LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (VI)

LIBRO VI
Trilli condirmi Ma Statlia.
I.— La storia siciliana, come l’altre, si perdei nella notte dei secoli. L’età favolosa ed eroica vi mostra il paese soggiogato ed invaso dai Sicani e dai Siculi, popoli di origine italica, che vi tennero lungo dominio e gli diedero il nome. Gli Elleni più tardi vi posero numerose e fiorenti colonie e vi diffusero la loro coltura, la religione e la lingua.
Sotto l’influenza benefica della libertà e delle leggi la Sicilia, spogliatasi della natia ruvidezza, crebbe ad un punto invidiabile di prosperità, di potenza e di gloria. Le superbe rovine di Siracusa, Catania, Selinonte, Segesta ed Hyccara, le spaziose sue catacombe e le caverne scavate con immensa fatica nel seno dei monti attestano tuttavia la sua prisca opulenza e le arti ed il gusto de’ suoi abitatori. La Sicilia nel suo grembo racchiude le ceneri di uomini illustri e celeberrimi in guerra, nelle scienze e nelle arti: e le rive dell’Eloro, dell’Asinaro, d’Aretusa e di Nepta echeggiano ancora dei canti di Pindaro e Sofocle.
II.— Caduta in appresso da una smodata licenza sotto il giogo dei proprii tiranni, la Sicilia divenne facile preda ai Cartaginesi ed ai Romani che contendevansi l’impero del mondo. Ridotta a provincia tuttavolta rimase opulente ed illustre, ché sotto l’azione delle leggi e dello spirito ordinatore di Roma riacquistò in civiltà e coltura quanto d’indipendenza essa aveva perduto. Divenuta stazione delle flotte latine nel Mediterraneo il suo commercio si estese, le sue relazioni allargaronsi: la maravigliosa fertilità del suolo le offriva innumerevoli prodotti ch’essa inviava a tutti i paesi del vastissimo impero. La Sicilia sopportò per più secoli la dominazione repubblicana e cesarea, e quando avvenne la finale divisione della monarchia tra i figliuoli del grande Teodosio essa passò all’impero d’Oriente al quale maggiormente vincolavanla le sue tradizioni, i costumi ed in gran parte la lingua. Dall’827 all’878 dell’era volgare fu invasa e percorsa dagli Arabi che sotto la condotta di Fimi od Eufemio (81) vi sbarcarono e s’insignorirono della massima parte delle città e delle coste ed in appresso dell’Isola intiera. Nel 1060 Ruggiero, duodecimo ed ultimo figlio di Tancredi d’Altavilla, sfidando su piccola barca i reali o favolosi pericoli di Scilla e Cariddi, sbarcò con soli sessanta Normanni sopra uno spiaggia nemica e respinse i Saraceni fino alle porte di Messina (82). Più tardi nella fortezza di Trani sostenne con trecento guerrieri un assedio di più mesi, ed affrontò e ripulse le forze dell’Isola intiera. Nel campo di Ceramio cinquantamila cavalieri e pedoni furono vinti e rovesciati da cento trentasei soldati cristiani (83), senza contare san Giorgio, il quale combatté a cavallo nelle primissime file (84). Dopo una lotta di trentanni, guerreggiata con vario successo, Ruggiero ottenne col titolo di Gran Conte, il dominio dell’Isola più vasta e fruttifera dei mari italiani; e la sua casa e il suo regno si estinse soltanto il 16 novembre 1189 colla morte di Guglielmo II od il buono, ultimo de’ suoi discendenti legittimi.
III.— Enrico VI re di Germania, figlio di Federico Barbarossa ed imparentato per mezzo di sua moglie Costanza, zia di Guglielmo II, alla casa normanna, rivendicò per la forza dell’armi i suoi pretesi diritti alla corona dell’Isola. Dopo varie vicende se ne rese padrone nel 1194 e vi fondò. la dinastia degli Svevi. I re di Sicilia continuamente in lotta colla Corte di Roma si estinsero coll’ultimo Corrado o Corradino, decapitato sulla piazza di Napoli per ordine di Carlo d’Angiò. Né gli Angioini lungamente godettero il possesso dell’Isola: nel 1282 una terribile insurrezione, conosciuta col nome di Vespri siciliani, rovesciò il loro governo e gli rincacciò oltre il Faro. Da quel punto sino alla pace di Utrecht nei 1713 in cui, per opera precipuamente dell’Inghilterra, fu data a Vittorio Amedeo duca di Savoja, la Sicilia soggiacque al dominio degli Aragonesi, ed alla riunione della monarchia di Aragona e Castiglia, al governo spagnuolo. Tosto dopo ed in seguito alla guerra riaccesa in Europa dalla sfrenata ambizione del cardinale Alberoni ministro di Spagna, Vittorio Amedeo fu costretto a cedere l’Isola che venne data all’Imperator di Germania. Finalmente Don Carlo di Borbone essendosi insignorito della terra ferma e poco appresso dell’isola, si fece nel 1737 riconoscere Re di Sicilia e di Napoli.
