Alta Terra di Lavoro

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LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (V)

Posted by on Apr 27, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (V)

LIBRO V

Assalto e resa di Falerno

I.— Mal si potrebbe descrivere l’agitazione, il fermento che invase a que’ giorni, dagli Abbruzzi all’estrema Calabria, l’intiero Stato di Napoli. Lo sbarco di Garibaldi a Marsala aveva fatto un’impressione generale e profonda sui liberali egualmente e sui retrogradi, in corte del pari e nel popolo. La grata, od ingrata, novella fu a Napoli conosciuta nel pomeriggio del 14 maggio, appena ventiquattr’ore prima che la battaglia di Calatafimi aprisse all’armata italiana una lunga e luminosa carriera di glorie e di trionfi.

Il partilo nazionale, siccome nell’Isola, numerosissimo eziandio in terra ferma, traeva dai fatti recenti nuova lena e coraggio, mentre i Borboniani smarrivano affatto la testa. Fino allora Francesco II aveva potuto sperare di ristabilire, temporeggiando, in Sicilia la sua autorità e il suo governo: ma da quel punto dovette avvedersi della necessità di prontamente tentare la dubbia ed incerta fortuna delle armi. Per lo addietro i suoi generali avevano condotto debolmente una guerra offensiva contro gl’insorti sparpagliati o rintanati nelle montagne: ma dall’istante che Garibaldi marciava nell’Isola era a credersi che sarebbero ben presto stati costretti a tenersi nella stretta difesa. Perciò grandi apprestamenti si fecero, tutte le misure si presero, per rovesciare sull’Isola una massa imponente di forze, le quali a giudicarle dal numero, avrebbero dovuto bastare a sconfiggere, non uno, ma cento Garibaldi riuniti. Tutte le truppe disponibili, già da oltre un mese concentrate nei dintorni della capitale ed a Gaeta, vennero in que’ giorni per ordine sovrano trasportate in Sicilia. Tra queste trovavansi diverse squadre di volontari stranieri, sulla devozione dei quali re Francesco contava assai più che sulla fede de’ suoi. Tutte queste forze dovevano tuttavolta servire, non già a ripristinare, oltre il Faro, la cadente dominazione borbonica, ma bensì ad accrescere la gloria del Generale italiano e de’ mille suoi prodi.

II.— E ciò ancor non bastava. L’imminenza del pericolo e la novità dell’assalto suggerirono a Francesco Borbone altri mezzi e spedienti. Né Castel Cicala, né Salzano, né Wyttenbach, avevano in un mese di ostilità dato prove di sufficiente bravura perché da essi si potesse sperare il trionfo in Sicilia dell’armi assolutiste. In quaranta giorni, malgrado le frasi pompose dei loro rapporti e le tanto decantate vittorie, non avevano saputo o voluto domare e disperdere poche schiere d’insorti senza disciplina, senz’armi e prive di appoggio e di guida. Se rimasero inerti allorché trattavasi di combattere la sola, rivoluzione popolare, era presumibile che tanto meno valessero a fronte dell’audace condottiero che rovesciava sull’Isola un esercito (poiché tale credevasi il corpo di spedizione) di avventurosi e valenti soldati. Re Francesco s’avvide impertanto essere necessario affidare ad altri uomini e ad altre mani il governo della guerra siciliana. Dovevasi porre a fronte di Garibaldi un generale avveduto ed energico, il quale sapesse in pari tempo tenere in freno i cittadini colla severità e respingere col valore il nemico.

III.— Il tenente generale D. Ferdinando Lanza, uomo di franco e virile carattere e d’una austerità che talora fu stimata ferocia, fu scelto a compire i disegni del Principe e della Corte napoletana. Di principii lealmente monarchici ed assolutisti è dotato, cosi almeno credevasi, d’alta militar previdenza, attaccato alla Casa Borbonica per istinto proprio e per tradizione di famiglia, ritenevasi il solo che potesse bastare all’ardua bisogna. Egli salpava da Napoli verso la metà del maggio conducendo seco in Sicilia i rinforzi destinati ad aumentare l’armata d’operazione. Fra le istruzioni che re Francesco nel congedarlo gli diede era una completa amnistia a Siciliani pe’ fatti trascorsi, la promessa della Costituzione del 1812 e l’ordine di espellere ad ogni costo dall’isola l’armata garibaldiana (58).

IV.— Don Ferdinando Lanza, munito dei pieni poteri militari e politici (così il Borbone credeva iniziare la vita costituzionale della Sicilia) approdava a Palermo il 17 maggio, ed assumeva tosto il supremo comando dell’esercito e l’amministrazione dell’Isola. Il maresciallo principe di

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Castel Cicala, in tal guisa scavalcato dal suo successore, stimando inutile il soffermarsi più oltre in Sicilia, sali sul vapore a lui destinato e si fece trasportare qualche giorno dopo a Napoli. Castel Cicala l’u abbastanza fortunato di lasciare al nuovo comandante l’incarico di farsi battere da un pio cioi drappello di volontari italiani e l’onta della più meravigliosa sconfitta che la storia abbia mai ricordata.

V.— La successiva mattina 18 compariva il primo proclama, diretto dal siciliano don Lanza ai cittadini di Palermo, col quale si esponevano i desiderii della Corte e le intenzioni di Sua Maestà Borbonica intorno alla futura ricostituzione dell’Isola. Lanza annunciava avere re Francesco decretato l’invio nell’Isola di un Principe della Casa Reale col grado di luogotenente generale, coi pieni poteri inerenti alla carica e con missione di provvedere alle riforme più vantaggiose per l’avvenir del paese. Prometteva in nome del sovrano che gli studii sarebbero immediatamente intrapresi per dotare la Sicilia con una rete di strade, per il tracciamento di una ferrovia e per accudire allo sviluppo delle industrie e delle manifatture nazionali. Il nuovo luogotenente infine avrebbe facoltà e missione di fornire il paese de’ migliori mezzi che l’esperienza indica siccome conducenti allo svolgimento della civiltà e della prosperità delle popolazioni. Ma per ottenere si nobile intento inculcava la necessità di prestare al monarca il concorso necessario ad agevolargli e condurre a fine l’impresa, da Sua Maestà concepita con amore e saldo proposito. Unico mezzo ili salvezza essere quello di riunire gli sforzi dei cittadini al valore delle reali milizie a respingere gli stranieri aggressori venuti a gettar la Sicilia in una guerra tempestosa e fatale. E conclude finalmente coll’accordare un ampio e generoso perdono a coloro che facessero ritorno a più miti consigli e si sottomettessero alla legittima autorità (59).

VI.— I cittadini a ciò rispondevano in data del 20: «Saper essi pur troppo a che tenersi sul conto del suo patriottismo, mentr’egli, siciliano dirigine, presentavasi a’ suoi concittadini rivestito dell’assisa borbonica. La carica stessa che occupava, l’ufficio ch’egli erasi assunto parlare abbastanza per lui. Di uomo siffatto, ed in simili circostanze venuto, potrebbe esser dubbio il pensiero? Il proclama del 18, da lui sottoscritto ed evidentemente redatto da un traditore del paese nativo, da Domenico Ventimiglia, direttore del Giornale Ufficiale rivelare del tutto l’animo del Commissario borbonico. Per dodici anni aver la Sicilia congiurata per giungere al punto in cui allora trovavasi: e dopo gustate le primizie della vittoria essere impossibile indurre i Siciliani a sottoporsi spontaneamente alle vecchie catene. In tanti anni di lotta aveva mai pensato il Governo allo svolgimento della sua prosperità? Le forche, gli ergastoli, i supplizii inquisitoriali essere stati i soli mezzi, adoperati in passato da un governo che volevasi provvido e forte, e che non arrossiva a qualificare i Siciliani cogli aggiunti di amatissimi e traviali. Indarno promettere un Principe della casa reale a luogotenente in Sicilia. Assurdo il promettere il resto delle strade rotabili mentre di strade si fatte non ve ne aveva una sola nell’Isola. Prometteva le ferrovie? Ma essersi mille volte proposto al governo la costruzione delle strade ferrale, senza che se ne facesse mai nulla. A che parlare delle industrie? Un ricco Siciliano aveva profuso tesori in una fabbrica di carta, la quale il governo aboliva in appresso con danno estremo dell’industrioso privato. I vapori postali settimanali tra il continente e risola non erano stati, essi pure, aboliti? Non era spenta in Sicilia l’industria, arenato il commercio, rovinata l’agricoltura, le strade riboccanti di accattoni, calpestata la nobiltà e la cittadinanza, e disprezzati perfino gli uomini più devoti alla causa ed al nome borbonico? E si vorrebbe fornire il paese de’ migliori mezzi conducenti allo sviluppo della vita civile? Essere oggimai troppo tardi. — Avere troppo a lungo i Siciliani sperato: esser assurdo il pretendere da essi un sentimento di fiducia da gran tempo perduto. A che parlare di guarentigie? A chi non è nota la fede borbonica? Mille solenni promesse essere state fatte in passato, e non una sola adempiuta. Concessioni? Riforme? Parole vane e senza senso per chi fu tante volte ingannato. Ferdinando I che pure assumeva la divisa P. F. A. non aveva nel 1848 giurato, ed in appresso spergiurato, la costituzione? Altrettanto non era accaduto dopo il 1812 ed il 1821? — Da ultimo essersi i Siciliani sollevati in nome ed a favore della causa nazionale e per congiungere i loro ai destini dell’intiera penisola. Potevano essi recedere? Inutile oggimai il proporre delle transazioni che non si dovevano a nessun patto accettare. Volere i Siciliani unicamente una cosa: formar parte dell’Italia unita e risorta. Fra un popolo sollevato ed un re despota non esservi patto possibile: ed i Siciliani preferire il sepolcro al ritorno dell’antica tirannide…» (60)

VII.— Con tali auspicii don Lanza assumeva l’amministrazione della terra natale. Appena mise piede in Sicilia s’avvide della difficoltà della situazione circondala da ogni parte d’inciampi e pericoli. I cittadini parevano più che mai determinali a resistere alle pretensioni borboniche: il fuoco della rivolta, benché in sé chiuso, avvampava sotto la cenere, e solo mancavagli l’occasione di esplodere. L’opposizione dei palermitani al governo era tacita, tenebrosa, latente, ma non perciò meno attiva, profonda, implacabile. Per la prima volta, dopo un regno di un secolo, i Borboni cercavano indarno fra i loro popoli quella fiducia di cui avevano si lungamente abusato. Per la prima volta gli abitanti del regno, sia nella terraferma o nell’Isola, chiudevano interamente gli orecchi alle pressanti sollecitazioni della Corte. Le concessioni, le riforme, le più solenni promesse di costituzioni e miglioramenti avevano affatto perduto il primitivo prestigio: ed i cittadini, dopo essere stati colti a più riprese a quell’amo, ad dimostravansi fermamente disposti a non lasciarsi più prendere. Il Commissario di Francesco II trovò il paese involto in una di quelle crisi solenni che non si possono scongiurare né vincere.

VIII.— Esauriti i mezzi della persuasione era mestieri un’altra volta ricorrere alla coazione ed alla forza: né in ciò gli ostacoli si facevano punto minori né meno pressanti. Don Lanza trovava a Palermo un esercito numeroso ma indisciplinato, abbattuto dai recenti disastri ed incerto del proprio avvenire. La confidenza in sé, nei capi e nel numero, che forma in gran parte la militare virtù del soldato, mancava del tutto in quell’orda di sgherri a cui re Francesco doveva affidare il sostegno della pericolante corona. Contemporaneamente all’arrivo di Lanza i soldati di Landi fuggiti da Calatafimi raggiungevano il Quartier Generale. Parte per l’avuta paura, e parte eziandio per giustificare la vergognosa loro condotta, amplificavano nei loro racconti i pericoli corsi, e maraviglie narravano di Garibaldi e dell’armata italiana. Si diceva che Garibaldi alla testa di un numerosissimo esercito marciava difilato a Palermo: si centuplicavano le forze che avevano affrontate sul Monte di Pianto Romano, e spargevasi nelle truppe borboniche colla persuasione della numerica loro inferiorità, un sentimento universale di sconfidenza e paura. Landi medesimo, nel suo rapporto più sopra accennato, aveva contribuito a spargere nell’armata e nei capi lo sgomento e il disordine, ed a credere alle sue affermazioni, aveva egli combattuto a Calatafimi contro un intiero e numerosissimo esercito, munito di tutti i mezzi militari ed appoggiato ad innumerevoli schiere di volontari e patrioti!. Garibaldi ed i suoi mille apparivano nella mente dei soldati borbonici quali uomini eccezionali e fatati contro cui invano volevasi lottare o resistere. Poteva temersi che la sola presenza delle camicie rosse risvegliasse nell’universale esaltazione degli animi, un panico tremendo ed irresistibile. Con tali soldati ed animati da tali sentimenti doveva il Commissario napoletano opporsi alla marcia trionfante del Generale nizzardo.

IX.— Contuttociò nella situazione di Lanza era forza che portasse sul volto la sicurezza che in cuor non sentiva, ad oggetto d’ispirare ai soldati quella confidenza che l’improvvisa comparsa dei mille aveva loro rapita. Era pur anche mestieri imporre ai cittadini di Palermo con un fermo e severo contegno, e, poiché nulla valevano ornai le lusinghe, adoperare con essi il rigore delle leggi militari e l’eloquenza dell’armi. In questo, a dir vero, il generale borbonico trovava nell’armata un sostegno più pronto e più valido che non poteva lusingarsi ottenere sul campo di guerra, giacché per antica consuetudine nelle truppe napoletane la ferocia di gran lunga superava il valor militare. Impértanlo la mattina del 20 comparve un proclama del comandante la fortezza, il noto Giovanni Salzano (61), col quale per la terza o la quarta volta si rimetteva in vigore lo stato d’assedio con tutte le sanguinarie disposizioni che da quello conseguono. Nel preambolo di detto proclama, per una singolare inconsistenza di cui però possiam farci ragione, riduceva ad ottocento il numero strepitoso degli Italiani che Landi aveva pochi dì prima affrontato sui campi di Calatafimi. Salzano annunciava ai cittadini che Garibaldi con ottocento avventurieri aveva il giorno 14 operato lo sbarco a Marsala, questa gran violazione com’egli chiamavala, del diritto delle genti. Proseguiva dichiarando che mentre la capitale era minacciata degli invasori per ordine superiore egli era obbligato a provvedere alla salvezza della città colle leggi eccezionali del codice militare (62). Questo è l’ultimo documento a cui avesse parte il già luogotenente principe di Castel Cicala prima del suo definitivo ritiro dall’Isola.

