LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (VII)

LIBRO VII
Garibaldi in Sicilia — Successive spedizioni
I.— Appena Garibaldi poneva piede in Marsala assumeva il governo, come si disse, dell’Isola ed arditamente accingevasi ad ordinarla nel modo che la gravità delle circostanze e l’interesse d’Italia il volevano. Alla promulgazione della dittatura avvenuta a Salemi tenne dietro la nomina di un secretario di Stato nella persona di Crispí (98), l’elezione dei governatori pei paesi già liberi (99), ed il decreto di leva militare col quale chiamavansi alle armi i cittadini dagli anni 17 ai 50 (100). L’armata Siciliana, a tenore dello stesso decreto, doveva essere divisa in tre classi: la prima abbracciava la gioventù dai 17 ai 30 anni: la seconda gli adulti dai 30 ai 40, e finalmente la terza, o riserva, comprendeva coloro che avevano tocco il 40.° e non avevano ancora raggiunto il 50.° anno di età. Il giorno seguente una ordinanza dittatoriale imponeva ai comuni il pagamento provvisorio dei danni che la guerra avvia cagionati (101).
II.— Nello stesso tempo spediva il generale Giuseppe La Masa, comandante la quarta compagnia appartenente alla spedizione dei mille, nelr interno dell’Isola dove ritenevasi aver egli di molti aderenti ed ove la sua cooperazione poteva chiarirsi di maggiore vantaggio che al campo (102). Né comunque occupalo nelle cose di guerra e del nuovo ordinamento della Sicilia, il Dittatore dimenticava gli amici lontani: più lettere di lui si conoscono scritte in quei memorabili giorni, colle quali rinvino guerriero dava ai patriotti Pannunzio dei successi ottenuti ed a sollecitare esorlavali rinvio di munizioni e di truppe.
III.— Penetrato in Palermo ponevasi come la sola e legittima autorità del paese, e con suo proclama apprendeva agli abitanti dell’Isola lo scopo che lo aveva condotto, il fine che s’era proposto ed il principio politico che unicamente rappresentare intendeva in Italia (103). Il successivo mattino veniva istituita una Commissione per la pubblica difesa, ed il Duca della Verdura eletto ne fu presidente (104). Essa doveva sopravegliare alla costruzione ed al mantenimento delle barricate e delle opere militari elevate nell’interno della città, alle ambulanze ed alla sussistenza dei Picciotti e dei militi. Poco dopo stabili vasi su libere basi la questura nazionale ed un decreto emanavasi portante l’ordinamento delle milizie cittadine, composto del presidente Conti, di Acerbi, Calvino, Narciso Cozzo, D’Ondes Reggio e Bentivegna (105).
IV.— Lo stesso giorno un ministero veniva formato e, dopo, tanti anni di vessazioni e d’arbitrii, il paese vedovasi regolato dal proprio governo (106). Contemporaneamente delle commissioni speciali incaricate dell’amministrazione della giustizia. della riscossione delle pubbliche rendite e della raccolta delle offerte che privati e comuni fatte avrebbero alla causa nazionale (107). Passavasi quindi a guarentire la sicurezza delle proprietà e delle vite comminando agli omicidiarii ed ai ladri il rigore delle leggi militari e la pena di morte (108). A tenore di una precedente disposizione dittatoriale i volontari furono assoggettati alla legislazione contenuta nel codice militare sardo, mentre gl’isolani rimanevano sottoposti agli statuti ed alle leggi in vigore prima del 15 maggio 1849 (109). Da ultimo si presero le misure opportune pel rinnovamento o pel ristabilimento dei Municipii dell’Isola (110).