IV.— Durante l’uragano rivoluzionario, ¡che dal 1789 al 1815 percorse e sconvolse l’Europa, la Sicilia offeriva alla dinastia dei Borboni un asilo inviolato e securo. La fiducia e l’amore dei bravi isolani fu in quell’epoca il solo sostegno rimasto alla vacillante monarchia dei quarto Ferdinando. L’antica rivalità dei Napoletani e dei Siculi ravvivò le vecchie gare del continente e dell’Isola; ed a queste più che al suo governo il Re fuggitivo dovette la conservazione della propria corona. Palermo divenne la capitale del Regno: e di là partirono continuamente le orde di briganti che funestarono e molestarono l’amministrazione di Giuseppe e Gioachino. Là si tramarono le sorde congiure che prepararono il ritorno all’antica tirannide (85), e là Carolina d’Austria stabiliva con Acton e con Nelson l’esterminio dei liberali di Napoli. Dopo nove anni d’esiglio i Borboni rientrarono in possesso dei loro domimi; e la sola ricompensa che i Siciliani ne ottennero fu quella di vedersi rapire le libertà di cui aveano per lo avanti goduto.
V.— Un regno cosi costituito e compatto non poteva mancare d’istituzioni e di leggi atte all’interno sviluppo delle forze morali e materiali del paese: ed infatti la Sicilia serbava inviolati gli antichi ordinamenti che tanto la resero ricca e fiorente. Era un tesoro di sapienza e di glorialasciatole dal genio patriottico de’ suoi fondatori. sublime eredità di cui il genere umano a maggior dritto si vanta che non delle glorie derivanti da ingiuste o sanguinose conquiste. Tuttavia quelle istituzioni e quelle leggi erano, col crescere della civiltà, divenute antiquate e retrograde, né più bastavano ai bisogni del paese e del secolo. Le ultime reliquie del feudalismo rimanevano ancora sancite nei varii statuti che vi tenevano luogo di codice e richiamavano alla memoria del popolo la triste reminiscenza d’un’età dolorosa e tirannica. Perciò e per istigazione dell’Inghilterra, la propugnatrice secolare ed indefessa delle idee liberali, come anche per assicurarsi l’amore dei sudditi, Ferdinando IV assicurava ai fedeli Siciliani la Costituzione, la quale, dall’anno in cui prima comparve, si chiamò la Costituzione del 12.
VI.— Risalito al trono de’ suoi maggiori, immemore delle giurate promesse, preso il pretesto del riordinamento del Regno, tolse alla Sicilia non solo la Costituzione che le aveva egli stesso accordata, ma le istituzioni, le libertà ed i diritti che aveva anteriormente per anni serbati. Le corone di Sicilia e di Napoli, che a tenore del patto fondamentale della monarchia dovevano essere divise, furono da quel punto riunite sulla medesima testa e col medesimo titolo e costituirono il Regno delle Due Sicilie. E quel Re, approfittando con infernale politica delle antiche rivalità sussistenti fra le popolazioni della Sicilia e di Napoli, le sottopose allo stesso giogo, e riuscì a servirsi dello une per soggiogare e comprimere lo spirito di libertà e di progresso delle altre. Come nel 1815 egli si giovò delle truppe siciliane ad invadere il regno di Napoli cosi nel 1820 e nel 1849 adoperò le forze napoletane a soffocare nel sangue l’insurrezione dell’Isola. Pur troppo e ben a lungo Je ostili rivalità dei popoli furono il sostegno più valido dei tiranni e dei despoti.
VII.— Nelle riacquistate provincia Ferdinando aveva trovato in vigore il codice napoleonico, monumento stupendo d’un’epoca per tanti titoli odiosa ed ingrata all’Italia. Bisognava richiamare gli antichi statuti provinciali, le patenti ed i decreti anteriori al 1800, vero ed informe caos di contraddizioni ed incongruenze legali che inceppavano l’ordinamento e l’amministrazione dello Stato, oppure conservare le leggi francesi. Ebbe Ferdinando il buon senso (86) di appigliarsi a quest’ultimo partito: ed in forza della riunione dei due Regni in un solo, il codice Napoleone fu pure promulgato nell’Isola. Ma quel corpo di leggi che, paragonato alla confusione legislativa anteriore, poteva chiamarsi buonissimo, perdeva nelle mani del governo borbonico il primitivo significato, l’antica sua forza. Altrettanto si dica dell’amministrazione: lo spirito della tirannide tutto falsava: a forza di emendamenti e cavilli le leggi liberali del Decennio divennero strumento d’iniquità e d’oppressione.
VIII.— Due furono le basi su cui Ferdinando fondava la speranza avvenire di sua casa e corona, la polizia e la corruzione. Dell’esercito poco o nulla curavasi: esso aveva fatto troppo misera prova di sé nelle guerre anteriori per affidargli esclusivamente la difesa del trono e del principe: e d’altronde il Borbone, come Carlo Felice ed il Duca di Modena, aveva un’armata nella valle del Po, accampata sulle pianure del Mincio e dell’Adige, pronta ad accorrere ovunque in sostegno della cadente tirannide. La Santa Alleanza lo assicurava alle spalle ed all’estero: e l’esercito napoletano, birrescamente educato, destinavasi unicamente a frenare e comprimere i moti de’ popoli.