Il 21 la bandiera italiana compariva sul piano di Renne: ma l’arrivo di Garibaldi sollevava le speranze, senza infondere in cuor degli schiavi l’audacia d’infrangere le vecchie ed abborrite catene. Dopo mille promesse e lusinghe, dopo le centinaia di proclami inseriti su tutti i giornali, il Generale italiano si trovò solo dinanzi a Palermo e ridotto alle forze che aveva con sé dal continente condotte. Il comitato di Palermo, potentissimo a parole, non seppe apparecchiare né un fucile né un uomo per agevolare l’impresa liberatrice dei mille. Quei signori abborrivano il dominio borbonico e s’affaccendavano per la sua distruzione: ma il patriottico ardire esalavasi in lettere ed indirizzi di cui riempivano l’intiera penisola. E quando il pericolo appariva vicino, quando Garibaldi co’ suoi si avanzava fin sotto le mura della città, anziché aiutarlo e soccorrerlo, rimasero spettatori tranquilli ed inerti di ciò che poteva avvenire. E Garibaldi che aveva troppo fiduciosamente contato sul loro concorso, vistosi solo ed abbandonato, dovette nel proprio genio ed esperienza cercare la salvezza e la vittoria dell’armi italiane.

XI.— Né il procedere del comitato, comeché inaspettato e stranissimo, mancava di significazione. Il vero comitato insurrezionale, quello che aveva iniziato il movimento popolare, venne dopo il fatto della Gancia disciolto e disperso. Quelli tra i suoi membri che non caddero nella memorabile notte del 4 aprile coll’armi alla mano, si gettarono alla campagna e si congiunsero alle bande insorgenti. Eglino ebbero parte in appresso a tutti i combattimenti e gli scontri coll’armata borbonica, e pugnarono a Carini, a Monreale, a Sferracavallo ed Adernò. Moltissimi si distinsero al fianco di Rosolino Pilo, di Santanna e di Corrao, e molti eziandio accorsero poscia ad ingrossare le file garibaldiane. Dopo l’avvenimento della Gancia il partito dell’insurrezione rimase in Palermo abbandonato e disciolto. sinché, per opera specialmente dell’emigrazione residente in Piemonte, un novello comitato venne costituito. Ma questo nuovo comitato, composto, da quanto appare, di gente paurosa e trepidante, non era quale il richiedeva la solenne necessità del momento. Da quanto avvenne ben tosto appresso sembrerebbe poter inferire che, non per soccorrere Garibaldi e cooperare armata mano alla liberazione del paese, ma per assicurarsi il possesso dell’Isola fosse stato istituito in origine. Congiurati di nuova stampa, costoro cospiravano non tanto per la vittoria quanto per apparecchiare il terreno alla futura annessione.

XII.— Per ben cinque giorni, dal 22 al 27 maggio, cittadini e borboniani vivevano in Palermo nell’aspettazione angosciosa di ciò che stava per succedere. Garibaldi era comparso sulle alture di Monreale e sparito: il susseguente mattino si seppe avere l’armata italiana raggiunto il villaggio di Parco: ma la sera del 24 per la capitale si sparse l’ingrata novella che i garibaldiani battevano in ritirata verso l’interno dell’Isola. Dal 24 al 27, malgrado i mille messaggi che andavano ad ogni ora e venivan dal campo, ad onta delle smargiassate borboniche e delle ampollose affermazioni del Giornale Ufficiale che annunziava battuto e disperso l’esercito di Garibaldi, nulla conoscevasi dell’itinerario o delle sorti del Duce italiano. Pareva però certo che il Commissario di Francesco Borbone ritenesse gl’Italiani già vinti e dispersi, se dovevasi credere alla insolita baldanza ed alla novella insolenza che vedevasi scolpita sulla fronte dei Regii. Intanto Garibaldi lasciato Misilmeri la sera del 26 recavasi a Gibilrossa, donde la notte seguente intendeva marciare a Palermo.

— A Gibilrossa si presero le misure opportune per la distribuzione e l’ordinamento dei corpi e si stabili l’attacco di Palermo. Dopo breve ora di riposo i militi vennero richiamati al loro posto, ed il Generale assistito dallo Stato Maggiore li passò poco stante in rivista. Con brevi ed eloquenti parole Garibaldi arringò in quell’ora solenne le truppe: fece elogi al loro contegno, appianse al loro coraggio e le confortò a sperare nel loro diritto, nella loro coscienza e nell’audace loro valore. «Domani, egli disse, entrerò vittorioso a Palermo od il mondo non mi vedrà più tra i vivi.»

— Garibaldi appariva visibilmente commosso. Le sue parole, fatali come il destino, risvegliarono l’ardore e l’entusiasmo dei militi. In quelr istante dimenticavano lutti i patiti disagi ed i pericoli senza numero da’ ‘quali erano come per incanto sfuggiti. Nella mente di que’ valorosi signoreggiava un solo pensiero, quello di combattere e vincere. Gli avvenimenti dei giorni passati, la confusione del nemico che sera continuamente lasciato ingannare dai falsi lor movimenti, la coscienza del proprio coraggio e la confidenza che tutti nutrivano nel genio militare del condottiero che avevali guidati a tante vittorie, tutto contribuiva a sollevare le loro speranze ed accrescere la loro energia. Se Inabilità dùm condottiero d’eserciti precipuamente consiste nel sapere inslillare nel cuor dei soldati la certezza del trionfo, Garibaldi è senza verun paragone il Generale più abile che vanti l’Italia.

— Nel lungo pellegrinaggio da Salerai a Gibilrossa la piccola armata italiana s’era accresciuta delle varie squadre d’insorti ad essa successivamente congiuntesi. Oltre le schiere inviate dal Piano di Renne, sullo stradale di Salerai e di Trapani, oltre i drappelli con Orsini spediti alla volta di Corleone, il numero dei picciotti ammontava a Gibilrossa a non meno di due migliaia. La linea da Garibaldi percorsa in quei giorni presentava la massima facilità di radunare sotto il vessillo italiano gl’insorti disseminati su tutte le creste dei monti che formano il centro dell’Isola. Le profonde boscaglie, e quasi del tutto inabitate e deserte, che cuoprono all’intorno il paese, avevano per due lunghissimi mesi offerto ai rivoltosi un securo ricovero. Di là, durante l’aprile ed il maggio, sovente discendevano nelle sottoposte pianure, battevano le vallate e le strade, ed interrompevano le comunicazioni: ed allorquando aumentava il pericolo si ritraevano alla vecchia, inaccessa dimora. Come le guerrillas spagnuole i popolani siciliani usavano attaccare ali improvviso il nemico e ritrarsi dopo pochi colpi o secondo le circostanze interamente sbandarsi per quindi riunirsi e correre a nuova fortuna. Mille volte battuti, e sconfitti e sovente dispersi, mai non furono domati né vinti: eglino si ricomponevano nel silenzio della solitudine e della notte e ritornavano con fresca baldanza all’assalto. Ma dall’istante che i mille vittoriosi marciavano sullo stesso terreno, inutile ed eziandio pericoloso divenne quel vecchio sistema di guerra. I capi del popolar movimento sentirono la necessità di correre la stessa fortuna coi loro liberatori e fratelli italiani. In quel supremo frangente,¡1 solo piano adottabile era quello di raccogliere tutte le forze pel gran colpo di mano che andavasi già maturando.

XVI.— Fra i Picciotti i più valorosi ed arditi presero servizio nelle file stesse dei volontari, de’ quali adottarono il valore, la disciplina e l’audacia. Ma il gran numero, avvezzo unicamente all’attacco ed alla fuga, senz’ombra d’istruzione militare e senza conoscenza degli alti doveri che incombono ad un corpo ordinato, fu raccolto in un corpo speciale e sottomesso al generale Giuseppe La Masa, già nominato a Talamone comandante la quarta compagnia dei volontari. Il bravo Missori abbandonò a Gibilrossa egli pure il comando delle guide che aveva fino allora tenuto, essendo stato da Garibaldi chiamato presso di sé. Il comando di quel corpo, quanto insignificante per numero altrettanto terribile per sangue freddo ed audacia, venne da quel punto affidato all’Ungherese Tuckery, lo stesso che il giorno dopo cadde mortalmente ferito a Palermo.

XVII.— La sera medesima i volontari per angusti e tortuosi sentieri (63) discesero la montagna e raggiunsero la gran via militare di Messina. Quivi s’arrestarono per brevi momenti affinché il Generale potesse ricevere i rapporti de’ suoi esploratori e dare le ultime disposizioni per il prossimo attacco. Da quel punto la strada percorreva una valle che sempre più diventa spaziosa a misura che s’approssima all’agro palermitano col quale a ponente confina. A destra ed a sinistra giacciono vastissimi tratti di terra coltivata e di quando in quando interrotti da giardini, da boschetti e da parchi appartenenti ai primarii cittadini di Palermo. L’armata italiana ricevette l’ordine di marciare contemporaneamente in tre colonne delle quali l’una formante il centro condotta da Garibaldi in persona aveva a seguire la strada e le altre due dovevano marciare lateralmente alla prima a traverso dei campi. Tale disposizione fu suggerita dalla necessità di presentare, pel caso d’un improvviso scontro coi Regii, una fronte ordinala e disposta in battaglia e d’evitare la confusione ed il disordine che mai sempre accompagnano le mosse d’un esercito eseguite nell’oscurità della notte. Ai volontari del pari e ai Picciotti fu imposto il più assoluto e rigoroso silenzio durante la marcia, e gravi pene vennero comminate ai trasgressori d’un ordine in sé stesso sì vantaggioso e sì giusto. Garibaldi voleva portarsi in tutta secretezza sotto le mura della capitale e. senza risvegliare il minimo allarme, sorprendere i Regii non apparecchiati a pugnare e a resistere. L’esito dell’intiera campagna poteva interamente dipendere dalla condotta che i volontari avrebbero quella notte saputo tenere. Al Generale pareva la vittoria ben facile se perveniva a gettare la confusione nel presidio borbonico colla rapidità delle mosse e colla sorpresa di un assalto inopinato e notturno. In guerra tutte le circostanze possono essere o divenir favorevoli; ed un abile generale sa trar partito del terror de’ pernici quanto del coraggio de’ suoi. Ma la fortuna, che pure talvolta si ostina a condurre a suo modo le cose, altrimenti avea divisato. Essa non volle che i nostri eseguissero la marcia cosi chetamente, siccome il Generale avea divisato, né che i Regii, sorpresi nel sonno, potessero io certo modo scusare la disfatta del giorno vegnente. E forse fu meglio pei nostri: giacché si doveva rompere il nemico, assai più valeva, malgrado la previsione di Garibaldi, sconfiggerlo in aperta campagna che nell’interno di una vasta città.

XVIII.— Per tal modo, disposte le cosce dati gli ordini opportuni ai singoli comandanti ed alle squadre, l’armata si ripose nuovamente in cammino. L’oscurità della notte era grande, il silenzio profondo: non uomini ma spettri senza senso né voce parevano disegnarsi nell’aria e passare per la quieta campagna. I volontari camminavano in punta de’ piedi e colla massima precauzione affine di evitare il più lieve rumore che potesse iradire la loro presenza. Le tenebre coprivano i loro atti ed i gesti e l’energica espressione de’ loro lineamenti: tuttavia se un raggio di luce fosse in quell’istante disceso su quelle faccie abbronzite dall’aria e dal sole, ciascuno avrebbe potuto leggervi la certezza del prossimo trionfo. Precedevano le guide sotto il comando di Tuckery: venivano in appresso i Siciliani e seguivali l’esercito intiero. Però la marcia progrediva lentamente poiché tale era l’ordine di Garibaldi: egli voleva giungere dinanzi a Palermo non prima dell’alba, l’ora in cui, secondo tutte le probabilità, avrebbe potuto sorprendere i Regii immersi in profondissimo sonno.

XIX. —Né gli aneddoti comici del tutto mancarono in quel romantico e fortunato viaggio. Già da oltre due ore i volontari marciavano silenziosi e tranquilli, quando s’udi lo scalpitare improvviso di alcuni cavalli che sembravano venir da Palermo e che a tutta corsa più e più s’appressavano. Dalla fronte della colonna s’intese un grido angoscioso e sommesso: — «In guardia! La cavalleria!» — e niuno più seppe chi avesse pel primo proferito quel grido. In un lampo l’allarme si propagò per tutte le lite, e vi sparse una costernazione universale. È incredibile l’effetto che produsse quella singola voce. I militi furono invasi da un timor panico cosi comune e si strano che, rotti gli ordini e sciolto ogni ritegno, senza volere ascoltare più nulla, si diedero a precipitosa fuga per le circostanti campagne. La confusione, la pressa fu estrema: lo spavento era troppo generale perché gli ufficiali potessero porvi riparo: anzi alcuni eziandio tra questi, colti dalla stessa vertigine, vennero trascinati dall’esempio dei compagni e con essi fuggirono. In un attimo non rimase sulla strada più alcuno: dei militi altri s’erano appiattati dietro gli alberi, nei boschetti o nei fossi, altri correvano sgomentati per la campagna senza punto guardarsi all’indietro e sapere perché e qual cosa fuggissero. Alla fine comparve Garibaldi a cavallo accompagnato dal suo Stato Maggiore: e le cose erano infatti pervenute ad un punto che la presenza del Generale solo poteva scongiurar la paura e riparare al disordine. Alla voce dell’amato condottiero i fuggiti accorrevano a frotte a raggiungere il posto che avevano cotante vilmente lasciato, vergognosi di sé e della presa paura. Lo strano avvenimento apportò non per tanto non lieve ritardo; più di un’ora e mezzo ci volle prima che i militi si trovassero di nuovo raccolti e pronti a marciare in avanti.

