversario, abbandonò colle sue truppe la posizione affidatagli e corse precipitoso a congiungersi col grosso de’ Regii stanziati con Briganti ad Alta Fiumara. Così riunite le truppe napoletane formarono un’armata imponente quando paragonare si voglia alle esigue forze di cui disponeva il Generale italiano. D’altra parte i Garibaldini, divisi in tre colonne, occupavano i punti che loro avea Garibaldi indicato. Per tal modo, a seconda del piano tracciato, i Regii avevano il Dittatore di fronte. Missori all’estrema sinistra ed alle spalle il corpo di Cosenz.
LXII.— Prima però d’impegnare la zaffa, sull’esito della quale ornai più non potevasi concepire il menomo dubbio, Garibaldi cercava ottenere l’intento evitando al tempo stesso una inutile effusione di sangue fraterno. Un parlamentario venne quindi spedito con ordine di esporre a Briganti e a Melendez le misure che il Duce italiano avea prese, la scabrosa ed arrischiata situazione nella quale essi stessi versavano e la necessità di rassegnarsi al destino e di arrendersi. I generali borboniani rimasero muti e sorpresi: ciò nullameno eglino rifiutarono i patti che Garibaldi offeriva, ma immobili rimasero e concentrati nelle loro linee né mostrarono premura a combattere: forse essi pure prevedevano la loro sconfitta quando la fatalità li avesse costretti a lottare coll’invincibile espugnatore di Calatafimi e Palermo. Dall’altro canto il Dittatore che aveva divisato acquistar la vittoria senza punto ricorrere all’armi tranquillamente attendeva che i Regii si decidessero da sé a deporre il fucile.
LXIII.— Le truppe di Cosenz, fino allora nascoste fra le gole dei monti, improvvisamente comparvero sulle alture alle spalle ed in vista dei Regii, già schierate ed in atto di scendere al piano. Contemporaneamente Missori disponeva i Bersaglieri e le Guide sui colli e minacciava la loro sinistra e Garibaldi avanzandosi loro presentava la battaglia di fronte. Tutti codesti movimenti furono dai nostri eseguiti con celerità e precisione mirabile: Garibaldi, Cosenz e Missori formavano quasi una cerchia di ferro all’intorno del campo nemico. Briganti e Melendez non potevano illudersi: a destra avevano il mare: a tergo, a sinistra ed a fronte il nemico, cui il terrore dei soldati vieppiù rendeva terribile. Ritirarsi non era possibile; ogni via di salvezza era chiusa: o bisognava accettar la battaglia ed esporsi ad una rotta completa od arrendersi. Lo sbigottimento dei Regii non è descrivibile: eglino si sentivano soggiogati dal genio superiore dell’uomo che avea con forze sì esigue operato si grandi prodigi. Eglino vedevano i Garibaldini sorgere come per incanto dal suolo guidati da una volontà sopranaturale alla distruzione della monarchia che invano essi avrebbero voluto difendere. Quelle anime abbrutite dal dispotismo non sapeano farsi ragione di quanto accadeva davanti ai loro occhi e parevano come colpite da superstizioso terrore: né con tali soldati potevasi tentare la sorte delle armi. I generali borboniani il sentivano e ad una seconda intimazione del Dittatore accettarono i patti che lor vennero imposti e che prima avevano respinti. A tenore della capitolazione sottoscritta il medesimo giorno i soldati napoletani abbandonarono le armi, cedettero le fortezze di Alta Fiumara e Forte Cavallo e si ritirarono dimessi e scorati per la via di Bagnara. La resa dell’armata d’Alta Fiumara e Forte Cavallo trascinò altresì la caduta di Villa San Giovanni e di Scilla, la formidabile fortezza di Scilla che resistette nel 1808 ben trentasette giorni ad un intiero corpo d’esercito comandato del generale Regnier (207).
LXIV.— Una volta sfondate, le crociere napoletane più non valevano ad impedire ai volontari stanziati in Sicilia il tragitto in Calabria: parca che il terrore medesimo onde fu invasa l’armata di terra si fosse eziandio comunicato alla flotta. Le navi borboniane si ritiravano nei porti di Sapri o di Napoli e libero rimaneva lo Stretto ed il mare contiguo. La sera del 22 Medici imbarcavasi colla divisione a tre miglia circa da Messina e felicemente raggiungeva a Villa San Giovanni i Garibaldini che se Aerano di già insignoriti. Il 24 e il 25 passava pur anche la divisione di Türr, ed in tal guisa tutta l’armata garibaldiana, meno la brigata Eber ed i depositi, si riuniva sui lidi calabresi per le future operazioni campali.