IX.— La polizia costituiva la prima autorità dello Stato, ed era quella che animava e dirigeva l’intiera macchina governativa. Senza una speciale raccomandazione della gendarmeria nessuno poteva aspirare a cariche o a posti; né tale raccomandazione otteneasi se non a prezzo di servilità e sovente coi mezzi più abbietti e codardi. La via migliore e più agevole agl’impieghi e agli onori era quella di esercitare con assiduità e con zelo il nobile mestiere di spia. Chi aveva svelato maggior numero di congiure, chi aveva rovinato più di cittadini e famiglie godeva di più ampio diritto ai favori ed alle grazie sovrane. Svelato il secreto, che dall’altrui rovina soltanto sperare poteasi un avanzamento o una carica, il regno fu invaso da un’orda innumerevole di confidenti che penetravano dappertutto, osservavano tutto e tutto notavano e tradivano ai birri. Lo spionaggio divenuto in tal guisa massima suprema di Stato, i confidenti inventavano, in mancanza di fatti reali, congiure e complotti imaginarii ed assurdi: e di là nuove proscrizioni e novelli terrori. La polizia, onnipotente e sfrenata, sui rapporti de’ suoi esploratori inaspriva e traeva dal sangue e dalle lagrime nuovo impulso e vigore alle infernali sue arti. Migliaia e migliaia di vittime giacevano senza colpa o processo sepolte nei forti o nell’isole, bersaglio all’arbitrio ed alla efferata barbarie di Canosa ed Ajossa.
X.— I cittadini, assediati continuamente ed oppressi dalle innumerevoli spie, tremavano nell’aprire la bocca, e diffidavano gli uni degli altri come se avessero a paventare il contagio o la peste. Ogni muro, ogni angolo poteva occultare un esploratore, ogni volto poteva nascondere il cuor d’uno sgherro. Quindi rotte o ristrette le relazioni di famiglia a famiglia, sospetti e peritosi i rapporti da amico ad amico e sciolto ogni vincola di fede e d’amore sociale. A sottrarsi alle continue e feroci proscrizioni politiche necessità divenne lo assumere la maschera del gesuita e del reprobo, e la simulazione e la menzogna diventarono regole universali e comuni della pubblica vita. La religione, fattasi stromento alle tirannie della Corte, metteva il confessionale ed il pulpito a servigio dell’autorità poliziesca e giudiziaria ed i ministri del cielo non arrossivano a recitare in quella stolta e cruenta commedia la parte di Giuda. Scopo evidente del governo era quello di isolare i cittadini gli uni dagli altri, di schiacciare col terrore il loro coraggio e di abbrutirli all’infimo grado, e potere cosi più agevolmente domarli ed opprimerli.
XI.— La polizia e la curia, in una parola, il più sfrenato spionaggio governava, arbitro assoluto, le sorti delle famiglie e degli uomini. Ed a scongiurare il pericolo altra via non rimaneva che quella di procurarsi la protezione o il silenzio degli agenti misteriosi ed invisibili del potere sovrano. A procacciarsi il favor delle spie era d’uopo pagarlo in contanti: per ottenere l’appoggio dei gesuiti bisognava simulare sentimenti sanfedisti e retrogradi. Assistere alla messa, frequentare i confessionali e le chiese era l’unico mezzo per evitare il pericolo d’essere considerato liberale, terribilissima accusa da espiarsi soltanto col carcere, l’esilio e la morte. Come gli sgherri si avvidero che accusando e scusando potevasi cavare danaro ritornarono, con nuova energia e baldanza, alla carica: s’imprigionarono i cittadini più onesti ed agiati al solo oggetto di trarne più ampi riscatti. Era una imposta novella, e non la meno oppressiva che gravitava sopra le classi più elevate e più doviziose del Regno. In appresso, come le discolpe pagavansi a prezzo, si scopri che poteano pagarsi egualmente le accuse. Se un individuo bramava disfarsi di un nemico, o se per qualunque ragione voleva tórsi davanti un suo simile, non aveva che a ricorrere ai confidenti di polizia, i quali a prezzo d’oro erano pronti a compiacerlo mai sempre. Di là quel sistema di basse finzioni, quelle riiasciatezza d’ogni principio morale, quella supina ignoranza delle idee elementari del vero e del falso, in una parola quella corruzione degradante e profonda a cui fu condannato quel popolo di sua natura si umano, si intelligente e sensibile.