XX.— Cagione dello strano avvenimento furono due soli cavalli che sbrigliati ed abbandonati correvano sullo stradale nella direzione di Termini. D’onde realmente venissero od a chi appartenessero non è facil cosa chiarirlo. Alcuni vogliono che fosse una pattuglia borbonica, spedita da Palermo a perlustrare la strada, la quale, accortasi della presenza de’ nostri e credutasi circondata e perduta, avesse abbandonato i cavalli per fuggire inosservata e nascondersi nei campi vicini. Altri pretendono che fossero due guide dei nostri mandate esse pure a battere lo stradale alla testa della colonna, le quali, essendo per supposte cagioni smontate, avessero assicurati i cavalli a qualche cespuglio, e che questi, per caso discioltisi e vistisi liberi, fossero corsi a raggiungere il corpo. Ambedue queste ipotesi paiono ciò non per tanto paradossali egualmente ed inverosimili. Se una pattuglia napoletana avesse stimato trovarsi di fronte al nemico, è ella cosa credibile che, abbandonando i cavalli sui quali poteva porsi più prontamente in salvo, preferisse a piedi sottrarsi al soprastante pericolo, a rischio pur anco di trovarsi avviluppata più presto. Se i due cavalli fossero appartenuti alle nostre guide non era egli facile accertarsi chi di esse, ed eran ben poche li avesse perduti? Le circostanze del fatto rimasero e sono ancora un mistero; sola verità è lo strano, ingiustificabile spavento da cui i Garibaldini si lasciarono cogliere.

XXI.— Per tal modo in guerra un caso fortuito, una circostanza impreveduta, imprevedibile. un nonnulla basta a rovesciare i piani più arditi ed a sconcertare i più ben tracciati disegni. Ninno dubiterà del coraggio, spinto sovente alla temerità, di quei militi avvezzi a combattere, non a contare, i nemici, e ad affrontare audacemente tutti i pericoli della terra e del mare. I vincitori di Calatafimi e di Parco sono superiori alle prove ed allo stesso sospetto. Eppure quegli arditi argonauti, che non esitarono a fronte di verun più imminente rischio, si lasciarono istantaneamente sgomentare da una parola, da un’ombra, da un nulla! Mezzo squadrone di cavalleria avrebbe in quel momento bastato a porli in una rotta completa, a cangiare intieramente i destini dell’Isola ed a ribadire sul collo ai Siciliani, forse per sempre, le catene borboniche. Quest’aneddoto, così scandaloso e cotanto originale ad un tempo, diede luogo ad infiniti commenti e riflessioni: ed i militi, riandando gli avvenimenti di quella gloriosa campagna, talvolta ne parlano come d’un brutto e stoltissimo sogno, e ridono della cieca credulità e della vana loro paura (64).

XXII.— Il ritardo cagionato dallo stolto accidente, lungi dall’apportare all’armata italiana alcun danno, oltremodo le riuscì favorevole. Le due ore perdute a raggranellar gli sbandati concorsero a completar la vittoria del seguente mattino. Garibaldi sarebbe giunto a Palermo assai prima dell’ora stabilita e non avrebbe avuto il suo piano che per metà esecuzione.

XXIII.— Il rimanente della notte passò senza che verun altro accidente venisse a turbare la calma uniformità della marcia. I Garibaldini s’avanzavano sul grande stradale circondato da vasti giardini e villeggiature superbe, estiva e doviziosa dimora della nobiltà siciliana. A mano a mano che alla capitale avvicinavansi, sparivano quelle tracce di incolta selvatichezza che a si gran parte dell’isola dà un aspetto cotanto malinconico e triste. Al pallido baglior delle stelle i volontari osservavano gì immensi edificii e i parchi sontuosi che di quel suolo fanno un paradiso di voluttà e di delizie. La Sicilia sarebbe il giardino d’Italia se la tirannia secolare dei Borboni non l’avesse coperta di rovine e miserie.

XXIV.— A tre ore del mattino 27 maggio i volontari arrivarono davanti a Palermo: era l’istante da Garibaldi fissato per dare l’assalto. Prima l’avanguardia composta di sole quattordici guide con Tuckery precorreva sullo stradale l’esercito; venivano appresso i Picciotti in numero di due mila condotti da La Masa, e da ultimo le rimanenti compagnie comandate da Bixio. Garibaldi col suo Stato Maggiore marciava nel centro.

XXV.— I Regii per contro stavano accampati nella città e disposti in due grandi divisioni, delle quali una occupava il Palazzo Reale ed il sobborgo di Porta Nuova, e l’altra teneva la spiaggia del mare e le fortezze che guardano il porto. I loro avvamposti occupavano i mulini al bivio della Scaffa, nel punto denominato le Teste a poche centinaia di passi dalle mura discosto.

XXVI.— Malgrado gli ordini di Garibaldi che la marcia e l’attacco dovesse eseguirsi conservando il più rigoroso silenzio, le cose non passarono punto come egli avea decretato. Egli poteva con tare sulla cieca ed esatta obbedienza de’ i suoi veterani, ma non già sulla discrezione dei Picciotti Onesti come si videro davanti alla capitale, persuasi di trovarsi vicini al nemico e sul punto di venire alle mani, fosse entusiasmo o spavento, (giacché ben sovente chi più teme più parla) innalzarono un evviva fragoroso e generale alla Sicilia, a Garibaldi e all’Italia. Quel grido, prorompendo improvviso fra le tenebre, produsse un effetto indescrivibile, e gettò in pari tempo l’allarme tra i volontari e tra i Regii. Il Generale n’ebbe sdegno e sgomento vedendo, nell’istante medesimo della loro applicazione, i suoi disegni sconcertati e delusi. Ma poiché l’allarme era dato né più diveniva possibile sorprendere il nemico al bivacco, diede tosto ordine di marciare all’assalto.

XXVII.— I tamburi e le trombe di sveglia percorrevano intanto la città chiamando ì soldati alla; pugna, ed i Garibaldini ne udivano il rombo come se stato fosse pochi passi soltanto discosto. È impossibile narrare il fragore e il fracasso che da capo a fondo invadeva e riempiva l’intiera Palermo: sembrava che le montagne all’intorno tremassero come nell’infuriare del tremuoto o del turbine. Udivasi il cozzo dell’armi, lo scalpitar de’ cavalli, il cigolio delle ruote, commisto alle barbare fanfare dei musicali istromenti: le grida, le bestemmie e le imprecazioni assordavano Paria, simbolo non fallace di trepidazione suprema e paura. In poco d’ora le colonne borboniche si concentrarono nella parte orientale della città pronte in apparenza a respingere qualunque attacco nemico.

XXVIII.— Gli avamposti napoletani accampati ad un ettometro circa dalla Porta Termini pe’ primi aprirono il fuoco. Tre colpi di fucile contemporaneamente partirono dalle lor file ed incominciarono una lotta che doveva terminare col trionfo della libertà e coll’onta del governo borbonico. Le tre palle fischiarono sul capo dei volontari senza recare alcun danno, ma produssero tra i Picciotti un panico fatale, indicibile. Le truppe comandate dal prode generale La Masa (65) come videro il lampo dell’armi napoletane, quasi scorgessero a sé dinanzi la morte in tutta la sua più orrenda bruttezza e pronta a ghermirli e a mangiarseli, voltarono bravamente le spalle e si diedero precipitosi a fuggire. Invano gli ufficiali supposero: s’adoperarono indarno e colle parole e coi fatti a frenare la cieca moltitudine e ad ispirare nel cuore dei militi più saggi consigli. Lo spavento di sua natura è contagioso: ed una volta ch’egli giunga a penetrare nelle file di un’armata, da capo a fondo la invade, la domina e la trascina ad irreparabile perdita. Se il corpo di Garibaldi stato fosse composto di soli Picciotti, gli accidenti occorsi in quella memorabile notte potevano per due volle aver finita la guerra.

XXIX.— Triste fu quello e doloroso spettacolo. Di tutte le forze comandate dal generale La Masa, ammontanti a non meno di due mila Siciliani, pochissimi restarono saldi ed arditi al lor posto: il rimanente volava fuggendo a traverso le campagne e i giardini e sino al fondo delle montagne e dei boschi. Sbandandosi in simil guisa per tutte le parti, i Picciotti lasciavano scoperti i volontari che stretti in colonna spingevansi avanti. Le compagnie garibaldiane conservarono, è vero, la solita immobilità ed intrepidezza: ma non senza dolore e rammarico potevano esse vedere quel corpo si fiorente e si bello in un attimo disciolto per un nonnulla e disfatto. I militi maravigliando osservavano lo sperpero improvviso che un insano spavento avea fatto dei loro compagni.

XX.— Due mila soldati che fuggono davanti al nemico non possono meno che cagionare qualche disordine eziandio tra le file di coloro a cui è ignoto ogni sentimento di tema. La fronte dei Garibaldini si risentì, malgrado la nota loro intrepidezza e bravura, del contraccolpo apportato dalla confusione degli insorti: ma tosto si rimisero e progredirono oltre. In quell’istante Nino Bixio, precorrendo la colonna e ripieno d’indegnazione e furore, raggiunse il prode La Masa e lo apostrofò vivamente rimproverandolo della condotta de’ suoi. Bixio poteva aver torto o ragione: ma per quanto un comandante sia coraggioso ed intrepido, se i suoi soldati, non altro ascoltando che il proprio spavento, si pongono in fuga, in qual modo potrebb’egli trattenerli, frenarli? A che gli serve in tal caso l’intrepidezza e il personale coraggio? Un corpo, un’armata, può talvolta, assalita da timor panico, vilmente sbandarsi e il comandante non avervi la menoma colpa (66).

XXI.— Mentre nel campo italiano tai cose accadevano, i Regii, sebbene tenessero una vantaggiosa posizione sul grande stradale, non osarono più oltre fermarvisi, e si ritrassero sopra. Palermo. Non valendo nel buio della notte (l’alba appena allora spuntava) a distinguere chiaramente gli oggetti, eglino presero forse lo strepito cagionato dalla fuga dei Picciotti pel rumore che sempre sollevano i movimenti di un’armata la quale si disponga all’attacco. Forse credettero che tutto ciò non fosse se non uno de’ soliti stratagemmi adoperati da Garibaldi per trarli in qualche agguato od insidia Per tutte queste ragioni e per l’impettr con cui si sentivano incalzati dalle guide di Tuckery, delle quali non ¡scorgevano né la disposizione né il numero, stimarono partito migliore voltare le spalle essi pure e ripararsi in Città. In poco d’ora lo stradale e la campagna del tutto sgombrata rimase dalle truppe borboniche, le quali si concentrarono sul ponte dell’Ammiragliato alle porte medesime della capitale e dietro le mura.

XXII. —Le guide frattanto, disposte in catena, avanzavansi, prendendo di mira la Porta Termini, punto da Garibaldi preventivamente fissato pel prossimo assalto. I volontari in tal guisa tenevano la strada e gli adiacenti giardini e dominavano a destra ed a sinistra la campagna dalle rive del golfo alle falde dei colli che cingono Pagro palermitano: di fronte la città, ed a tergo sorgevano le vaste e selvose montagne di Gibilrossa e di Termini. Un ruscello o torrente, che, scendendo dai gioghi dei monti, traversa la pianura da mezzo giorno a settentrione, e lambendo per lungo tratto le mura sbocca nel prossimo golfo, divideva ornai solo i due eserciti. Il ponte dell’Ammiragliato, congiungendo le due rive del suddetto ruscello e la città alla campagna, stava per divenire il teatro d’una terribile lotta. Era quello il punto più avanzato delle posizioni dei Regii i quali aveanlo munito di artiglieria e rinforzato da grossa mano di cacciatori e cavalli. L’Importanza del luogo a prima vista appariva grandissima, e quindi Italiani e Borbonici si apparecchiavano, i primi ad espugnarlo e gli altri a difenderlo.

XXIII.— li corpo delle guide marciava frattanto silenzioso all’assalto. Ma bentosto, spazzando il nemico la strada con un fuoco vigoroso e continuo, dovettero ripiegare a destra e a sinistra camminando a carponi dietro gli alberi e rasente le muraglie degli orti e giardini. La tempesta delle palle borboniche grandinava sì spessa e sì rapida che non uno dei quattordici militi sarebbe incolume arrivato sul ponte, se avessero dovuto seguire il battuto stradale. A forza di stenti e con audacia inaudita que’ bravi raggiunsero le rive del sovradescritto ruscello; ed allora, precipitandosi nel suo letto ed alla meglio coprendosi cogli svolti degli argini, s’avvicinarono, lentamente ma con passo continuato, sui fianchi dei Regii. In tal guisa pervenuti a mezzo tiro di fucile dal ponte le guide aprirono il fuoco bersagliando con bene aggiustati colpi il nemico.

XXIV.— Attaccati i Borboniani sui fianchi, dove e quando meno il credevano, incominciavano a lasciarsi guadagnare da quel fatale terrore che il nome di Garibaldi e la presenza dei volontari avea loro mai sempre ispirato. In questo mentre sopraggiungevano i Carabinieri di Genova, e dietro questi l’intiero corpo di Bixio, ed entravano tosto in battaglia. Invano un legno borbonico ancorato nel golfo vicino tempestavali con colpi a mitraglia: eglino progredivano audaci e sicuri come se, non ad una lotta disuguale ma, si recassero ad una festa da ballo. Bixio. Tuckery e Mosto, ciascuno alla testa della propria compagnia e fra i più esposti alla tempesta nemica, animavano i militi colla voce, coll’esempio e col gesto. La resistenza opposta dai Napoletani fu vigorosa; ma finalmente assaliti di fronte ed ai lati da uomini risoluti ed intrepidi, e pronti piuttosto a morire che a cedere, si videro finalmente costretti ad abbandonare il ponte e la Porta ed a ritirarsi in città. I Garibaldini se ne impadronirono tosto a passo di carica, e con questa insigne vittoria alle ore sei del mattino 27 maggio 1860, pervennero a metter piede nella capitale dell’Isola.