V.— Un avvenimento accaduto a que’ giorni e che fa grande onore al general Garibaldi, merita esser qui riferito. Il senato o municipio di Partinico, riconoscente della libertà conquistata, unanimemente decretava al Dittatore una statua, monumento di affetto e di gratitudine all’uomo che aveva sottratto il paese agli artigli del despotismo borbonico. Il 2 giugno quella decisione veniva comunicata al Dittatore, il quale rispondeva in data del 4: — «Ringraziar egli di tanta cortesia il municipio di Partinico, ma ricordargli in pari tempo ch’egli s’era recato a guerreggiare e a non altro in Sicilia, e ch’egli non poteva approvare altre spese che quelle le quali alle operazioni guerresche si riferissero. Lasciassero impértanto di pensare alle statue, ed il denaro che in esse sprecherebbero nella compera d’armi e munizioni impiegassero. Concorressero infine al sostegno dell’unità nazionale per cui combattevasi, ed «avrebbero messa la prima pietra all’innalza«mento del primo fra tutti i monumenti (111).»— Il municipio di Partinico, vinto dalla generosa risposta del Generale, erogò a favore della guerra la somma suddetta, e gli rimise il diploma di cittadinanza che venne cortesemente accettato. —
VII.— La formazione dell’esercito, e per le condizioni dei mille e per le circostanze speciali dell’Isola diveniva sommamente scabrosa e difficile. Nell’armamento come nell’amministrazione la Sicilia trovavasi qual’era due secoli addietro. La politica iniqua ed egoistica del governo borbonico abborriva dall’accordare a’ suoi popoli l’uso o vogliasi dire l’istruzione della vita militare. Infatuata ne’ vecchi pregiudizii e persuasa non poter governare se non col tenere i suoi popoli ignoranti e corrotti, la Corte napoletana odiava perfino la diffusione di quelle idee che s’acquistano col contatto della folla tra le mura di una caserma o tra i colloquii d’un corpo di guardia. Impértanlo la coscrizione militare non era mai stata stabilita né conosciuta in Sicilia: e l’ignoranza come pure l’attaccamento agli antichi sistemi ed abusi potevano altamente attraversare l’opera riformatrice del Generale italiano.
VIII.— Un’ordinanza del Ministero della guerra promulgava il decreto dittatoriale sulla leva e stabiliva il numero dei coscritti nella proporzione del due per cento sulla popolazione totale dell’Isola (112). Un’altra ordinanza fissava i giorni 18, 18 e 20 giugno per la presentazione delle liste complete, per l’estrazione dei numeri e per la consegna dei coscritti medesimi (113). Allo stesso tempo, quasi per vincere l’avversione degl’isolani alla istituzione della leva militare, come pure ad interessarli maggiormente a concorrervi, fu emanato un decreto che largamente provvedeva alle famiglie dei soldati che sarebbero morti o feriti, ed alla miseria dei loro fratelli superstiti. Con questo decreto ispirato alle idee liberali e patriottiche di Garibaldi, e vero monumento legislativo di sapienza politica, decretavasi: — «I figli dei morti in difesa della causa nazionale sarebbero adottati dalla patria ed educati e nutriti a spese dello Stato, sino all’età di anni 17, se maschi, e sino ai 16 anni, se femmine. Le vedove godrebbero di una pensione conveniente al loro stato: ed i soldati mutilati o feriti nella guerra nazionale verrebbero raccolti in apposito ospizio e mantenuti dal pubblico erario.» Finalmente una pensione colle norme suespresse accordavasi alle famiglie delle vittime del 14 aprile (114). —
IX.— Un altro decreto, eminentemente ispirato alle idee di libertà e rivoluzione, fu quello che stabiliva il compenso da accordarsi ai soldati d’Italia. Una delle moltissime piaghe dell’Isola sono per lo appunto i latifondi numerosi e vastissimi posseduti dalle comunità e da tempo immemorabile lasciati ad uso di boschi o di pascoli. Quelle terre, abbandonate a deplorabile incuria, come tutte le proprietà comunali, giacciono incolte e pressoché improduttive, mentre ridonate al lavoro potrebbero sensibilmente aumentare la ricchezza agricola del paese. Negli ultimi anni del regno borbonico varie volte si fecero pratiche e progetti per dividere tra i cittadini quelle proprietà, e sempre con infelice successo. L’avversione del governo alle novità, ed i pregiudizii popolari, e più di tutto le tristi condizioni dell’Isola concorrevano a sventare l’ardito e profondo disegno. Avuto Garibaldi le redini del nuovo governo ritrovò negli ufficii le pratiche di già intavolate, e come gli parvero di somma utilità, diede le disposizioni perché fossero al più presto eseguite. Adottata la massima che le terre comunali atte a coltura dovessero tra i cittadini dividersi, decretò che nella divisione medesima una porzione di dette terre, talora il doppio dello spazio accordato agli altri abitanti, fosse a titolo di militare compenso concesso ai soldati. E siccome non tutte le comunità possedevano terre a cui fosse il decreto dittatoriale applicabile, stabili che i militi appartenenti ad esse ricevessero in quella vece un adequato compenso coi beni immobili di proprietà dello Stato (115).