XII.— Tali erano, fra moltissime altre, le piaghe generali del Regno, e quelle dell’Isola apparivano ancora più gravi ed orribili. Abbandonata all’arbitrio dei luogotenenti reali, delle soldatesche e dei birri, la Sicilia gemeva sotto il peso di mali infiniti, intollerabili essa veniva trattata nel modo col quale, o presso a poco, il governo spagnuolo per tanti anni ha tiranneggiato le Americhe. Spogliata delle sue ricchezze, rovinata neI suoi più vitali interessi, calpestata, angariata ed oppressa, la Sicilia giaceva in uno stato di abbrutimento profondo, crescente, indicibile. Curvata sotto il doppio giogo religioso e politico, la terra dei Vespri perdette la purità degli antichi costumi, la sua floridezza e perfino le memorie del suo grandioso passato. Essa era una prova manifesta e vivente di quanto possa la tirannia esercitata ad arbitrio d’un uomo e di una Corte straniera.
XIII.— Le manifatture e le industrie vi si trovavano in uno stato veramente meschino e deplorabile o, per dir meglio, industrie e manifatture non v’erano. La diffidenza della Corte vietava la riunione del capitale, perocché in ogni associazione, eziandio la più innocua, il Re non ¡scorgeva che il nucleo di secreti convegni e cospirazioni politiche. L’isolamento dei cittadini rendeva impossibile la fondazione dei grandi opificii che richiedono immensi capitali ed il concorso di numerosissime braccia. Inoltre, le poche industrie che il governo, sebbene relutantemente, tollerava, si trovavano quasi tutte sul litorale di Napoli; poiché nella smania di favorire le popolazioni del continente si adoperavano tutti i mezzi, eziandio vessatorii ed ingiusti, ad. impedire Perezione di case industriali nell’Isola. E quando non si poteva ricusare la concessione di una manifattura od industria qualunque, si cercava schiacciarla sotto il peso dei balzelli o delle persecuzioni o colla concorrenza o con altri mezzi più sleali e più vili. E se la casa resisteva, se ad onta di tali e gravissimi ostacoli tuttavia prosperava, mai non mancavano le scuse e i pretesti a sospenderla o chiuderla. A Palermo un ricco cittadino fondava una fabbrica di carta e faceva assai bene i suoi affari, quando un ordine della polizia gl’intimò di cessar dai lavori e di licenziar gli operai. Una società aveva intrapreso un servizio di vapori tra risola e Napoli quando un perentorio decreto del governo ordinò lo scioglimento della società e la sospensione delle corse medesime (87). Tali fatti furono abbastanza’ frequenti per isvogliare gli isolani da ogni tentativo consimile.
XIV.— Il sistema stradale nell’Isola è quale trovavasi un secolo addietro, od a parlare con maggior proprietà, non havvi sistema stradale. Quelle fra le strade che, o per la loro capacità o per essere maggiormente frequentate, meritano più dell’altre un tal nome, corrispondono appena alle nostre vie comunali, se non che appaiono più assai mal tenute e di accesso difficile: le altre non sono che miserabili sentieri o viottoli, atti soltanto al passaggio dei pedoni e dei muli, quali appunto s’incontrano ne’ punti più scoscesi e remoti delle Alpi. Quindi fra le città dell’interno malagevoli i trasporti, nulle o scarse le comunicazioni ed i transiti costosi e lunghissimi. In tali condizioni il commercio giaceva in profondo abbandono, e con esso le relazioni da città a città, da villaggio a villaggio, eran rade, interrotte, di nessuna o di lieve importanza (88).
XV.— Nella generale stagnazione dei traffichi l’agricoltura non poteva gran fatto trovarsi in condizioni migliori. Il movente principale delle industrie è il guadagno che l’uomo ne spera e la possibilità di procacciarsi con esse gli agi e le comodità della vita. Invano si vorrebbe persuadere all’operaio la necessità del lavoro s’egli soltanto nutrisse il sospetto che dopo si troverebbe sì povero come prima di aver faticato. Il cambio si fa col superfluo: né si cerca aumentare i prodotti al di là del bisognevole per la propria consumazione, se non per avere col di più la facoltà di procurarsi gli oggetti o le merci che abbondano altrove. La bilancia commerciale è cosi stabilita che mentre ciascuno non dà che il superfluo si perviene a supplire alla deficienza di tutti. In Sicilia le spese e le difficoltà dei trasporti erano si elevate e si enormi che rendevano impossibile l’esportazione non solo, ma altresì la circolazione, dei prodotti tra i diversi punti dell’Isola. Era inutile accrescere le produzioni mentre le spese di transito ne assorbivano tutto il valore o per lo meno l’intiero guadagno. Né l’agricoltore poteva sforzarsi a trarre dai terreno più grano o più frutta di quello che gli diveniva strettamente necessario per la propria sussistenza, mentre ben sapea che il superfluo non gli doveva recare il più lieve vantaggio.