XXV.— Rincacciati e respinti da tutte le parti, i Borboniani lasciarono in pari tempo le mura e si raccolsero dietro una gigantesca barricata, che avevano di già costrutta nell’interno della città per contro la Porta perduta. Era questa difesa da una formidabile batteria ed inoltre vi si trovava raccolto il fiore delle truppe nemiche. Né i Garibaldini perciò si arrestarono, ma ripreso fiato, ben tosto volarono ad affrontare i fuggiaschi sin dietro quell’ultimo loro riparo. Fu ostinata e micidiale la zuffa: entrambi i lati soffersero gravissime perdite di morti e feriti, ma infine il valore e l’audacia prevalsero sulla disciplina e sul numero. I volontari, strisciando sul suolo o rasentando le case, tuttoché decimati da un orribile fuoco, pervenirono ai piedi della barricata e piantarono in faccia al maravigliato nemico il vessillo italiano Lo sventolar della patria bandiera, e sopra lutto il luccicare delle fatali baionette dei nostri, produsse sugli animi dei Regii un magico, indescrivibile effetto. In quel mentre il grosso dei Garibaldini, io colonna serrata ed a corsa slanciandosi, vittorioso comparve davanti ai Regii atterriti. Allora la difesa divenne impossibile: i soldati, rotte le die, voltarono il tergo, fuggendo ciascuno da quella parte ove la paura gli additava una via di salvezza. Fu un salva chi può generale e lo spavento estremo e il disordine: il terreno apparve poco stante coperto di sacchi, di giberne e fucili, che i nemici aveano gettati per essere più pronti e spediti alla fuga. Ed i Garibaldini inseguendoli colle baionette alle reni penetrarono, senza incontrare più oltre la faccia d’un solo nemico, sino all’interno della espugnata città (67).

XXVI.— Alcuni scrissero che i cittadini di Palermo, ali appressarsi dell’armata liberatrice, insorgendo in massa ed assaltando il nemico alle spalle, avessero potentemente contribuito, e grandemente agevolato, la via alla vittoria del Generale italiano. Si parlò di barricate già erette in tutti i quartieri della capitale, d’innumerevoli schiere di popolani che parteciparono ai pericoli ed alla gloria di quel memorabile giorno, e si pretese pur anche che i volontari ebbero solo a mostrarsi per entrare trionfanti a Palermo. Nulla è meno vero di ciò: non solo i cittadini non cooperarono al combattimento, che pure doveva deridere dei loro destini, ma rannicchiati nelle proprie dimore non ardirono nemmeno mostrarsi elle strade od affacciarsi alle loro finestre. I Garibaldini percorsero gran tratto di Palermo come fosse un deserto, né anima nata incontrarono al di fuori dei soldati borbonici, o fuggiaschi e battuti o schierati a combatterli. Quantunque coperti di sudore e di polvere, ed arsi da sete intensissima, non trovarono un solo palermitano che loro offrisse un bicchiere soltanto d’acqua o di vino. Le porte e le finestre stettero per tutto quel giorno ermeticamente chiuse: né preghiere né minaccie valsero ad indurre gli abitanti a mostrare la faccia (68).

XXVII.— Ed intanto che faceva quel comitato si attivo che tanto rumore aveva levato co’ suoi cento indirizzi e proclami inseriti su tutti i giornali? Eppure pochi giorni prima aveva fatto il suo ultimo sforzo dichiarando essere non più di parole ma tempo d’azione ed esortando i cittadini ad apparecchiarsi all’imminente conflitto. Quei signori che vantavano i mille prodigi operati e pretendevano formare e dirigere l’opinione del popolo, non seppero o non vollero, nel giorno dei fatti, dirigere una schiera d’armati. Forse in quel punto, stretti in tenebroso consiglio, stavano consultando sui mezzi di afferrare i frantumi di quella potenza che la fuggente tirannide lasciava senza padrone.

XXVIII.— Non è a dire lo stupore e l’indignazióne dei nostri al cospetto di tanta indolenza, freddezza o paura. Avevano eglino contata sul concorso del popolo, sulla potenza espansiva dell’insurrezione e su tutti i mezzi che può dare una città determinata a finirla coll’oppressore Borbonico ed apparecchiata da lunga mano alla lotta suprema: ed al contrario non udirono grido che li animasse, né videro anima pietosa che movesse soltanto a soccorrere i compagni moribondi e feriti. Invasi da giusto sdegno i Garibaldini ruppero in varii luoghi le porte delle abitazioni per impadronirsi degli oggetti necessarii a costruire da sé ed a sostenere le barricate. In poco d’ora lo spazio da’ nostri acquistato e percorso, apparve munito di sufficienti difese da poter impedire il passo alla nemica cavalleria, della quale, più che d’ogn’altra cosa temevasi.

XXIX.— Mentre tai cose in Palermo accadevano, un avvenimento di non lieve importanza avea luogo fuori delle mura a poche centinaia di metri dalla Porta per cui erano i nostri entrati in Palermo. Di buon mattino, al primo allarme, il generale residente a Porta Nuova avea spinto per la via di circonvallazione le sue truppe verso Sant’Antonino per congiungersi a’ suoi che difendevano da quella parte le mura contro l’irrompente avversario. Ma giunto di fronte al Bastione denominato di Castro, laddove una muraglia gli offriva la possibilità di coprirsi, credette opportuno arrestare il suo corso e proteggere quella posizione che nessuno in allora pensava ad attaccare. I Regii disposero per tanto una batteria sulla stessa strada di circonvallazione guardante alla Porta Termini, schierarono le truppe di fronte e misero in agguato sotto la muraglia di un giardino il reggimento di cavalleria che seco aveano condotto. In tal guisa ordinati stavano attendendo l’assalto, sempre, a quanto sembra, nella speranza che nessuno sarebbe venuto ad incontrarli.

LX.— Ma la fortuna che si compiace sovente ad attraversare i consigli degli uomini, aveva tutto disposto perché non rimanessero in si oziosa e codarda inazione. Alcuni de’ Picciotti, clw ai primi colpi di fucile sperano dati stoltamente a fuggire, stavano per l’appunto appiattati nel giardino medesimo, al di fuori del quale allora trovavansi i Regii schierati. Un Siciliano (per caso od attiratovi dal rumore del nemico), salito sul muro del giardino scoperse la cavalleria napoletana e più lungi i cannoni e le truppe di già allineate. Il bravo picciotto ne die’ tosto l’avviso ai compagni, i quali, dimentichi della primitiva paura e ripreso coraggio, credettero con un colpo di mano riparare lo sproposito della insana lor fuga. La cavalleria borboniana, inaspettatamente percossa da forse cinquanta colpi di fucile, fu presa alla sua volta da tale spavento che senza cercare più oltre, rotte le file, fuggi disordinata in Palermo.

XLI.— L’artiglieria e la linea, malgrado l’esempio dei loro compagni, stettero ferme al loro posto e risposero con un fuoco vivissimo al tempestar dei Picciotti, i quali, protetti com’erano dalla muraglia e dalle piante del giardino, continuavano a batterli. I Garibaldini frattanto, udendo il tuonar del cannone alla estrema loro sinistra, si affrettarono a recarsi sul luogo per contenere i Borboniani che si temeva venissero da quella parte ad urtarli di fianco. Quivi i Regii opposero valida resistenza a tutti gli sforzi dei nostri la posizione non venne forzata che ad ora assai tarda e quando Garibaldi era gli padrone di una porta e di buona parte della città.

XLII.— In Oriente spuntava già il sole allagando in un torrente di luce Paria, la terra ed il mare. I Garibaldini, per la maggior parte già entrati in Palermo, potevano guardarsi all’intorno, calcolare i vantaggi ed i pericoli della situazione e porre a confronto quanto s’avea guadagnato e quanto s’era perduto. La vittoria ottenuta era grande, ma dolorosi costava e sacrificii gravissimi. Eglino avevano a lamentare la morte di parecchi loro fratelli gloriosamente pugnando caduti, il cui sangue tuttavia fumava sui bivii della città che Pastro del giorno, dopo due lustri di lutti e di lagrime, già risalutava redenta. Misurando col pensiero il cammino percorso, quei prodi ben potevano inorgoglirsi e gloriarsi, ma la grand’opera, comecché condotta a buon termine, non era per anco compita. Né Garibaldi era tale da lasciarsi sfuggir la fortuna ch’egli teneva già pe’ capegli: e quindi raccolti i suoi militi e schieratili in colonne li diresse sui punti dove il bisogno chiamavali.

XLIII.— I Napoletani in quel mentre ricovravansi nell’interno della città, occupando i pubblici stabilimenti e le caserme di già munite ed apparecchiate a resistere. A destra tenevano il forte Galita, l’antico castello di Abderamo, situato in una vantaggiosa posizione sulle rive del mare, ed à sinistra la contrada di Porta Nuova, la vicina Caserma, il Palazzo Reale e gli edificii contigui. II maresciallo di campo Ferdinando Lanza (69) risiedeva col suo Quartier generale nel forte, e di là emanava i suoi ordini e dirigeva l’armata borbonica. Pare che sulle prime egli nutrisse il progetto di avviluppare i Garibaldini nel centro medesimo della occupata città e di stringerli in una rete di punti fortificati da batterie e da trincierei se non che il valore e l’audacia dei mille bastò in poco d’ora a sventare i suoi piani ed a rendere vani tutti gli sforzi. Il disegno stesso di Lanza contribuì solamente ad accelerare ed a compire la disfatta de’ suoi.

XLIV.— Non lungi dalla contrada Macqueda, per la quale penetravano i nostri in Palermo, giace la bella caserma di Santo Antonino, una delle più vaste, comode e meglio costrutte dell’Isola. Colà si trovava, siccome in luogo munito e securo, raccolto grosso nerbo di truppe borboniche in atteggiamento provocante ed ostile. Garibaldi che non voleva avventurarsi più oltre e lasciarsi alle spalle quel covo di barbari, diede ordine che la caserma venisse assalita ed a viva forza espugnata. Il che fu sull’istante eseguito: con tale impeto si portarono i volontari all’assalto che i Regii smarriti al cospetto del loro coraggio la cedettero dopo poche scariche, quasi senza combatiere. E Garibaldi, assicuratesi in tal guisa le spalle, potè rivolgere il pensiero al tanto sospirato Quadrivio.

XLV.— Un forte distaccamento di Regii, dopo la rotta subita in Macqueda, ritiratosi per la via Calderari si appostava e fortificava infrattanto nel Quartiere di Ferravecchia. E siccome pareva determinato a tenere quel vantaggiosissimo posto, dal quale potevasi offendere e bersagliare i volontari nella marcia loro sul centro, i Carabinieri di Genova vennero distaccati e mandati a snidarnelo. I Napoletani combatterono accanitamente, forse assai più di quanto si sarebbe aspettalo, ma dopo una lotta ostinata e sanguinosa di circa mezz’ora, assaliti alla baionetta si misero disordinatamente a fuggire e si dispersero per le adiacenti contrade.

XLVI.— Liberatosi ai fianchi ed a tergo Garibaldi procedeva in avanti. Lo spazio occupato dai nostri allargavasi a misura che si avvicinavano al Quadrivio centrale, piccola piazza, altrimenti denominata dei Quattro Cantoni o Vigliena. Il Quadrivio è formato dall’incrociamento delle due strade principali che tagliano in linea retta Palermo in tutta la sua lunghezza e larghezza. La prima, la magnifica contrada Toledo, percorrendo dal nord al meriggio, congiunge le fortezze ed il porto al Palazzo Reale: la seconda, nella direzione di levante a ponente riunisce le Porte di Santo Antonino e Macqueda (70). Per tal modo il Quadrivio, o vogliasi in riguardo alla difesa od all’attacco, presentava la stessa ed immensa importanza, come quello che domina le comunicazioni dell’intiera città. E Garibaldi al primo colpo d’occhio comprese che una volta signore d’una posizione si eccellente e centrale avrebbe avuto in sua mano i destini della capitale e dell’Isola.

XLVII.— Battuti e respinti da tutte le parti i Napoletani si ritirarono a destra ed a sinistra in disordine. Gli ufficiali adoperavano indarno le esortazioni e le minaccie per cacciarli in avanti: la paura parlava più forte di tutto. Ben tosto don Lanza s’avvide d’aver a fare con un avversario invincibile: e poiché tutti gli sforzi riescirono infruttuosi ad arrestare la marcia dei Garibaldini ricorse all’estremo spediente di bombardare la città che avrebbe dovuto proteggere. Il bombardamento incominciava alle ore otto del mattino e continuava per tutto il giorno sino a notte avanzata. Poco stante Palermo fu involta in un globo di fiamme: le bombe dei Regii cagionarono incredibili guasti senza che la causa borbonica ne ottenesse il più lieve vantaggio.

XLVIII.— Sotto la pioggia dei proiettili i volontari avanzarono audaci ed intrepidi, combattendo e fugando ogni dove l’atterrito nemico. Il palazzo dell’Arcivescovado fu a viva forza espugnato e dopo non breve contesa eziandio fu preso il Quadrivio. A mezzogiorno Garibaldi pose il suo Quartiere generale al Palazzo Pretorio, e la bandiera italiana sventolò sulla torre della cattedrale e sugl’interni edificii.