X.— Lungo e difficile sarebbe enumerare o trascrivere il numero prodigioso di leggi e decreti comparsi in que’ giorni a Palermo: leggi e decreti riguardanti il riordinamento degli ufficii, dell’amministrazione, delle milizie e della guerra. Garibaldi e gli uomini che seco egli assunse al governo mostrarono quanto possa amor di patria congiunto ad un attività senza pari, ad un audace coraggio e ad una pratica conoscenza delle cose e dei tempi. L’amministrazione dittatoriale, o si considerino le circostanze in cui allora versava il paese od i risultali che ne derivarono, non poteva essere né più cauta né più profondamente sagace. In pochi giorni dagli ufficii scomparve ogni traccia dell’antico disordine, vennero le volute riforme applicate senza opposizione od ostacolo, e per quanto il comportava lo stato transitorio e precario negli affari, rinacque la sicurezza negli animi e la fiducia nei cuori: grazie all’energico genio del Dittatore la crisi passò, si può dire, inosservata, ed i pericoli che minacciavano il nuovo ordine di cose furono scongiurati con un’abilitàmeritevole degli applausi di tutti. Alle difficoltà senza numero che si vedevano ognora e dovunque ripullulare tra i piedi, i Garibaldiani seppero porre riparo come se, non uomini nuovi ma, stati fossero antichi governanti e ministri. Con sollecitudine veramente maravigliosa, che solo trova riscontro nella memorabile storia del 1789, eglino riuscirono a formare ed ordinare un esercito, a riformare l’organismo dello Stato, a regolare la percezione delle imposte, a guarentire il pagamento delle rendite ed a porre; l’amministrazione sopra una base novella di libertà e di patria. In appresso eglino furono, è vero, ingiustamente accusati di colpe esagerate o supposte e calunniati e denigrati: ma verrà giorno che, sottratta all’influenza dei cospiratori e dei settarii, l’Italia riconoscerà tutto il bene da essi operato e sarà larga di laudi e d’encomii a Garibaldi ed a’ suoi, l’Italia riconoscerà, e Dio voglia che ciò non avvenga tra breve, che i detrattori dei Garibadiani fatto avrebbero meglio e per sé e per tutti ad imitarne e seguirne l’abnegazione e l’esempio.
XI.— Allo stesso tempo Garibaldi sollecitava da Genova nuove spedizioni ed invii di soldati e di munizioni da guerra (116). Le recenti vittorie, la convenzione stipulata con Lanza ed il possesso di Palermo ponevano a sui disposizione immensi materiali da campo, ma con tutto ciò difettava di quello che in guerra è più strettamente necessario, cioè di soldati. Un ministro italiano non si peritava in Parlamento asserire che coll’oro si fanno miracoli: un celebre capitano affermò che il danaro costituisce il nerbo della forza militare} tuttavia l’esperienza dimostra essere di gran lunga più facile coi soldati procacciare danari che con questi trovare soldati. Ed invero Garibaldi, lo, confessava egli stesso, poteva in quei giorni disporre di mezzi immensi e nondimeno scongiurava il comitato di Genova a spedirgli pronti sussidii, ed autorizzava il deputato Bertani a contrarre in suo nome qualunque debito che fosse necessario all’apprestamento di nuove milizie (117).
XII.— Diffatti, sebbene vittorioso e tranquillo possessore di una vasta capitale e d’immense ricchezze, le sue condizioni non erano punto migliori di quelle in cui a Calatafimi od a Marsala trovavasi. Garibaldi non disponeva che di una forza insignificante per armamento e per numero ed aveva pur anco a lottare contro una formidabile armata. L’immenso materiale rinvenuto nei magazzini di Palermo consisteva per la massima parte in oggetti d’armamento e vestiario deperiti o guasti od inservibili. Dall’altro canto la cifra, dei Mille era stata, e per le malattie e per la, guerra, grandemente ridotta, per modo che dalle forze che potevansi porre in campagna grandi risultati sperar non doveasi. Le poche migliaia d’isolani accorse ad ingrossare l’esercito liberatore non valevano, né per disciplina, né per audacia, a riempire il vuoto lasciato dalle vicende del rampo nei Mille. I Napoletani per contro, malgrado le numerose diserzioni e le perdite sostenute, conservavano in Sicilia delle forze imponenti ed inoltre appoggiate alle principali fortezze dell’Isola. Possessori di una magnifica flotta eglino rimanevano eziandio padroni del mare e potevano in conseguenza ritirare da Napoli pronti ed immediati soccorsi di munizioni e di truppe.