XVI.— Quell’Isola si ubertosa e si ricca, denominata ab antico, granaio di Roma, sotto il governo borbonico deperiva talmente da produrre a malappena quanto bastava al sostentamento degli scarsi abitanti. Immensi tratti giacciono tuttavia abbandonati ed incolti: dense boscaglie od ignudo brughiere coprono le pianure ed i colli che un tempo apparivano biondeggianti di messi o coronati di superbi vigneti. L’incuria, l’indolenza del popolo è tale che, se non fosse la maravigliosa e spontanea fertilità del terreno, il paese si troverebbe al di sotto delle nazioni meno favorite dalla natura e dal cielo, al di sotto forse della sterile Scozia. Chi ha visitato le vicinanze di Edimburgo, di Oxford, dell’Aia e di Berna e le paragoni ai dintorni di Castroggiovanni, Caltanisetta o Catania può solo farsi un’idea della differenza tra popoli guidati dalle leggi o dall’arbitrio, dalla libertà o dall’oppressione, da un governo civile o da un barbaro.
XVII.— Un altro, e non men grave, flagello dell’Isola erano le numerose associazioni di banditi e di ladri che ne infestavano le interne regioni. L’ineguaglianza del suolo e la difficoltà dei passaggi impediva ogni attiva e zelante ricerca a purgare il paese da tale malanno. I facinorosi percorrevan sicuri le catene montagnose del centro e talvolta estendevano la zona delle depredazioni loro al cuore delle sottoposte vallate e sino alle spiagge marittime. Assalitori riempivano le campagne di ladroneggi e di sangue e spargevano il terrore nelle stesse città sebbene guardate dalla gendarmeria e da regolari presidii: assaliti si ricoveravano nel seno dei monti dove tra le folte boscaglie, le caverne ed. i burroni trovavano securo ed impenetrabil recesso ed asilo. I gioghi selvaggi del Ghinea e dei Monti Gemelli e di Praga potevano considerarsi come altrettanti campi trincierati dove il brigandaggio regnava sovrano e donde sfidava la polizia e l’armata borbonica. In tutte le città dell’interno e lungo le linee dei colli e dei fiumi i banditi tenevano i loro avamposti ed i loro affigliati, di cui servivansi o nel depredare i cittadini o per deludere la vigilanza dei loro avversarli. Il viaggiatore straniero od indigeno che passava dall’uno all’altro villaggio correva continuo pericolo di vedersi assalito e spogliato.
XVIII.— La polizia, tutta intenta ad ¡scoprire congiure politiche ed a perseguitare i patriotti, poco o nulla curavasi delle proprietà e della vita de’ 1 sudditi. Le innumerevoli spie, unicamente occupate a sorvegliare i cittadini tranquilli e pacifici, non avevano né tempo né voglia di esplorare le mosse ed i fini dei ladri. Oltracciò la sorveglianza esercitata su questi poteva esporre confidenti e gendarmi a serii pericoli da cui la prudenza sfuggiva, laddove, collo spiare e vessare i liberali, gendarmi e confidenti eran certi di ottenere, con minor rischio e fatica, vantaggi migliori. Armati sino ai denti i malfattori sapevano lottare e difendersi, né ogni qual volta una spia fosse in mano loro caduta, poteva sperare salvezza o mercede, mentre gli inermi patriotti, spogli d’ogni difesa, dovevano soffrire e tacere e tacevano ognora e soffrivano. Arrogi che la Corte non aveva né mostrava d’avere interesse. alla distruzione del brigandaggio civile, e che all’opposto non mancava mai di ricompensare ampiamente qualunque cattura o scoperta del liberale più quieto ed innocuo. La forza delle cose condannava i Borboni a violare ogni legge dell’onesto e del giusto: e la polizia loro, si terribile contro gl’inermi ed i deboli, era affatto impotente a tutelare la sicurezza e l’ordine pubblico.
XIX.— I ladri che molestavano all’intorno il paese avevano tutti, o quasi tutti, una direzione suprema ed un centro nella cosi detta Camorra o Gamorra, vasta associazione di malviventi e di reprobi, la cui origine risale più secoli addietro, all’epoca dei Re aragonesi e spagnuoli. Il modello di codesta istituzione sembra doversi riferire alla famosa Garduna, il flagello delle iberiche strade, e che tanta ebbe parte ne’ misteriosi ed atroci delitti, a cui la Santa Inquisizione, ne’ suoi mistici accessi di fervor religioso, abbandonavasi un tempo cosi di frequente (89). Essa trova pure una copia nella consorteria di ribaldi, che, sorta a quanto sembra fra le guerre religiose di Francia nel XVI secolo, si perpetuò con diverse denominazioni nelle caverne e nei boschi di Chartres e che venne finalmente, sotto il titolo di compagnia dei Chauffeurs (90) (Scaldatoci), verso il 1797, dalla polizia dittatoriale dispersa e distrutta. La stessa infernale istituzione fu nel nostro medesimo secolo per opera del governo pretesco ripristinata in Romagna e di là propagata per tutta l’Italia ed è dalla storia conosciuta col nome di setta della Santa Fede o società sanfedista (91). Cosi in tutti i tempi ed in tutti i luoghi l’abuso del potere religioso e politico produsse gli stessi inconvenienti ed effetti.