LXV.— Garibaldi, non volendo al nemico dar tempo a riaversi ed a concentrar le sue forze, tosto rivolse il pensiero ad approfittare dei vantaggi ottenuti ed a spingere colla massima energia e celerità le operazioni guerresche. Egli più non trovavasi nella condizione penosa che a Palermo obbligavate a temporeggiare e suo malgrado a differire il compimento della santa intrapresa: in Calabria sentivasi forte abbastanza per affrontare la monarchia alle porte stesse della sua capitale. Aveva egli impertanto divisato piombare all’improvviso tra le diverse divisioni dell’esercito napoletano accantonate nella Basilicata e nelle Calabrie e batterle separatamente e disperderle, e inoltrarsi nel cuore stesso del Regno prima che il nemico potesse avvisare ai mezzi d’opporsi efficacemente e difendersi. Perciò, senz’attendere l’accentramento di tutto l’esercito, postosi a capo delle divisioni di Bixio e di Cosenz, riprese la via di Bagnara e di Palmi per Mileto e per Maida
LXVI.— Prima però di partire spediva in Sicilia il colonnello Lodovico Frapolli con missione di raccogliervi i volontari, già appartenenti alla spedizione di Terranova, e che nel frattempo doveano essere giunti a Palermo, e di trasportarli per mare a Paola od a Sapri ad intercettarvi l’unica strada militare che le Calabrie congiunge con Napoli. Era questa una manovra audacemente concetta e di somma importanza nella sua esecuzione: una volta penetrati in Basilicata avrebbero i Garibaldini, troncato le comunicazioni della capitale delle provincie orientali del Regno e costretto i varii presidii borboniani delle città calabresi a defezionare o ad arrendersi. Se i Regii avessero accettala la battaglia che loro Garibaldi offeriva sulle alture di Monte Leone o Cosenza, i volontari sbarcati a Paola potevano accorrere ad assalirli da tergo ed a prenderli così tra due fuochi; in caso contrario avevano ordine di operare un movimento offensivo sopra Salerno (208).
LXVII.— Dal mattino 24 agosto i volontari correvano sulla via di Bagnara e di Palmi costeggiando la spiaggia del golfo di Gioia. Erasi sparsa voce che il generale napoletano Cardarelli, con una divisione rinforzata dai presidii di Catanzaro, Gerace ed altre vicine città, non che dalle truppe fuggiasche di Briganti e Melendez, intendesse difendere l’altipiano di Monte Leone e i gioghi che dominano Catanzaro stessa e Cosenza. Perciò Garibaldi sollecitava la marcia desiderando affrontare il nemico prima che questi si fosse fortificato in quelle posizioni di loro natura cotanto eccellenti. I volontari procedettero con tanta celerità che giunsero a Mileto appena ventiquattrore dopo il retroguardo della decimata divisione Melendez.
LXVIII.— A Mileto il 25 compivasi un’orrenda tragedia. Ritirandosi da Villa San Giovanni il decimoquinto reggimento di linea napoletano bivaccava in quel giorno sulla piazza e per le strade della città. La truppa inasprita dai sofferti disagi ed indisciplinatissima, come sovente avviene degli eserciti in fuga, sordamente mormorava contro i suoi generali e contro il governo: né gli ufficiali che la conducevano, scoraggiati o guadagnati eglino pure dallo spirito di ribellione, si davano la minima pena a tenerla in dovere. I soldati con terrore numeravano le faticosissime tappe che loro a fare restavano, e ripudiando il mestiere delibarmi, chiedevano il congedo illimitato e il ritorno alle loro famiglie. Giunse in questo il generale Briganti a cavallo ed accompagnato da un solo domestico: e come i soldati il riconobbero salutaronlo con grida furiose di abbasso e di morie. Il generale, senza punto curarsi di tali schiamazzi, passò oltre volando ed usci da Mileto. L’infelice correva già in salvo sulla strada di Monte Leone, quando, o vergogna il prendesse, o lo richiamasse il sentimento del proprio dovere, o quell’arcana potenza che si chiama destino, rivolse il cavallo e rientrò coraggiosamente in città. Non si tosto comparve, i clamori e le gride ripigliarono con nuovo e crescente furore. Briganti arrestavasi intrepido ed accennava voler parlare, quando tre colpi di fuoco gli uccisero sotto il cavallo. Con sangue freddo mirabile sbarazzavasi il povero vecchio dalle staffe e raddrizzavasi in piedi, opponendo il petto scoperto alle palle di que’ vili assassini. I soldati un istante esitarono, lo schiamazzo calmavasi: e il generale avvicinatosi parlava della sua età già cadente e delle cure paterne che alle truppe aveva prodigato in tanti anni della sua militare carriera. Il venerando sembiante, le parole ed il nobile contegno del vecchio generale parevano aver disarmato la furia di quei miserabili, quando un basso ufficiale a bruciapelo tiravagli un colpo nel petto e stramazzavalo moribondo per terra. La vista del sangue riaccese la rabbia ed inebbriò la ferocia di quell’orda selvaggia: oltre cinquanta fucili vennero inumanamente scaricati sul muto cadavere. Né paghi di ciò i soldati lo trafissero con replicati colpi di baionetta e di sciabola, né fu senza grave fatica e pericolo che alcuni pietosi riuscirono a sottrarre dalle loro mani il corpo mutilato e nasconderlo nella prossima chiesa. Cosi periva Briganti per mano di pochi e codardi assassini. Felice lui se fosse caduto combattendo sotto le mura di Reggio o sotto Alta Fiumara! (209).