XIII.— Alcuni biasimavano il lungo soggiorno di Garibaldi in Palermo. Essere imperdonabile errore, dicevano, addormentarsi sui trionfi ottenuti: non doversi in guerra, dopo rotto, al nemico dar tempo di riaversi, di riordinarsi e di ritornare in campagna. Mille campagne essere state perdute unicamente per non avere saputo approfittare dei primi vantaggi. Ottenuta la vittoria doversi perseguitare l’avversario, non lasciargli posa né tregua, e bersagliarlo e completamente disperderlo. Colle giornate di Montenotte e di Rivoli aver Bonaparte costretto gli Austriaci ad evacuare il Piemonte e la Venezia, mentre la vittoria di Goito, per non avere saputo giovarsi del tempo, nel 1848 condusse alla perdita di Vicenza ed alle funeste giornate di Custoza e Novara. Garibaldi in Sicilia aveva respinto gli attacchi di Monreale, di Parco e Corleone edebellato intieramente il nemico a Cablatimi e nella stessa capitale dell’Isola. I Borboniani disordinati ritiravansi davanti all’impeto dei mille Garibaldini e ritraevansi nelle fortezze situate sulle coste orientali del paese. Un generale avveduto ed energico avrebbe quindi creduto necessario impedire il concentramento delle loro forze e con un’abile manovra nell’interno dell’Isola rompere e disperdere le truppe separate del nemico e presentarsi davanti a Messina prima che venisse munita ed apparecchiata alla difesa. L’inazione di Palermo poteva compromettere il tutto, se la fatale fortuna di Garibaldi non avesse con lui congiurato.
XIV.— Tali riflessioni, in altre circostanze potrebbero sembrare giustissime, ma nelle terribili angustie nelle quali Garibaldi in que’ giorni versava non erano né opportune né solide. L’esercito borboniano, benché vinto e disfatto e malgrado le numerose diserzioni che giornalmente lo affievolivano, ammontava a non meno di quaranta mila soldati: il più piccolo corpo napoletano superava di gran lunga l’intiera armata garibaldiana. Avventurarsi nell’interno dell’Isola, tuttavia percorsa e tenuta dai Regii, stato sarebbe quanto esporsi all’attacco di innumerevoli distaccamenti nemici, ciascuno de’ quali poteva bastare a resistere ai cinquecento volontari che soli oggimai rimanevano atti a sopportare le fatiche del campo. Per lo che, se l’inazione d’un mese concedeva al nemico la facoltà di riaversi dalle tocche sconfitte e di apparecchiarsi a nuove contestazioni, essa dava pure a Garibaldi agio e potere di formare un’armata e di trarre dall’Alta Italia, seggio di patriottismo e valore, nuove schiere di amici e di prodi. Oltre di ciò il Dittatore non doveva abbandonare Palermo senza aver prima riordinato e riformato l’amministrazione dell’Isola, e senza farsi con savii ordinamenti una base ed un appoggio per le future operazioni di guerra.
XV.— Né gli amici dell’unità nazionale inoperosi frattanto giacevano. L’entusiasmo suscitato dalla fortuna e dal successo della prima spedizione elettrizzava la gioventù e trascinavala in massa a dare il nome per una futura spedizione. Moltissimi che, o per la distanza o pel secreto e la celerità colla quale fu eseguita la prima partenza da Genova, non poterono avervi parte, altamente gridavano per una futura imbarcazione che li trasportasse in Sicilia. Verso il finire del maggio circa quattro mila uomini raccolti nelle principali città circumpadane attendevano con generosa impazienza l’istante di salpare da Genova.
XVI.— Siccome il descrivere minutamente il viaggio delle spedizioni ulteriori ci porterebbe in lungo assai più che noi consenta l’indole del nostro lavoro, crediamo conveniente restringere in poche pagine, e quasi in un quadro, tutto ciò che si riferisce alle spedizioni suddette ed agli incidenti principali che v’ebbero luogo. In tal guisa perverremo altresì a semplificare la storia dei fatti, non essendo ad ogni istante costretti ad interrompere la narrazione per ricordare sotto la, rispettiva loro data gli arrivi in Sicilia dei nuovi patriotti. Dai primi di giugno a tutto settembre una intiera flotta si trovò continuamente occupata a trasportare da Livorno e da Genova le numerosissime schiere di volontari che all’appello di Garibaldi parevano ripullulare e centuplicarsi fra noi.