XLIX.— Per tal modo la città si divideva in tre parti. A settentrione ed a mezzogiorno, dal castello sul mare e dal Palazzo Reale di Porta Nuova i Borboniani continuavano una lotta disperata e cruenta. I Garibaldini per contro occupavano il centro e quel raggio che si stende dalla Piazza Vigliena alle porte Antoniana e di Termini. L’esercito regio, in numerosi distaccamenti distribuito, occupava la parte occidentale della città e manteneva le sue comunicazioni girando la porta Macqueda. Questo vasto e popoloso quartiere, già formante l’antica Palermo, poteva diventare la base delle operazioni borboniche e seriamente compromettere la sicurezza dell’armata italiana. L’irregolarità e la tortuosità de’ suoi vicoli offriva una maravigliosa facilità di difesa: le case che li fiancheggiavano mirabilmente prestavansi a favorire chi n’era il padrone. Né tali circostanze sfuggivano all’oculata vigilanza del generale: incontanente dai nostri si presero le opportune misure per insignorirsi della vasta contrada Macqueda, snidandovi i Regii, prima che questi potessero fortificarvisi, e rompendone in tal guisa le loro comunicazioni e la linea. Era intenzione di Garibaldi di frapporsi colle vittoriose sue schiere tra le due grandi divisioni nemiche, e di batterle separatamente e sconfiggerle quando e nel modo che le circostanze lo avrebbero meglio consigliato. I Garibaldini progredivano sempre con moto lento ed uniforme verso l’occaso: e, malgrado la pii viva resistenza dei Napoletani continuamente guadagnando terreno, pervenivano ad occupare le posizioni che il Generale aveva loro indicate. Per tale maniera, e dopo quindici ore d’un fuoco incessante i volontari, padroni delle porte Termini, Antoniana e Macqueda e dell’importantissimo Quadrivio centrale, dominavano da levante a ponente l’intiera Palermo, ed il disegno del generale Garibaldi otteneva la sua piena esecuzione.

L.— Sul far della notte la città presentava uno strano ed imponente spettacolo. Era sereno il cielo ed i venti all’intorno tacevano: ma quanto la natura pareva più tranquilla e più quieta, altrettanto s’affannavano gli uomini a funestarne il giulivo sembiante ed a coprirla di strage e rovine. Né col giorno terminava la furia che trasse due eserciti fratelli a sgozzarsi reciprocamente ed a distruggersi. Il bombardamento dal Castello e dai legni del Porto aveva, col cader delle tenebre, ripreso vigore: miriadi di proiettili solcavano l’aria guizzando ed avviluppando in un torrente di luce spaventosa e sinistra la vasta città di Palermo. Lo scoppio continuato delle bombe, il tuonar dei cannoni ed il fragore della moschetteria, dei tamburi e degli altri militari istrumenti, formavano uno strano concerto, un curioso e spaventevole unisono. La terra pareva tremare sotto i piedi dei combattenti i colli all’intorno muggivano, e la città presentava in quegl’istanti supremi l’immagine di un cataclisma universale e terribile, l’aspetto della distruzione e del caos.

LI.— Cosi passava il giorno delle Pentecoste. Ma Garibaldi, sebbene coll’animo intieramente rivolto alle operazioni guerresche, non dimenticava la missione politica che s’era nell’Isola assunto. Bisognava anzi tutto sventare le soventi ripetute calunnie colle quali i generali borbonici cercato avevano deturpare la fama e gl’intendimenti dei volontari: calunnie che, sebbene non credute, potevano nullameno esercitare una sinistra influenza sugli animi deboli ed irresoluti di buona parte del popolo. Inoltre era mestieri instillare ne’ petti quella possente fiducia che manca si spesso all’applicazione dei nuovi sistemi ed all’attuazione di idee politiche non per anco generalizzate e comuni. La necessità imponeva di mostrare la bandiera, il principio per cui combattevasi e che si dichiarasse apertamente quale era l’ordine di cose che si volea inaugurare sulle rovine del vecchio dominio borbonico. In conseguenza di ciò lo stesso giorno 27 maggio comparve un proclama di Garibaldi agli abitanti di Palermo, col quale si pose la prima base della politica dittatoriale e si chiamavano i Siciliani a stringersi intorno al trono di Vittorio Emanuele rappresentante l’idea dell’indipendenza e dell’unificazione italiana (71).

LII.— La notte successiva 2728 maggio passò in continui sussulti ed allarmi. Il presidio o la flotta continuavano sino ad ora assai tarda a rovesciare sulla perduta città una tempesta di bombe e di palle. Dall’altro canto le truppe napoletane appostate al Palazzo Reale ed a Porta Nuova bersagliavano senza posa la via di Toledo e le contrade adiacenti. I Garibaldini per contro rispondeano di rado alle provocazioni borboniche; eglino preferivano serbare a tempo migliore le scarse munizioni ed il coraggio: trincierati dietro le barricate o bivaccando nelle strade minacciosamente aspettavano il giorno vicino a ripigliare l’attacco.

LUI.— Non si tosto il primo albore sull’orizzonte comparve le artiglierie della flotta e dei forti riaprirono il fuoco con vigore crescente; e poco stante il combattimento si riaccese da ambe le parti micidiale e terribile. I volontari, inorgogliti de’ loro trionfi, audacemente avanzavano verso il settentrione ed in pari tempo verso il meriggio, attaccando le caserme ed i forti ai due lati estremi della città. I Regii all’opposto, ancorché senza paragone superiori di numero, smagati e divisi, abbandonando ogni pensiero di vittoria rimanevano sulla stretta difesa. Appiattati dietro le fortificazioni che avevano erette durante la notte, né desideravano né potevano forse avventurarsi in un combattimento di piazza che già prevedeano fatale.

LIV. — In tali circostanze un nuovo avvenimento aveva luogo in Palermo. I Picciotti di La Masa che sperano il giorno precedente sbandati ai primi scoppi del fucile borbonico, ripreso coraggio,si avvicinarono la stessa mattina del 28 alla città dove penetrarono agevolmente e raggiunsero i loro commilitoni. Erano due mila insorti che venivano a rinfrescare una battaglia per metà guadagnata. Il concorso di queste forze, oltreché per sé stesso importante, apportava un altro, non men significante, vantaggio ai volontari. Fino a quel punto i cittadini di Palermo avevano tenuto un contegno tutt’altro che rivoluzionario ed italiano, un contegno assolutamente neutrale ed inerte, sia che diffidassero dell’esito, sia che temessero esporre alle tremende rappresaglie borboniche le famiglie loro e sé stessi. Ma dall’istante che i Picciotti entrarono in città le cose cangiaron d’aspetto. Come i palermitani udirono risuonare l’accento siciliano nelle loro contrade, smesso ogni dubbio e timore, spalancarono le finestre e le porte delle abitazioni precipitandosi fra le braccia degli armati fratelli. Da quel punto non più freddezza non più esitazione: l’esplosione dell’entusiasmo cittadino fu siffattamente generale ed istantanea che in un lampo percorse ed invase la capitale. Non solo gli adulti e la gioventù generosa, ma fino i vecchi e le donne parvero trascinati nel turbine della rivoluzione irrompente.

LV.— Approfittando il Generale di quello slancio di patrio entusiasmo diede le opportune disposizioni pel tracciamento di un sistema di barricate che valesse in ogni caso a proteggere l’interno della città da qualunque irruzione nemica. La moltitudine, come se lo spirito fosse in lei rinnovato, mise mano ai lavori con una alacrità veramente ammirabile. Non pareva più quella Palermo che i volontari all’entrare avevano trovata cupa, silenziosa, atterrita: dopo ventiquattr’ore di combattimento, dopo infiniti danni sofferti, era nella folla rinato il fervor della zuffa, la confidenza nelle patrie sorti e con essa la speranza di prosperi eventi. Da quell’istante l’opera della rivoluzione poteva dirsi consolidata: Garibaldi che fino allora aveva dovuto pensare a combattere, da quel punto trovavasi in situazione di ritenere la battaglia siccome già vinta.

LV1.— Uomini, donne, vecchi e fanciulli s’affaticavano con zelo mirabile alla erezione delle barricate, di cui né più belle né più solide, a detta degli stessi Garibaldini, mai non furono viste. I sontuosi palazzi del ricco siccome le meschine abitazioni del povero fornivano i materiali necessari: tutti mettevano a disposizione del genio militare garibaldino quanto possedevano di attrezzi e di mobili. I carri, le vetture ed i cocchi di gala venivano spinti dagli atrii sulla pubblica strada: le botti, le balle di mercanzie e perfino le scranne ed i banchi delle botteghe e dei fondachi si adoperavano nel patriottico intento. Dalle finestre gettavansi letti e materassi e mobili di gran pregio e valore ed i tappeti ben anco i più costosi e magnifici. Il selciato delle strade smosso a furia di mani, porgeva un’ampia miniera di materiale atto ad assodare le barricate ed a munirle dei voluti terrapieni. In poco d’ora le contrade e le piazze trovavansi ingombre siffattamente e fortificate che l’esercito il più numeroso ed agguerrito male avrebbe voluto penetrarvi senza esporsi a gravissime perdite e forse anche a più serii disastri. La zona occupata dai Garibaldini e dal popolo diveniva in tal guisa una specie di campo trincierato, una vera fortezza difesa e munitissima.

LVII.— Frattanto il cannone tuonava orribilmente e la battaglia ferveva su tutta la linea. 1 volontari potevano dirsi involti in un’atmosfera di fuoco, poiché combattevano al medesimo tempo di fronte, dai lati e da tergo. Il Generale mirava a respingere il nemico nei forti marittimi e contemporaneamente a rovesciarlo contro le mura e le porte meridionali della città. Ciò nulla ostante le caserme, il Palazzo delle Finanze ed il Comando di Piazza, se furono furiosamente assaliti, vennero pur anco validamente difesi. Il frastuono, il fragore era immenso: la polvere delle rovine ed il fuoco degl’incendii cagionali dalle bombe impedivano la vista e ravvolgevano la capitale in una nebbia atra e densissima, in una confusione terribile: pareva giunto per la infelice città l’istante della sua distruzione finale. Eppure non udivasi né un lamento né un gemito, né si scorgeva un sol gesto che accennasse a paura ed a rimpianto. Intieri edificii rovinavano sotto il grandinare delle bombe e sotterrando sotto un monte di macerie gl’infelici abitatori, altri avvampavano minacciando incendiare l’intiera città. In quel frangente cittadini, Picciotti e volontari s’adoperavano di conserva ad impedire od a circoscrivere i danni del bombardamento, a soccorrere i feriti, ad avventarsi sulle file dei Regii. Era una gara sublime di eroismo e prodezza di cui trovasi di rado l’esempio nella storia dei popoli.

LVIII.— Il combattimento incominciato alla punta del giorno durava sino a notte assai tarda, né la lotta era del tutto finita. I vantaggi materiali dai Garibaldini ottenuti il 28, quando paragonali con quelli acquistali la precedente giornata, appaiono insignificanti o ben piccoli. I Regii tenevano tuttavia le fortezze, gran parte del recinto, le caserme, i palazzi e le porte principali della città. Ma dall’altro canto il risultato morale fu decisivo ed immenso: la capitale dell’Isola aveva riconosciuto il nuovo ordine di cose, aveva formatmente aderito alla politica italiana ed era divenuta la sede del governo dittatoriale. Il Palazzo del comune, il centro dell’autorità e della legge, era nelle mani del popolo: il gran suggello Municipale sanzionava e santificava gli atti della nuova amministrazione. I volontari più non potevano considerarsi come una banda senza legge né patria poiché di diritto e di fatto erano divenuti i soldati del paese liberato dal loro valore.

La posizione falsa ed estralegale, da Garibaldi fino a quel giorno tenuta in Sicilia, diventava quella del maresciallo Lanza e del governo borbonico. Inoltre la gran massa della popolazione. insorgendo congiungevasi all’armata italiana e portava sulla bilancia tutto il peso del voto generale del paese. In tali circostanze non era difficile prevedere qual esito avrebbe ottenuto la mortale tenzone che doveva bentosto decidersi nelle vie di Palermo.

LIX.— Un altro e non meno singolare vantaggio i Garibaldini in que’ giorni ottenevano. L’esercito borbonico, ancorché disanimato e perplesso, sino a quel punto serbavasi compatto ed intiero; ma dai sintomi che apparivano già nelle file non si poteva sperare che tale dovesse serbarsi più a lungo. I generali napoletani a forza di calunnie e minacele riuscirono per un tempo a scongiurare le diserzioni e le fughe dei loro soldati. Sin dal principiar della guerra correa tra le truppe napoletane la voce che i volontari ed il popolo irremissibilmente fucilassero quanti disertori e fuggiaschi cadevano in loro potere. Si spargevano i più assurdi racconti di supposte atrocità e barbarie commesse dalle popolazioni sui prigionieri, esagerando con arte infernale lo sdegno del pubblico e dipingendo gli eventi co’ più neri ed odiosi colori. I Regii, ancorché non alieni dall’abbandonare la bandiera reale, erano trattenuti dal timore delle rappresaglie altamente esagerate e che eglino sapevano inoltre avere ben meritate co’ loro eccessi vandalici. Cosicché, mentre da principio l’armata napoletana poteva dirsi unicamente vincolata dalla sete di saccheggio e di sangue, ultimamente appariva tenuta insieme dalla sola influenza d’un cieco e salutare terrore. La coscienza dei proprii misfatti, il ricordo dei massacri di Partinico e Carini e lo spavento delle popolari vendette costituivano oggimai la disciplina che tenevala unita.

LX.— Ma il regno della menzogna doveva finire e la verità tosto o tardi mostrarsi nella piena sua luce. Dopo i primi istanti apparve chiaro che i Garibaldini non erano quegli arrabbiati cannibali che avevasi voluto far credere: quel qualunque contatto che nasce fra due corpi nemici eziandio nel bollor della pugna aveva bastato a dissipare lo stolto romanzo delle crudeltà e delle carneficine che voleansi perpetrate dai nostri. Tutti oggimai conoscevano come i volontari e gl’insorti avessero mai sempre usato verso i prigionieri ed i feriti di una magnanimità che questi eran lungi dall’aver meritato. Particolarmente sapevasi essere stati i feriti l’oggetto speciale ed amorevole del municipio e del popolo: eglino erano stati raccolti e diligentemente curati e soccorsi come se, non campioni d’un governo abborrito, ma fossero stati compagni e fratelli; e ciò mentre le bombe napoletane non risparmiavan nemmeno gli edificii sanitarii sormontati da negra bandiera, asili sacri ed inviolabili dell’umanità sofferente che le nazioni civili rispettano eziandio nelle più stringenti necessità della guerra.