XX.— Afferma la storia, imparziale distributrice di lode e di biasimo, che la Garduna di Spagna fu per secoli complice delle inquisitoriali vendette e delle macchinazioni secrete dei frati, 0 che moltissimi famigliari del Santo Ufficio nel grembo di lei si trovavano inscritti. Allorquando la Santa Inquisizione voleva levarsi dai piedi un qualche personaggio la cui morte potesse, 0 per le sue ricchezze od aderenze, far troppo rumore, bravamente ed in secreto facevasi assassinar dai Garduni. Se trattavasi di porre le mani sopra una ricca matrona 0 zitella, le cui bellezze avessero risvegliata la santa concupiscenza dei padri, i Garduni venivano incaricati di eseguire il rapimento senza strepito e senza pericolo pei loro padroni, e tutti codesti delitti a contanti pagavansi e ad un prezzo di già convenuto. Inoltre, in compenso dei prestati servigi, il Santo Ufficio occultamente assumeva la protezione dell’abbominevole setta (92).
XXI.— Vuolsi, non osiamo asserirlo, che la polizia dei Borboni si servisse dell’opera dei Camorristi come l’Inquisizione non aveva arrossito adoperar la Garduña. Si afferma che i più atroci delitti onde il Regno delle Due Sicilie fu per lungo tempo il teatro, e che l’opinione pubblica attribuisce alle istigazioni della polizia, fossero dalla Camorra, per ordine di lei, perpetrati. La complicità dei camorristi e della Corte non ci pare abbastanza provata: non di meno possiamo, con qualche sospetto, osservare che tra gli ufficiali dell’armata borbonica alcuni per lo meno appartennero alle bande più feroci di ladri, le quali nel nostro medesimo secolo infestarono si a lungo le terre del Continente e dell’Isola. La Camorra fu sempre un semenzaio inesauribile di facinorosi e briganti, e quindi si può con ragion dubitare che il famoso Fra Diavolo ed i suoi spietati compagni, non che le bande al servizio del celebre Ruffo, fossero veri camorristi. Impértanto non sarebbe un’accusa avventata lo ammettere che i Borboni, se non per sistema, almeno per calcolo ed accidentalmente, avevano nella Camorra i più zelanti e più cari servitori ed amici.
XXII.— La società camorrista era egualmente diffusa in Sicilia ed a Napoli. Gl’innumerevoli affigliati ed adepti oltremodo rendevanla audace e terribile: ed il mistero stesso che avviluppavala contribuiva allo spavento che intorno spandeva di sé. Essa teneva ramificazioni e corrispondenti dovunque, nelle città, nelle campagne, ne’ villaggi, ne’ boschi, nell’interno e sulle coste: il numero le dava l’impunità, e l’incuranza o la connivenza del potere politico lasciavate facoltà e potenza a mal fare. Migliaia e migliaia di popolani, rotti ai vizii ed abborrenti dal lavoro, la servivano da mezzani o da complici, da esploratori e da spie, sia ad oggetto di appostare il bottino, sia per ¿sfuggire alte accidentali ricerche dell’autorità poliziesca (93). Ed in compenso dei loro servigi dalla società ricevevano una parte adequata nelle spoglie, colla quale senza grande fatica potevano soddisfare ai loro bisogni ed ai prediletti lor vizii.
XXIII.— Come la Garduña ed i Chauffeurs la Camorra aveva le sue istituzioni, i suoi riti, gli ordinamenti e le leggi, la cui violazione sottoponeva il delinquente ai più gravi castighi (94). Il tradimento vi era punito di morte: la sentenza secretamente emanata, misteriosamente del pari, o col pugnate o col veleno, compivasi: ed un membro della società, un fratello, veniva incaricato della sua esecuzione. Le colpe minori, l’insubordinazione, la viltà o l’accidia, punivansi a colpi di bastone, e, se ripetute, colla privazione del soldo e col cancellare dalla lista dei fratelli il recidivo colpevole. Né questi, abbenché discacciato e reietto, ardiva rivelare i secreti e le infamie dei suoi compagni, poiché ben sapeva che la loro giustizia o vendetta l’avrebbe raggiante dovunque. Come società la Camorra poteva dirsi ordinata assai meglio degli Stati di Ferdinando e Francesco, poich’essa sapeva almeno vegliare alla sicurezza de’ suoi membri con uno zelo coscienzioso ed attivo di cui il governo borbonico non era capace.