LXIX.— Ebre di furore e di sangue quelle jené si rivolsero a saccheggiare le botteghe propinque e le chiese: parevano dominate da una potenza infernale. Quindi, conosciuto il luogo dove la vittima loro giaceva nascosta, sfondarono le porte del tempia ed afferrato pei piedi il cadavere lo trascinarono ignudo e sanguinante per le vie di Mileto. Chi gli strappava i capelli o la barba, chi lo punzecchiava colla baionetta, chi lo calpestava imprecando: gli vennero strappati gli occhi, lacerate le orecchie, peste, fracassate le membra: non v’è oltraggio ed obbrobrio da cui quegl’infami rifugissero. Stanchi alla fine si riunirono sulla piazza ed ivi deposte di comune concerto le armi, sbandaronsi, ciascuno prendendo la via del proprio paese. Cosi i miserabili, soliti a tremare ed a fuggire davanti a pochi nemici, ebbero l’infame ardimento di trucidare un debole vecchio ed inerme, ed ignominiosamente oltraggiarne eziandio il mutilato cadavere.
LXX.— L’insurrezione prendeva frattanto delle enormi proporzioni alle spalle ed ai fianchi dell’armata borbonica, e precedeva la sollecita marcia del Generale italiano, dovunque preparando il terreno per la sua recezione. A Solano, a Palmi, a Drosi, a Rosarno, a Mileto e in ogni luogo i volontari venivano accolti con immensi trasporti di giubilo ed acclamati quali redentori dei popoli. Sopratutto Garibaldi era oggetto d’ammirazione spontanea, universale, vivissima: egli giungeva applaudito, benedetto e festeggiato con illuminazioni, danze e tripudii, e partiva seco portando i voti più vivi e cordiali del popolo. Felice chi poteva parlargli o soltanto avvicinarlo o toccargli la mano o la veste: egli diventava per ciò solo l’oggetto della curiosità universale. Ben a ragione il Dittatore scriveva all’amico suo Giuseppe Sirtori: la nostra marcia traverso questo paese è un vero e continuo trionfo.
LXXI.— Da per tutto in que’ giorni istituivansi comitati o società patriottiche, veri governi provvisorii, che assumevano ed accentravano in sé la sovranità d’intiere provincie. E ciò non in secreto o davanti ai Regii, ma apertamente ai loro fianchi ed a tergo e fino sotto gli occhi medesimi delle autorità borboniane. A Catanzaro ed a Cosenza, siccome a Gerace, e a Reggio codesti comitati funzionavano di già costituiti e riconosciuti dalle popolazioni amiche e plaudenti. I Napoletani occupavano alcuni punti isolati d’un suolo che loro sfuggiva dai piedi: rinchiusi nelle loro fortezze miravano con terrore e sgomento svolgersi correndo tempesta che tutti minacciava inghiottirli. La sconfitta e l’indisciplina li rendevano inerti ed incapaci di resistere al voto che manifestatasi loro d’intorno: erano quasi stranieri accampati in paese nemico.
LXXII.— Il generale napoletano Ghio teneva a Catanzaro e ne’ vicini paesi un corpo d’armata ammontante a circa quindici mila soldati e che giornalmente aumentavasi colle reliquie delle brigate Melendez e Briganti e coi presidii dei forti situati lungo il litorale del Mediterraneo. Com’era da supporsi il generale napoletano apprestavasi à coprire l’importante città di Cosenza occupando l’unica strada militare che da Reggio conduce a Soveria. Obbietto precipuo delle operazioni dei Regii doveva esser quello di rincacciare l’armata italiana nella bassa Calabria o per lo meno di ritardarne la marcia. A tale oggetto diverse posizioni si offrivano alla scelta del generale borbonico e tutte egualmente eccellenti e suscettibili di lunga difesa, tali erano le alture di Monte Leone, la linea del fiume Lamato, celebre per la sconfitta sostenutavi dai Francesi nel 1806, e finalmente le gole scoscese ed alpestri di Tiriolo e Soveria. Sembra che Ghio sulle prime avesse prescelto il magnifico altipiano di Monte Leone: ma sia ch’egli credesse impossibile antivenire colà l’arrivo dei nostri od altre considerazioni il movessero accampavasi sui gioghi dietro a Tiriolo.