LXI.— Oltrecciò il proclama dittatoriale con cui Garibaldi chiamava i Borboniani a servire, piuttosto che il tiranno, la patria, malgrado lo studio della polizia militare del Lanza ad impedirne la circolazione, correa fra le mani di tutti. In esso proclama il Generale altamente dichiarava far guerra non ai Napoletani ma bensì a Francesco Borbone ch’egli chiamava nemico d’Italia, ed esortava le truppe ad abbondonare l’odiosa bandiera ed a congiungersi ai mille suoi prodi per compir di concerto la rigenerazione della patria. Quel proclama produsse il suo effetto: moltissimi tra i soldati del despota, vergognosi di quanto avevano operalo a vantaggio dell’odiato governo, non altro anelavano che tornare alle case loro o raggiungere l armata liberatrice. Il sentimento della libertà e dell’indipendenza nazionale, soffocato nei lori cuori da una disciplina feroce e dispotica, a poco a poco rinasceva in quelle anime rotte alle crudeltà ed ai vizii: le nobili qualità dell’umana natura ripigliavano il sopravento sulle idee che una pessima educazione aveva instillato nel cuor dei soldati.

LXII.— Per tal guisa, tolto il timore delle rappresaglie popolari che solo tenevala unita, e sollevata ai più nobili sentimenti di libertà e di patria, l’armata borbonica cadeva in piena dissoluzione. Inutile diveniva oggimai rimanere sotto un odioso vessillo quando l’abbandonarlo non presentava pericolo alcuno: folle pensiero quello parca di combattere per una causa cattiva quando invece con più gloria potevasi lottare pei sacri ed imperscrittibili diritti d’Italia. Inoltre i soldati doveano vergognarsi di servire sotto una bandiera contaminata di tanti massacri, dal sangue e dalle lagrime di milioni di vittime.

LXIII.— Cosi tutte l’arti e l’infernale politica dei condottieri borbonici cadevano a vuoto. Avevano eglino da principio, con lo sguinzagliare le feroci passioni dei militi, cercato di sollevare una barriera insormontabile tra l’armata ed il popolo. Fu per loro ordine, od almeno colla loro connivenza, che si perpetrarono le barbare esecuzioni di Carini, di Sferracavallo e della Favorita. Eglino avevano voluto suscitare fra popolo e truppa un odio irreconciliabile che valesse ad impedire ogni intendimento ed accordo. Più tardi. colle arti e colla stessa politica aveano cercato sollevare l’odio medesimo tra i volontari e le truppe. Ma svelate le loro menzogne, l’inganno ridondò intieramente a disonore ed a svantaggio di sé. Diffatti qual poteva essere nell’armata l’autorità ed il prestigio di uomini che non avevano saputo farsi, se non calunniando e mentendo, obbedire? Qual fiducia doveasi nutrire nella parola di chi sapevasi pronto a spacciare le falsità più grossolane e più stolte?

LXIV.— Dopo il mezzogiorno del 28 si manifestarono nell’armata regia i primi sintomi di defezione e sconforto. Intieri drappelli deposero le armi o si unirono ai volontari italiani: alcuni posti avanzati sbandaronsi al primo comparire dei nostri. Nella notte il timore d’una generale diserzione attrasse il pensiero dei capi, i quali studiavansi di sviare una disgrazia divenuta oggimai inevitabile. La scomparsa di pochi drappelli produsse, come sempre accade, uno sgomento universale e terribile: l’incertezza, quindi I? apprensione e da ultimo un panico irresistibile invase tutte le file. Invano i comandanti s’adoperavano a nascondere la trepidazione che dominavali e ad attenuare l’importanza delle loro perdite: i soldati sapeano pur troppo a che tenersi aullé affermazioni dei lor superiori: aveano eglino si spudoratamente mentito che più non poteano trovare credenza.

LXV.— Con tali auspicii comparve l’aurora di martedì 29 maggio. Il combattimento bentosto si accese, come il giorno precedente, su tutta la linea, ma più vivo ed incalzante dal lato dei nostri, più molle e più incerto dal lato dei Regii. Ma durante l’attacco le defezioni aumentavano in progressione geometrica: e tale fu la confusione che ingenerarono, che i condottieri borbonici si trovarono ben presto costretti ad abbandonare gran parte delle posizioni occupate affine di concentrare le forze e rendere in tal guisa ai soldati il fuggire men facile. Il palazzo delle finanze, per due giorni ostinatamente difeso fu cosi abbandonato, oltre le caserme ed i pubblici stabilimenti dai Regii fino a quel punto tenuti nell’interno della città.

LXVI.— Nello stesso tempo le bombe furiosamente piovevano: non era punto in Palermo che non avesse terribilmente sofferto e terribilmente ancor non soffrisse. Numerosi contavansi gli edificii già dati alle fiamme: molti non erano più che un ammasso di ruderi, moltissimi ancora avvampavano. Da una investigazione ulteriore fatta per ordine del governo dittatoriale risulta che non meno di duecento palazzi od abitazioni appartenenti a tutte le classi furono preda del fuoco o del tutto ruinati. il numero delle vittime che perirono pel solo fatto del bombardamento ammonta a qualche migliaio, senza tener calcolo dei combattenti sia volontari od isolani che presero parte alla pugna. I danni cagionati dall’incendio, sia negli edificii pubblici che privati, oltrepassò più milioni di lire. Né perciò parve sazia la rabbia del regio Commissario che pure avea dichiarato esser venuto nell’Isola a proteggere le proprietà e le vite degli abitanti. Da vero Borboniano aveva egli divisato di ridurre la superba capitale in un mucchio di rovine, prima che il più lieve sentimento di umanità penetrasse nel suo cuore di marmo.

LXVII.— Ma finalmente la vista di tali atrocità e disastri sollevò l’indignazione dei comandanti le navi straniere ancorate nel porto e del corpo consolare, già residente in Palermo ed in allora riparato nel forte. Il contr’ammiraglio britannico Mundy prese l’iniziativa, ed assecondato dai capitani dei legni americani, sardi e francesi, fece le più vive rimostranze all’ammiraglio napoletano perché si cessasse una inutile effusione di sangue fraterno. Parimenti i consoli esteri diressero una delle più energiche proteste al regio commissario Lanza perché ornai s’astenesse dal bombardare la città quando ogni speranza di sottometterla era di già svanita e perduta. Per queste ragioni, e per trovarsi, attesa la defezion dei soldati, inabilitato a resister più oltre, il maresciallo borbonico acconsenti ad un abboccamento col Generale italiano per metter fine ad una lotta altrettanto oggimai micidiale che inutile.

LXVIII.— Rimaneva da scegliere il luogo dove l’abboccamento medesimo potesse effettuarsi, senta sollevare contestazioni ed alterchi, e che fosse del pari accessibile ad entrambe le parti. Certamente l’apertura dei negoziati non poteva inaugurarsi al Castello né tampoco nella città ribellata: era a credersi che Garibaldi non avrebbe acconsentito di recarsi da Lanza, né questi di leggieri sarebbesi indotto a discendere al quartier generale dei nostri. Ma il contr’ammiraglio inglese tagliò corto alle quistioni e tolse ad un tratto tutte le difficoltà offerendo la sua nave l’Hannibal, come il luogo più neutrale, più sicuro e più atto, al convegno de’ due generali. L’offerta fu da entrambi accettata: e Garibaldi vestito del suo glorioso uniforme si recò sull’Hannibal dove trovò gl’inviati borbonici che l’aveano colà preceduto.

LXIX.— Il colloquio avvenuto fra l’inviato napoletano ed il Generale nizzardo fu lungo e secreto, e tale poi sempre rimase. Esso ebbe luogo in presenza di Mundv nella camera stessa del contrammiraglio. A bordo soltanto notossi che il discorso era molto animato e già si previde che il tentativo per un accordo reciproco sarebbe fallito. Il risultato fu infatti quello che aspettare poteasi fra principii cosi discordanti ed opposti: ambe le parti lasciarono l’Hannibal senza riuscire ad intendersi. La cronaca narra però con una certa compiacenza che il generale Garibaldi a bordo fa accolto con tutto il rispetto dovuto all’eminente sua posizione, e che nella sua dimora sulla nave britannica fu fatto continuo segno alle ovazioni ed alle simpatie della ufficialità e della ciurma mentre per contro lo sgherro di Francesco Borbone non ebbe ad incontrare che sguardi agghiacciati ed un riservato, benché urbano, contegno, che visibilmente appariva procedere da un sentimento male dissimulato della ripulsione da lui in quel luogo ispirata. Cosi la coscienza delle nazioni civili si vendica del disonore che infligge all’umanità l’odiato governo di un despota.

LXX.— Frattanto Garibaldi ritornava al quartier generale nel Palazzo Pretorio dove i volontarii lo accolsero colle più entusiaste e più vive acclamazioni di giubilo. Colà pervenuto dispose che il popolo si raccogliesse sotto le finestre del palazzo medesimo affine che tutti dalla propria sua bocca potessero conoscere l’esito del colloquio e prendere quelle misure che la gravità del caso ispirava. In un batter d’occhio la piccola piazza e le contrade vicine furono gremite di leste, e Garibaldi comparve alla finestra rivestito dello stesso uniforme con cui s’era recato a bordo del legno britannico. Un silenzio sepolcrale regnava in quella addensata moltitudine: non si udiva respiro, né scorgevasi movimento veruno: tutti stavano ansiosamente attendendo ciò che l’amato condottiero stava loro per dire. — «Siciliani!» dìss’egli con voce potente e tale da esser compreso aino all’opposta estremità della piazza, io mi sono abboccato coll’inviato borbonico affine di allontanare da questa bella città gli orrori di una guerra fraterna. Ma fra le condizioni che il nemico propose ve n’ha una che offende i miei volontari, la volontà nazionale ed i sentimenti patriottici di questo buon popolo; e questa condizione io rigettai con isdegno. Il regio Commissario esige che Palermo ritorni alla dominazione borbonica: se questa condizione vi pare accettabile non avete che a dirlo; siete padroni dei vostri destini: io procurerò nette redazione del trattato assicurarvi tutti i vantaggi possibili. Ma se sdegnate risottomettervi al giogo abbominato, se preferite chiamarvi italiani, all’armi, e coraggio, o fratelli! I mille son là per difendervi, pronti del pari a vincere od a morire con voi!» (72).

LXXI.— Non egli ebbe si tosto’ finito che un grido spontaneo, universale ed immenso, un evviva a Garibaldi e all’itolia proruppe da quella folla entusiasta e compatta. Quel grido, quegli evviva rimbombarono sino nei secreti penetrali del Castello ed annunziarono a Lanza che tutto era oggimai terminato. «Noi vogliamo resistere, noi vogliamo l’Italia, abbasso il Borbone!» Tale fu la solenne risposto del popolo: ed il proseguimento delle ostilità venne in tal guisa, con acclamazioni fragorose ed unanimi, sanzionato e deciso. Quello fu il vero ed il primo plebiscito che inaugurava a Palermo la sospirata unificazione d’Italia: e basta a dissipar le menzogne colle quali il governo di Napoli cercava in appresso persuadere l’Europa che l’insurrezione siciliana fosse, non il risultato delle ingenite convinzioni del popolo, ma opera unicamente di un partito avventuroso ed alla Sicilia straniero.

LXXII.— Queste cose avvenivano dalle dodici alle ore tre pomeridiane del 29. Con tutto ciò, sebbene la guerra già fosse decisa, una sospensione d’armi, tacitamente accettata da entrambe le parti, ebbe luogo pel restante di quella memoranda giornata. Stretto da tutte le parti ed atterrito dalle numerose diserzioni che si verificavano continuamente ne’ suoi, senza fiducia ne’ soldati quanto i soldati diffidavano di lui, incerto, titubante e smarrito, il Commissario napoletano era nell’assoluta impossibilità di riappiccare la zuffa. La dissoluzione delle truppe appariva manifestamente completa: i soldati si sentivan perduti né più sapevano che cosa pensare o risolvere. Sarebbero forse in massa fuggiti se le mura dei forti ed un resto di vergogna non li avessero rattenuti sotto la regia bandiera. In tali circostanze condurli all’assalto sarebbe stato quanto esporli ad una inevitabile rotta. Inoltre al generale borbonico restava alcun che a sperare dal tempo. Sino dall’istante che i Garibaldini comparvero sotto Palermo fu spedito a Bosco un espresso coll’ordine di accorrere a marcia forzata in difesa della minacciata città con tutte le truppe che pazzamente inseguivano nell’interno dell’Isola non altri che l’ombra fantastica del Generale Italiano. Erano oltre due giorni che l’ordine era stato spedito né l’arrivo di Bosco poteva a lungo tardare. Moltissimo Lanza contava sul concorso ch’egli ritener validissimo di quelle truppe fresche ed intiere, non per anco disanimate dagli esempi perniciosi della diserzione e della paura. Egli vedeva soltanto in quel corpo un’ àncora alla propria salvezza; appunto come il disperato sovente s’aggrappa a qualunque più lieve sostegno sperando che basti a sottrarlo dà certa rovina.

LXXIII.— Né Garibaldi perdea la giornata in oziosa noncuranza. Ben egli sospettava che le truppe disperse ad inseguire i ¡volontari nell’Isola dovessero a tutt’uomo marciare alla riscossa di Palermo. Ondecché sollecitava gli apparecchi, per compire la vittoria de’ suoi prima dell’arrivo di Bosco, del quale, più che di tutti gli altri, stava in grande apprensione. Tutto per lui dipendeva dal tempo: poiché, se l’armata di Corleone fosse giunta sul luogo mentre i Garibaldini impegnati trovavansi in una lotta disuguale contro il castello ed i forti, la situazione di Garibaldi poteva farsi assai critica. Era indispensabile quindi terminare l’incominciata battaglia al più presto, e porre Don Lanza nell’assoluta impossibilità di più nuocere, per potere in appresso con tutte le forze rivolgersi contro le schiere di Bosco le quali senza dubbio dovevano frettolosamente avanzarsi. Il Dittatore, a cui non ¡sfuggiva. considerazione veruna di guerra, approfittava di quelle brevi ore di tregua per accordare ai sol dati; un po’ di riposo, reso oggimai necessario dopo tante fatiche, e per dare le disposizioni opportune ad attaccare il susseguente mattino le ultime posizioni dei Regii.