XXIV.— Gli abitanti, specialmente in Sicilia, nell’assenza d’ogni mallevarla e difesa sociale, furono costretti a vegliare di per sé alla conservazione delle proprietà e delle vite. E posciaché i governanti, corruttori ad un tempo e corrotti, non sapevano o volevano incaricarsi del mantenimento dell’ordine, diveniva necessario affidare la publica tranquillità alla fede mercenaria dei ladri. È un fatto codesto sì strano ed inconcepibile che non ha esempio nella storia d’Europa e che molti peneranno ad ammettere: eppure è attestato da tante testimonianze di persone autorevoli che sarebbe ingiustizia rigettarlo come una finzione. Alcune comunità nell’interno dell’Isola compravano dal capo della Camorra, ed a prezzodeterminato, una protezione che le leggi e l’autorità borbonica loro negavano: ed il camorrista dal canto suo si obbligava, entro lo spazio ed il tempo convenuto, ad impedire ogni sorta di ladroneggi e delitti, e si facea responsabile dei danni cagionati accidentalmente dai ladri su tutto il territorio alla sua guardia affidato. In tal guisa la Camorra otteneva una specie di riconoscimento, una sanzione legale agli occhi dei municipii e del popolo: perocché non si possono pienamente detestare ed abbonire coloro al cui braccio s’affida la tutela dell’ordine. La Camorra elevata al grado di politica dignità compiva fedelmente la propria missione, e raro era il caso che si perpetrassero ladroneggi od assassinii dove i camorristi ad impedirli vegliavano. I rappresentanti del diritto divino, i partigiani della religione e dell’ordine aveano per tal modo condotto i loro sudditi a patteggiare coi briganti e coi ladri.
XXV.— La Sicilia era piena di preti e di frati senza che ne avvantaggiasse perciò la religione del popolo. Gli abitanti aveano tutti i difetti senza partecipare alle virtù che formano, o vuolsi che debban formare, l’essenza del cristianesimo. Le formatità e le pratiche esteriori del culto venivano adempiute con diligenza incredibile; ma vero spirito religioso non era. Nessuno avrebbe osato astenersi dal frequentare le chiese, dall’ascoltare la messa e la predica, dal solennizzare la Pasqua o dal confessarsi e comunicarsi ogni ottava, ogni mese: e nel medesimo tempo non si peritava a violare i precetti più morali e più santi della religione a cui si gloriava di appartenere (95). Que’ poveri popolani non sapevano della fede cristiana se non quel tanto che ai frati piaceva far loro conoscere: né i frati insegnavano se non quelle pratiche le quali potessero meglio servire ai loro interessi e ai lor fini. Del resto la loro condotta era logica: eglino potevano senza rimorso abbandonarsi alle loro inclinazioni, ben sapendo che poche parole del prete bastavano a detergere ranima delle più brutte sozzure, e che il più schifoso colpevole con un po’ d’acqua santa si lavava di tutti i peccati e ridiveniva candido e mondo e più puro degli angeli. È inutile sacrificarsi ad oggetto di rimanere onest’uomo quando con sì poco si può riacquistare la perduta purità ed innocenza.
XXVI.— Stretta da una cerchia di ferro e divisa dal resto del mondo la Sicilia non poteva certamente vantare la propria istruzione. Troppo a lungo la maledizione di Dio pesò su quella povera terra perch’essa potesse dar frutti convenienti all’ubertosità del suolo ed all’indole pronta e svegliata de’ suoi abitatori. Il dominio aragonese e spagnuolo l’avea depravata, la Santa Inquisizione l’aveva abbrutita ed il governo borbonico spingevala infine verso la più crassa barbarie dei tempi di mezzo. Mentre tutto era progresso all’intorno la Sicilia non progrediva d’un passo, 4 nella via della civiltà giaceva ben sotto il livello d’Italia e d’Europa. Il filosofo può, lamentando o ridendo, osservare che i pregiudizii più stolti e più assurdi i quali caratterizzarono la brutalità del medio evo e che fra noi si trovano appena rilegati negl’infimi villaggi e tra pochi ignoranti proletarii, si trovano in Sicilia nella piena lor forza fra tutte le classi, eziandio le più colte ed agiate (96).
XXVII.— Scuole elementari comunali in Sicilia non erano, e quindi ben di rado tra le classi inferiori incontravasi chi sapesse leggere e scrivere. L’istruzione era il frutto proibito, un privilegio di cui solo poteano godere le classi possidenti ed agiate. Quella popolazione dalla natura dotata dei’ mezzi intellettuali più pronti, ricca d’ingegno e di genio, svegliatissima per costume e per indole, giaceva nullameno sepolta nella più supina ignoranza. E come avviene d’un terreno ubertoso che, abbandonato ed incolto, maggior copia produce di triboli e spine, cosi quelle anime appassionate ed ardenti, cui l’educazione avrebbe potute elevare al più alto grado di civiltà e di progresso, abbandonate a sé stesse maggiormente ingolfavansi nella fogna dei vizii. La stessa forza produttrice che bene regolata e diretta apporta buonissimi frutti, negletta o traviata da pessimi esempii produce deplorabili effetti. A tali cause unicamente debbonsi ascrivere le ribalderie di malviventi e briganti, di scrocconi e ruffiani, e i pregiudizii e i disordini che funestan da secoli quella terra diseredata e infelice.