LXXIII.— Garibaldi per la via di Mileto e di Maida celeramente avanzavasi desideroso di misurarsi col nuovo generale che la Corte di Napoli mandavagli incontro: e contemporaneamente gl’insorti calabresi concentravansi in vari punti e battevano il paese ai fianchi ed alle spalle dei Regii. Il generale Ghio bentosto s’avvide che la sua posizione diventava sempre più scabrosa e difficile: ostinarsi a tenerla sarebbe stato quanto esporre l’armata al pericolo di certa e totale sconfitta. In circostanze si anguste una sola speranza rimanea di salvezza, ed era la pronta ritirata a Soveria al di là di Catanzaro sui colli che dividono questa città da Cosenza. La ritirata s’operò con somma precipitazione e con qualche disordine: i Napoletani occuparono Soveria, determinati ad aspettarvi il nemico e sperando, in caso di rovescio, mantenere le comunicazioni colla Basilicata e con Napoli.
LXXIV.— Il Dittatore frattanto con rapida marcia presentavasi sulle alture vicine a Soveria di fronte alla linea borbonica: e seco aveva la decimasesta divisione Cosenz e la brigata di Sacchi allora appartenente al corpo di Türr. Il barone Stocco (vecchio patriotta del 1848, esigila to in seguito agli avvenimenti del maggio e rimpatrialo coll’armata italiana) con grossa schiera d’insorti oltrepassava inosservato le linee dei Regii portandosi alle loro spalle ed intercettando la strada di Catanzaro a Cosenza. Altre squadre d’insorti o guerriglie romoreggiavan tra le giogaje dei monti propinqui ed allarmavano continuamente i nemici colle loro scorrerie, le fughe simulate e gli assalti improvvisi. Inoltre veniva al generale borboniano annunziato che una forte divisione di volontari, sbarcata a Paola, dirigevasi sopra Cosenza, e gli rendeva in tal modo ogni idea di ritirarsi impossibile. Ghio non sapeva a quale partito appigliarsi: alla sua sinistra elevavansi le inaccessibili giogaje degli Appenninica destra stendevasi Inazzurra superficie del Mediterraneo, di fronte avea Garibaldi, ai fianchi ed a tergo gli insorti, le squadre di Stocco e il corpo spedizionario di Paola. Egli prese impértanto una eroica risoluzione, quale seppero prendere, durante l’intiera campagna, i generali di Francesco II. Dopo avere scambiato alquante fucilate cogli avamposti italiani ed assaggiato alcun che del valor nemico, Ghio stipulava un accordo mediante il quale, obbligandosi a non combattere più mai né contro i Garibaldini né contro gli insorti ed abbandonando le artiglierie, i cavalli, i muli e le provvigioni da guerra e da bocca di cui era copiosamente fornito, assicuravasi la ritirata a Salerno ed a Napoli.
LXXV.— Il generale di brigata cavaliere Cardarelli, comandante di piazza in Cosenza, come seppe la capitolazione di Ghio e l’assassinio di Briganti, colpito da invincibile panico scese egli pure agli accordi e stipulò col Comitato locale la resa della città e del forte. E procedette ancora più oltre: egli offerse al Comitato medesimo di riunirsi all’esercito italiano in un colle truppe che stavano sotto i suoi ordini. Ottimi sembravano i patti, pure se ne declinò l’accettazione deferendone al giudizio del Dittatore di Sicilia e Calabria: e Garibaldi ricusando in massima la lusinghevole offerta, esigette che i soldati fossero lasciati in libertà d’incorporarsi ne’ suoi reggimenti o di ritornare alle loro famiglie, e che il generale si obbligasse a rimanere prigione di guerra a Cosenza. La fortezza, uniti i materiali e i magazzini, passava in potere dei nostri.
LXXVI.— Colle capitolazioni di Ghio e Cardarelli compivasi la redenzione di tre grandi provincie, la Calabria Citeriore e la prima e seconda Ulteriore. Il vasto paese che stendesi dall’estremità del Capo Spartivento a Cosenza, tanto al di qua che al di là degli Appennini, sgomberato e ceduto dai Regii. libero diveniva e italiano. In soli nove giorni dal suo sbarco sulle coste di Melito Garibaldi batteva il nemico sotto le mura di Reggio, costringeva ben cinque generali nemici ad arrendersi, disperdeva o metteva fuori di combattimento quattro corpi di armata ed insignorivasi di forse venti città e fortezze, alcune delle quali formidabilmente munite dalla natura e dall’arte. In nove giorni incominciava e conduceva a metà una terza campagna non meno delle altre grandiosa e brillante: era aperta la via di Salerno e di Napoli: e le operazioni dei volontari da quell’istante assumevan l’aspetto di una semplice passeggiata militare a traverso le provincie del Regno.
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