LXXIV.— Nel frattempo le autorità diplomatiche ed i capitani delle navi straniere non cessavano presso Garibaldi e presso il maresciallo ad insistere perché si venisse ad una transazione che fosse ad ambe le parti accettabile. Lanza sulle prime resistea duramente: ma poscia, allarmato dai progressi che le defezioni e lo scoramento faceva tra le file de’ suoi e credendosi vicino ad irreparabile perdita, apparve più mite ed arrendevole. Sulla sera si giunse a fargli adottare le basi per una convenzione puramente militare che pareva dovere essere accetta eziandio al Generale italiano. Questi dal canto suo affrettava, con quella perizia delle cose di guerra che gli è abituale, gli apparecchi pel prossimo assalto, e già ripromette vasi diventare col nuovo sole unico possessore della combattuta città.

LXXV.— Alla punta del giorno i Garibaldini correvano alle armi e si disponevano in linea. Se non che mentre stavano per andare all’assalto un comunicato del corpo consolare invitava il Dittatore a sospendere le operazioni contro il castello fino a conoscere l’esito delle trattative intavolate per ¡stipulare un armistizio durevole. I volontari non volevano sentire di accordi: ma ben altri pensieri nella mente fremeano del lor Generale. Avea egli la notte precedente saputo che le truppe di Bosco a marcia forzata portavansi sopra Palermo: le sue previsioni sperano intieramente avverate. La tregua che gli si proponeva di concluder con Lanza a lui dava facoltà di assalirle isolatamente e respingerle senza punto temere il presidio che lasciavasi a tergo e che la convenzione firmata avrebbe condannato ad assoluta inazione. Né era a dubitare che il generale napoletano avrebbe osato rompere i patti, poiché i consoli esteri per la cui mediazione la tregua sarebbe stata firmata, dovevano considerarsi siccome mallevadori e guardiani della pubblica fede. Non potevasi credere che in caso veruno le autorità diplomatiche avrebbero mai permesso ai comandanti borbonici di rompere un trattato accettato e concluso sulla loro parola. Era dunque saggio consiglio accettare le fatte proposte, tanto più che assicurando con quest’atto il suo proprio e l’interesse comune, Garibaldi fingeva aderire per sola deferenza alle sollecitazioni delle autorità consolari.

LXXVI.— Una tregua di dodici ore fu così convenuta. Ma nel pomeriggio del 30 e nel mattino del 31 maggio gli amici della pace si adoperarono tanto che da entrambe le parti si convenne prolungarla a tre giorni di termine. Essa venne firmata alle ore dodici meridiane, e dovea terminare colle dodici meridiane del 3 successivo giugno. Tosto dopo un proclama dittatoriale affisso sui canti delle vie palermitane annunciava l’armistizio conchiuso, esponeva le ragioni che faceano dettato ed esortava i cittadini a conformar visi. Seguivano quindi gli articoli della convenzione medesima affinché nessuno potesse ingannarsi sul loro valore. Con quest’atto Garibaldi entrava in possesso del Regio Banco, ed otteneva la completa liberazione dell’intera città e dei prigionieri Mosto e Rivalsa (73).

LXXVII.— Cosi Garibaldi trattava col governa borbonico in termini uguali e come da potenza a potenza. Colla convenzione solennemente ratificata il 31 maggio il Commissario Don Lanza riconobbe Implicitamente e legittimò la dittatura garibaldiana Dell’Isola. Garibaldi occupava di fatto e di diritto la capitale della Sicilia, liberata del valore dei suoi e cedutagli dagli antichi dominatori. Egli più non era il filibustiere, il bandito che alla testa d’un drappello l’avventurieri aggiravasi per una terra non sua: egli posava ora legalmente il piede sopra un suolo che gli apparteneva pel diritto di conquista ed in virtù dei trattati. Egli stava in Palermo di fatto, ma vi rappresentava tuttavia l’ordine, la legge, i cardini principali della società e gli attributi del governo che l’avea abbandonata. Da quell’istante nessuno ebbe il diritto di chiedergli dove andasse e donde venisse: egli era il capo del governo popolare, la sola autorità di Palermo. I suoi titoli all’universale rispetto erano i medesimi titoli sui quali il potere sovrano fonda la sua autorità. I mille non erano oggimai i volontari partiti da Genova in traccia di un suolo sconosciuto, eglino divenivano, eziandio legalmente, i soldati dell’esercito di Sicilia.

LXXVIII.— Bosco e le truppe condotte da lui per le vaste montagne di Corleone sulle traccio di Garibaldi avvicinavansi intanto a Palermo in attitudine minacciosa ed ostile. Dal canto dei volontari le disposizioni eran date per assalirle alle finora e vietar loro l’entrata in città. Gli avamposti furono spinti fuor delle porte nell’agro palermitano coll’ordine di tenere avvisato il Generale di quanto accadesse nell’aperta campagna. Nel frattempo i Garibaldini ed il popolo s’adoperarono alacremente a riparar le rovine ed a spegnere i moltissimi incendi che le bombe napoletane avean cagionato. La vista di Palermo in quei giorni ispirava pietà ed orrore: numerosissimi edificio giacevano preda alle fiamme, altri intieramente demoliti ed infiniti mostravano segni visibili della barbarie dei Regii. Nessun punto della vasta capitale andò esente: tutti i quartieri, qual più, qual meno, soffersero. Le dense colonne di fumo che sorgevano tuttavia dalle crollanti rovine erano un monumento terribile lasciato alla memoria del popolo da un governo che stava già per sfasciarsi (74).

LXXIX. Finalmente il primo giugno, secondo giorno dell’armistizio, l’armata di Bosco comparve sotto le mura ed un combattimento rendevasi oggimai inevitabile. Fa tosto significato al generale nemico l’armistizio medesimo conchiuso e notificato dal suo superiore, il maresciallo Don Lanza, ed al quale doveva egli par conformarsi ed obbedire. Ma Bosco, credendosi forte abbastanza a tentare ciò che Lanza non aveva saputo compire, rifiutò, con iscuse mendicate e pretesti, di riconoscere la tregua stipulata e diede ordine ai suoi di apparecchiarsi alla lotta. I Garibaldini inaspriti lo caricarono colla solita furia ed il combattimento poco stante s’accese con nuovo vigore. Soprafatti per un momento dal numero i volontari si schierarono dietro le barricate e le mura: al convento dei Benedettini opposero una resistenza accanita a tutti gli sforzi dei Regii. Bosco aveva seco da otto a diecimila soldati; un numero abbastanza ragguardevole quando paragonato colla piccolezza del corpo garibaldiano. Con tutto ciò non ebbe egli fortuna maggiore di quella che s’ebbero i generali Landi e Lanza e di quella eziandio ch’egli stesso già aveva incontrate sulle alture di Parco e di Piana de’ Greci.

LXXX.— Tosto dopo alcuni corpi napoletani trovando assai più comodo conformarsi alla tregua che battersi, ricisamente negarono di spingersi innanzi malgrado le sollecitazioni e le mimccie degli ufficiali e del comandante supremo. L. ottavo cacciatori, che Bosco aveva sempre condotto con sé e sul quale poteva maggiormente contare, non bastava a sostenere la lotta che già volgevasi a favore dei volontari italiani. Respinto in ogni punto perdette buon tratto di terreno e con esso ogni speranza ed ogni probabilità di vittoria. Di più la notte avvicinavasi ed il generale borbonico si vedeva seriamente minacciato dalla defezione generale de’ suoi corpi qualora egli si fosse ostinalo a riprendere il giorno seguente l’attacco. E nè, quand’anche avesse potuto scongiurar tale pericolo, osava sperare la fortuna a sé favorevole. I Garibaldini gli aveano dato del loro valore prove cosi ripetute e si manifeste che sarebbe stata follia lusingarsi di romperli. Vinto da tali considerazioni e stretto dalla necessità, Bosco giudicò conveniente sottomettersi al destino e riconoscere la tregua firmata dal Lanza. I patti in questa stipulati egualmente si estesero alle truppe da lui comandate le quali alle condizioni medesime posero il loro accampamento nei giardini situati oltre le mura orientali della città, nella campagna suburbana. Da quell’istante il Generale italiano, liberato dal peso della guerra, potè rivolgere la mente al riordinamento interno dell’isola (75).

LXXXI.— Quattro giorni passarono senza che verun nuovo accidente sopraggiungesse a turbare la tranquilla uniformità degli eventi. Napoletani, volontari e Picciotti del pari adempivano le condizioni del trattato con buona fede e disciplina ammirabile. L’armistizio pareva doversi prolungare al di là del termine fisso, poiché né l’una né l’altra parte mostrava troppa fretta a riprendere l’armi. Garibaldi,assorto com’era nelle grandi occupazioni di riordinamento del paese, punto non bramava interrompere i suoi lavori per riassumere una guerra che il nemico parea declinare. Lanza che vedeva le sue schiere giornalmente indebolirsi per numerose diserzioni non poteva pensare ad una lotta che senza dubbio non avrebbe riuscito che a peggiorare le sue condizioni. Cosi due principii contrarii operavano nel medesimo senso: i due antagonisti, mossi da opposte ragioni, combinavano in un solo pensiero, quello di mantenere la tregua conchiusa al di là del suo termine.

LXXXII.— L’armistizio doveva spirare col terzo giorno di giugno. Ma come all’articolo primo della convenzione medesima era stato stipulato che, dopo spirato il tempo, a ripigliare le ostilità si dovesse attendere che il generale in capo spedisse un ufficiale a stabilire di comune consenso il ritorno alle armi, cosi Garibaldi, il cui interesse consigliavalo a prolungare uno stato di cose oltremodo a sé favorevole, non nutriva desiderio veruno di prendere l’iniziativa delle armi. E Lanza, non osando muoversi, aspettava egli pure in silenzio, cosicché la tregua fu per l’assenso d’entrambi tacitamente prolungata a tempo indefinito.

LXXXIII.— L’armistizio, in qualunque maniera e per qualunque ragione prolungato esso fosse, non avrebbe che avvantaggiato grandemente le condizioni dei nostri; e Garibaldi era tale che ben sapeva trarne partito. Prima di tutto egli poteva sperare dal tempo. Le sue forze si ri moltiplicavano giornalmente col concorso della gioventù generosa dell’Isola: egli ordinava l’amministrazione, ed assicurava ai militi lo stipendio che in ogni corpo regolato a disciplina militare diviene indispensabile. Fino a quel punto i volontari non avevano avuto che la paga di due o tutto al più di tre giorni. E non fu se non dopo conchiusa la tregua, ed allorquando egli prese possesso del Regio Banco, che potè avere i danari occorrenti al mantenimento della piccola annata.

LXXXIV.— Per contro la situazione del Lanaa facevasi ogni giorno peggiore. Le file dell’esercito ognor più assottigliavansi e per le diserzioni e per le malattie che i soldati aveano contratto nelle lunghe vigilie di una guerra durata. per circa due mesi. La esistenza d’un esercito in una città sollevata è sempre spaventosa ed orribile: avvezzo a combattere in campo contro uomini rivestiti d’un uniforme simile al suo, il soldato trovasi come fuori del suo centro d’azione quando egli deve lottare con altri uomini guidati da altri principii. Il più valoroso sul campo di guerra diviene sovente assai meno che femmina tra le barricate difese da un popolo insorto. Il soldato non conosce nemici legali se non in coloro che rivestono militare uniforme e sono animati da uno spirito identico al suo: ed è per esso un avversario invisibile, insolito, e quindi più assai pericoloso, quello che lo assale dalle finestre e dai tetti delle abitazioni e dagli angoli delle vie e delle piazze. Il coraggio stesso, irregolare ed ebro, del popolo, produce il più terribile effetto sulle file compatte di un esercito ordinato ed istrutto. Non la cosa soltanto, ma l’aspetto della cosa, quanto più nuovo altrettanto più strano, è quello che spesso determina le più vive sensazioni dell’anima umana. Fn un combattimento di barricate un esercito regolare rimane sovente disordinato come dopo la più completa disfatta ricevuta in campagna.

LXXXV.— Ed altre e non men gravi circostanze concorrono a rendere tal situazione anormale e difficile. Per quanto i magazzini sieno ben provveduti di viveri il soldato ha mestieri acquistare giornalmente buona parte di ciò che gli è indispensabile: né in caso di rivolta egli può sopperire altrimenti ai più pressanti bisogni. Ma in tal caso, anche potendo, s’indurrebbe a farlo egli forse? Non temerebbe incontrare in ogni luogo, in ogni casa, l’inganno, il tradimento e la morte? Di cui potrebbe fidarsi? In qual luogo sarebbe securo? Non si videro soldati che nel mezzo d’una moltitudine insorta preferirono morire di sete anzi che immerger le labbra nell’acque d’un fonte il quale davanti sgorgavagli, credendolo avvelenato? Il secreto terrore di pericoli imaginarii e reali del pari contribuisce a disordinare un esercito alle mani col popolo. Come impedir i misteriosi sospetti, gli allarmi continuati e l’irresistibile panico che invade mai sempre le truppe quando combattute con tutti gli orrori della guerra e nelle supreme, necessità della vita?

LXXXVI.— Scrissero alcuni che, appena segnato il primo armistizio, un ufficiale di Stato Maggiore venne spedito da Palermo a Napoli, ad annunziare il già fatto alla Corte. Aggiungesi che Francesco II lo accolse freddamente, rifiutò ratificare il trattato ed in un accesso di collera ordinò al Commissario di seppellirsi sotto le ruine della città anzi che cederla al general Garibaldi. Vuoisi pure che all’arrivo di tale messaggio un inviato novello sia stato mandato al Borbone coll’ordine di fargli comprendere come inutile oggimai diveniva ogni ulterior resistenza: e che questa volta Francesco II, animato da migliori consigli, lasciasse all’arbitrio de’ suoi luogotenenti la facoltà di regolarsi nel modo che loro paresse più conveniente. Da ultimo si asserisce che il Re abbia richiesto se la sua presenza in Sicilia potesse essere utile o necessaria: e che la risposta negativa di Lanza gli trasse dal capo ogni fumo di valore e di gloria (76).