XXVIII.— La gelosia del governo e le arti della polizia aveano fatto della Sicilia un paese cosi estraneo e lontano all’Italia e all’Europa siccome il Paraguay od Haiti. Abbiamo, egli è vero, delle nozioni sicure intorno alle Indie britanniche e le Repubbliche americane del nord-: ma né lo statista, né il geografo può conoscere perfettamente l’anagrafe o le condizioni del suolo in Sicilia. I viaggiatori italiani, francesi ed inglesi, che a migliaia percorrono continuamente i punti più remoti del globo, mai volontieri esponevansi alle vessazioni ed ai pericoli di un viaggio in Sicilia. I Siciliani per contro, condannati ad una infanzia perpetua, difficilmente ottenevano il passaporto o un permesso per l’estero. L’isolamento in cui vivevano inselvatichiva, per cosi dire, le anime e le escludeva dal consorzio internazionale e dalla vita scientifica odierna. Nella stessa guisa che prima della spedizione dei mille non conoscevamo se non imperfettamente le condizioni interne dell’Isola, i Siciliani non avevano che vaghe ed incerte nozioni degli avvenimenti che accadevano al di fuori del loro paese. A Palermo, capitale e città vastissima e popolosa e seggio principale della scienza siciliana, i Garibaldini trovarono sorpresi una popolazione che ignorava perfino le notizie ed i fatti recenti d’Italia. Non l’infima plebe soltanto ma le classi superiori ed istrutte mostravano ignorare i particolari della campagna lombarda, e con puerile attenzione ne ascoltavano il racconto dal labbro dei nostri (97). Quella tetra ove tutte si confusero le razze e le idee del mondo civile e fu culla del sapere e della lingua italiana gemeva ultimamente sepolta nel più silenzioso abbandono. I Greci, i Latini, gli Arabi, i Normanni vi portarono i loro lumi, la loro sapienza amministrativa e politica, l’avventurosa immaginazione ed il valor militare: tutto fu invano: il dissolvente regime aragonese e spagnuolo, un’abbietta superstizione e la polizia dei Borboni bastarono a sradicarvi il germe delle virtù civili e sociali ed a respingere il paese nell’antica ignoranza e barbarie.
XXIX.— La Sicilia, come tutti conoscono, e l’Isola più bella e più vasta del Mediterraneo, e fermò per lungo tempo l’attenzione ed il desiderio di nazioni e di principi. Essa giace 36,59′ 38,14′ latitudine boreale e 29,59′ 33,2l’ di longitudine dall’Isola del Ferro. Dalla punta di Milazzo al Capo Passaro ha in larghezza 118 miglia: da Trapani al Capo Piloro 186 in lunghezza e 735 in circuito. Comprende sette provincie: Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Caltanisetta, Girgenti, e Trapani; e conta 352 città e luoghi murati, 111 borghi e 112 villaggi minori. La popolazione disseminata su questa spaziosa superficie, secondo un calcolo che par verisimile (giacché regolare anagrafi non vi fu mai stabilita) varia da 1,900,000 a 2,100,000 abitanti.
Abbondano i mari all’intorno di pesca: l’interno è ricco di acque e di boschi e di prodotti minerali ed agricoli. La Sicilia ben coltivata e resa mediante saggi ordinamenti all’odierno progresso potrà ridivenire il granaio d’Italia e duplicare e triplicare il numero attuale de’ suoi abitatori.
XX.— Abbiamo soltanto enumerato una parte delle piaghe che afflissero quell’infelice paese: a descrivere minutamente le ingiurie patite, i sacrificii durati sarebbe necessario un intiero volume. Ricapitolando le cose già dette possiamo ora concludere: Il mal governo di più secoli ha trascinato la Sicilia all’infimo dell’abbrutimento e della barbarie. Le industrie e le manifatture son nulle, nullo o poca cosa il commercio, negletta l’agricoltura, ed il suolo in gran parte improduttivo ed incolto. Senza strade e veicoli, le relazioni coll’interno e coll’estero vi sono rade, brevi, interrotte: l’interno egualmente e le coste vengono continuamente infestate da bande di malviventi di tutte le condizioni e d’ambo i sessi. Una immensa associazione di ladri e banditi la percorre su tutti i punti, ne mette a contribuzione le città ed i villaggi, e vende a contanti la sua protezione, per avventura più valida di quella del potere legittimo. La professione di assassino e sicario vi è liberamente esercitata e protetta, se non dalla complicità, dalla negligenza, e dal mutismo del potere politico. La religione, quest’ultimo rifugio delle anime entusiaste ed ardenti nelle più tristi calamità della vita, vi è avviluppata e deturpala da pregiudizii ed errori, o per dir meglio non è religione ma superstizione cieca, brutale e profonda. Senza scuole e convegni, isolati da sé stessi e dagli altri, i popolani crescono ignoranti egualmente e fanatici. Le leggi, principale santuaria dell’ordine e del progresso sociale, vi sono vilipese e schernite, né il popolo può rispettarle, comeché continuamente violate dall’arbitrio del governo, e perché non si possono venerare istituzioni che non offrono garanzia o protezione veruna. I sentimenti del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, d’onore e d’infamia vi sono pervertiti dalla continua depravazione dei costumi e degli animi. A tale ha potuto condurre un paese la politica infernale della corte borbonica: ora la Dio mercé il regno di Satana è giunto al suo termine: e noi vedremo la Sicilia riunita alla patria comune elevarsi tra breve nella via del progresso all’altezza di paese europeo ed italiano.
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