LXXXVII.— La mattina 6 giugno il colonnello Orsini, passando traverso l’accampamento di Bosco, entrava trionfante a Palermo. Non sarà discaro ai lettori trovare in queste pagine la descrizione succinta dei fatti e delle vicende del bravo soldato. Egli veniva dopo dodici giorni di marcia, eseguita traverso le più scabrose montagne, in paese nemico ed esposto continuamente all’attacco dei Regii. I suoi militi, che avevano potentemente contribuito alla vittoria dei volontari, con essi giungevano a dividere gli onori e la gloria del trionfo (77).

LXXXVIII.— Orsini, come altrove abbiamo narrato, distaccavasi dal corpo di spedizione nel pomeriggio del 24 maggio precedente. Egli aveva seco quaranta carriaggi, cinque pezzi di cannone, non più che cinquanta artiglieri ed una quarantina d’uomini, ammalati ed addetti al servizio delle sussistenze e degli equipaggi: le armi consistevano, oltre i cannoni, in soli dodici fucili rugginosi e quasi inservibili. Alcune squadre di Picciotti, in tutto sommanti a qualche centinaio di uomini male ordinati ed armati, compivano le file della divisione incaricata a frenare le mosse di oltre otto mila Napoletani.

LXXXIX— La colonna comandata da Bosco consisteva in alcuni battaglioni di cacciatori (fra i quali l’ottavo), di carabinieri e sopra tutto di svizzeri: il resto ed il maggior numero apparteneva ai reggimenti indigeni napoletani. Era inoltre munita di numerosa artiglieria e di un forte squadrone di cavalleggeri, cui il comandante silusingava slanciare alla dispersione completa dei vinti.

XC.— Orsini pernottò alle Ficuzze, folta e selvaggia boscaglia che stendesi ai due lati del grande stradale di Corleone. La mancanza di bestie da tiro e da soma gli rese impossibile per quella notte il proseguire il viaggio. All’alba del 25 i volontari partirono e senza più oltre fermarsi giunsero a Corleone alle ore tre pomeridiane. Quivi la popolazione gli accolse con entusiastiche grida di viva all’Italia.

XCI.— Il giorno 26 passava affatto tranquillo. Il generale napoletano che lentamente avanzavasi, non trovando più traccia di corpi avversarti, credere Garibaldi già vinto ed in piena fuga per le montagne del centro. Egli spedi quindi a Palermo un espresso annunziando esser già terminata la guerra e le bande Garibaldiane del tutto sgominate e disperse. Quel dispaccio venne due giorni dopo pubblicato a Messina (78) e quindi a Napoli: e pare che ad esso debba riferirsi la diffusa notizia della perdita di Garibaldi, notizia che troviamo registrata nei giornali italiani e stranieri e nei carteggi diplomatici di Londra e Parigi.

XCII. Alle ore dieci mattutine del successivo 27, nel punto medesimo che Garibaldi marciava vincitore per le vie di Palermo, sopraggiunse a Corleone la nuova che l’armata borbonica era soltanto a qualche ora di marcia. A tale notizia un irresistibile panico si sparse fra quegli abitanti: ne successe una emigrazione spaventosa e la città in poco dora letteralmente rimase deserta. Orsini ciò nulla meno non si perdette di spirito: dispose incontanente i Picciotti sul davanti della città e prese egli stesso posizione sopra una magnifica altura che domina, serpeggiando fra le montagne, lo stradale di Chiusa, pel quale intendeva eseguire la sua ritirata, giacché ogni possibilità di portarsi a Marineo era affatto perduta. Ma come la posizione alla destra poteva essere facilmente girata, egli fece collocare due pezzi d’artiglieriasopra un picco inaccessibile situato dalla parte opposta della sua piccola linea. Si dovettero portare colà i due cannoni a forza di braccia: tuttavia, malgrado le difficoltà del luogo prima dek l’arrivo dei Napoletani tutto si trovava già in pronto per bene riceverli.

XCIII.— Non era intenzione di Orsini arrischiare una decisiva battaglia, il che gli sarebbe stato d’altronde impossibile senza esporsi a certa rovina. Era uno stratagemma abilmente impiegalo a ritardare il nemico e per farsi inseguire più oltre. Aveva egli quindi dato le disposizioni perché i suoi militi, dopo impegnata la zuffa, sapessero a tempo ritirarsi per la strada indicata e prima che il nemico riuscisse ad avvilupparli colla sovrabbondanza del numero.

XCIV.— I carabinieri ed i cacciatori napoletani avanzavansi intanto spiegati in catena ed incominciavan l’attacco: il resto delle truppe seguivali in colonne serrate. Assaliti vigorosamente i Picciotti precipitosamente sulla destra piegarono e fuggirono quindi atterriti in città. L1 ufficiale comandante i due pezzi di artiglieria situati all’estrema destra dei nostri bentosto comprese che la sua posizione poteva essere girata in men di mezz’ora: in conseguenza spedi prontamente ad avvertire il colonnello della impossibilità di sostenervisi a lungo ed aperse il fuoco sui Regii. Poco dopo il colonnello incominciò a tirare a mitraglia sulle dense colonne borboniche già vicine ad entrare in Corleone lasciata dai Picciotti scoperta. Se non che fatte appena da circa quindici scariche, le quali apportarono al nemico incredibili danni, Orsini si dispose ad effettuare la sua ritirata. Al tempo stesso la destra, composta di soli sette artiglieri, quasi avviluppata da una triplice linea di cacciatori borbonici, abbandonò la sua posizione sforzandosi a raggiungere il resto del corpo.

XCV.— Quel nucleo di prodi, molestato da tergo e sui fianchi, tuttavia s’ostinava a trascinare con sé i due cannoni. Se non che a metà del cammino il carro dell’uno si ruppe (era quello acquistato a Calatafimi) per cui si dovette abbandonarlo al nemico. L’altro, scivolando sul dorso del monte, e più non valendo gli artiglieri, già rifiniti, a sorreggerlo, precipitò in un profondo burrone. Contemporaneamente un drappello di cavalleggieri napoletani comparve sullo stradale pochi minuti prima tenuto da Orsini: a quella vista i sette artiglieri e l’ufficiale, posposto ogn’altro pensiero, precipitosamente fuggirono a traverso dei campi. Eglino, solo dopo due ore di corsa, pervennero a raggiungere, anelanti e disfatti, il loro corpo.

XCVI.— Bosco, temendo di qualche imboscata differiva di penetrare in città: se non che accortosi ch’essa era già sgombra, ripreso coraggio, vi entrò alle tre pomeridiane. Quivi per la terza o la quarta volta egli scrisse al quarlier generale di avere sconfitto e disperso le bande garibaldiane. Quel dispaccio, portante la data del 27, venne. intercettato dai volontari e recato a Garibaldi, che lettone il contenuto lo fece sprezzantemente rimettere nelle mani di Lanza a cui era diretto (79).

XCVII.— il 28, mentre appunto disponevasi a proseguire la marcia nel centro dell’Isola, gli pervenne l’annunzio che Garibaldi era entrato in Palermo. Contemporaneamente ricevette l’ordine di portarsi colla massima sollecitudine a difendere l’oppugnata città. Se Bosco ne rimase maravigliato ed attonito ognuno può immaginarlo: egli vedevasi oppresso, schernito, annientato da un nemico che avea successivamente creduto sconfitto a Monreale, a Parco, a Piana dei Greci ed a Corleone. Aveavi in quei fatti un non so che di misterioso e fantastico che superava la saviezza ed egualmente le previsioni degli uomini. Garibaldi era entrato in Palermo? Ma s’egli, Bosco, Pareva veduto il giorno prima fuggire già rotto e battuto? Se aveva già spedito l’avviso a Palermo delle riportate vittorie? Non poteva essere una mistificazione? Ciò nullameno era l’ordine troppo assoluto perché Bosco ricusasse obbedire: egli riprese abbattuto e scorato la via di Palermo dove aveva sperato ritornare trionfante.

XCVIII.— Avrebbe il generale desiderato volare, non che ritornare, a Palermo. Ma lo scopo di quel movimento retrogrado, ancorché tenuto secreto, guari non tardò a divulgarsi. I soldati ne rimasero indignati e sorpresi; e lenti e meditabondi marciarono malgrado gli ordini e le sollecitazioni dei capi. Tra le file si mormorava altamente contro l’imperizia del generale che s’era tante volte lasciato cogliere all’amo. L’idea di un nemico, il quale tante volte disperso risorgeva più sempre potente, istillava negli animi un superstizioso terrore e contribuiva ad abbattere il vigor del soldato. E chi era questo Garibaldi che avevano si spesso battuto e che sempre dovevano battere? Non era egli fuggito nei monti dell’ovest, non ramingava egli allora per le montagne del sud? Come poteva trovarsi a Palermo? Bosco adunque ingannavali quando asseriva che Garibaldi era vinto? Oppure Garibaldi doveva essere un fattucchiero ed un mago poich’egli trovavasi al tempo stesso a Calatafimi, a Corleone ed a Palermo. Ad ogni modo era una guerra codesta interminabile che tante volte finita altrettante divampava più seria e terribile. Tali pensieri le menti dei soldati agitavano: il malcontento cresceva ed apparecchiava la piena dissoluzione del corpo.

XCIX.— Orsini frattanto proseguiva la sua ritirata. Al tramonto del sole, dopo faticosissima marcia. perveniva a Campo Fiorito, piccolo villaggio perduto in mezzo ai burroni formati dai monti Gemelli. Il paese appariva intieramente deserto: le finestre e le porte eran chiuse, ed i Garibaldini in passando soltanto scoprirono dietro le imposte pochi volti di persone sgomentate e tremanti che a sfilar li osservavano.

C.— Alle ore dieci circa di notte arrivarono a Chiusa e vi furono accolti e festeggiati col solito grido di viva l’Italia. Alla mattina del 28 si rimisero in marcia alla volta di Giuliana, ameno villaggio situato sulla sommità d’una montagna dirupata e scoscesa ed accessibile soltanto ai pedoni ed ai muli.

CI.— Il trasporto delle salmerie e dei cannoni divenne in quel punto un problema insolvibile. Le strade, o per dir meglio i viottoli erano si aspri ed angusti che i Garibaldini oggimai non bastavano a trascinare, come eran soliti a fare i carriaggi. Il municipio, non osando rifiutare, prometteva soccorsi d’uomini e muli, ma differiva, mendicando scuse e pretesti, a mandarli Que’ poveri villani agivano certamente in tal modo non tanto per amore ai Borboni quanto per paura della loro vendetta. Eglino tremavano al pensiero di compromettersi accordando quel sussidio agli insorti.

CII.— Mentre volontari e Picciotti s’affaticavano a trascinare con sé i materiali si sparse la voce che i Regii salivano il monte. Incontanente s’intese da tutte le parti gridare: «la cavalleria! il nemico!» Fu un istante di confusione indicibile. Il colonnello ordinò d’inchiodare i cannoni, di abbruciare gli affusti e distruggere le provvigioni perché non cadessero in mano ai Borbonici: ed in seguito prese la via di Sambuca. L’ufficiale incaricato della esecuzione degli ordini salvava quasi tutte le munizioni, tranne una piccola quantità derubata dai villici, a’ quali non poteva impedirlo avendo unicamente tre uomini disarmati di scorta.

CIII.— L’ufficiale, terminato il suo compito, si recò nel villaggio qualche ora prima di notte. Ivi era preceduta la certa notizia dell’entrata di Garibaldi in Palermo e del cangiamento che la pubblica cosa aveva in conseguenza subito. L’ufficiale venne impertanto festeggiato dagli abitanti colle più vive dimostrazioni di gioia, ed il municipio, mutando d’un tratto registro, stemperavasi in solenni e bellicose proteste di adesione ed attaccamento e profferiva ricuperare a sue spese i cannoni, i projettili e quanto salvare poteasi di ciò che era stato involato.

CIV.— Il colonnello bivaccava davanti a Sambuca, dove entrò la susseguente mattina. Siccome le notizie di Palermo erano giunte là pure, egli vi ebbe l’accoglienza più festosa e più splendida. Nel medesimo tempo si seppe che Bosco, cessando dall’inseguire i volontari, era già ritornato a Palermo. Orsini, avendo già compita la propria missione ed ottenuto l’intento, unicamente pensava a raggiungere il suo Generale. I volontari ripresero la via di Giuliana: e quivi rifatti gli affusti, rimontata l’artiglieria ed in tutta fretta ricuperato quanto più si potè delle munizioni ed attrezzi, discesero trionfanti la montagna che avevano salito fuggendo.

CV.— Ritornando a Corleone i volontari rifecero la strada percorsa. Eglino rividero Busacchrino, Chiusa e Campo Fiorito. A Corleone ricuperarono il pezzo abbandonato quattro giorni prima nel fondo d’un orrido abisso e che i Regii non avevano scorto. Poscia con lunga e faticosissima marcia per Marineo, Misilmeri e Villabate discesero nell’agro palermitano ed alle ore otto antimeridiane del 6 raggiunsero i loro compagni. Nella lunga sua peregrinazione Orsini perdette un sol uomo non già morto o ferito, ma lasciato indietro per ¿stanchezza e sfinimento di forze.

CVI.— Il giorno medesimo Lanza, vedendo Ogni resistenza impossibile, fatto di necessità virtù, firmava una convenzione col general Garibaldi stipulando le condizioni pel ritiro de’ suoi. Quell’atto può considerarsi come la dedizione della città nelle mani del condottiero italiano. Da quel giorno Palermo poteva dirsi appartenere all’Italia (80).

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-PERINI-La-spedizione-dei-Mille-storia-documentata-2025.html#LIBRO_IV

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