XVII.— Dopo la partenza di Garibaldi una profonda scissura si manifestò tra coloro a cui aveva egli dato l’incarico di provvedere all’arruolamento ed alla spedizione di nuovi corpi di volontari in Sicilia. Al dottore Agostino Bertani aveva affidato la missione di raccogliere la gioventù mentre il colonnello Giacomo Medici veniva destinato ad istruirla e condurla. A tenore della lettera di Garibaldi in data 5 maggio Bertani era il solo autorizzato a rappresentare il Generale durante la campagna dell’Isola. Bertani assumeva in conseguenza la rappresentanza ufficiale del capo della spedizione e fondava in Genova la Cassa Centrale dei soccorsi a Garibaldi aggregando all’ufficio d’amministrazione Federico Bellazzi, Antongina e Brambilla.
XVIII.— L’istituzione della Cassa Centrale parve ben tosto sospetta al partito che avrebbe voluto frenare lo slancio della nazione e che in ogni evento apparecchiavasi a stringere nelle proprie mani la somma delle cose. Era stato impossibile trattenere Garibaldi nell’inazione a cui lo si aveva condannato dopo il suo ritiro dall’Italia del centro: tuttavia il partito medesimo non disperava di approfittare delle eventuali vittorie dei Mille per accrescere ed allargare la propria influenza. Siccome il partito che più aveva a cuore l’adempimento dei nazionale programma e che maggiormente pareva infervorato per la causa della rivoluzione era appunto quello che s’era mai sempre vilipeso ed osteggiato, non volevasi lasciargli la gloria di avere compiuta da sé cosi grande intrapresa. Garibaldi poteva cadere, ma eziandio la vittoria poteva incoronare i suoi sforzi: in ogni caso i moderati volevano che la nazione non potesse accusarli di non avere favorito le operazioni guerresche dei Mille. Il partito moderato, capitanato dallo stesso conte Cavour, non mai sarebbesi indotto a rinunciare alla sua parte nelle glorie nazionali ed a lasciare agli avversarii il vanto d’avere essi soli cooperato alla liberazione di si gran parte d’Italia.
XIX.— Ma il conte di Cavour, politicamente vincolato dalle convenienze diplomatiche, non poteva prendere negli affari della Sicilia, almeno ufficialmente, quella parte che avrebbe voluto. Egli aveva condannato ne’ dispacci e ne’ suoi discorsi al Parlamento la spedizione di Garibaldi: come ministro e come alleato di Napoleone doveva avversare in Italia ogni movimento rivoluzionario e popolare. Dall’altro canto come capo della rivoluzione italiana non era di suo interesse abbandonarla in balìa di se stessa. Non potendo frenarla egli sforzavasi a dominarla e guidarla ad una mela che punto non offendesse le aspirazioni e l’interesse dei moderati. A tale oggetto egli si serviva di un uomo in Italia notissimo e che da più anni s’adoperava a regolare le cospirazioni patriottiche secondo le mire del suo illustre padrone. Quell’uomo fu il La-Farina.
XX.— Giuseppe La-Farina, Siciliano di nascita, un tempo seguace di Giuseppe Mazzini e focoso odiatore dei Re, cattivo letterato e storico peggiore, s’era da più anni assunta la missione di scavalcare nell’opinione dei cospiratori la popolarità del suo antico maestro. Nel 1848 eletto deputato all’Assemblea Siciliana divenne ministro della pubblica istruzione: ma ben tosto, non bastandogli il posto che occupava, brigò ed ottenne la carica di ministro della guerra. Nel 1849, ricaduta la Sicilia sotto il dominio borbonico, si recò all’estero dove riprese la vita del cospiratore sotto l’alta autorità di Mazzini. Dopo il 1853 comparve in Piemonte con una sua storia d’Italia abborracciata alla meglio e da cui trasse un discreto peculio. Ben presto l’aura della capitale subalpina produsse il non singolarissimo effetto di cangiare un demagogo fremente in un campione della moderazione e dell’ordine. Unitosi al marchese Giorgio Pallavicino egli fondò in Torino la così della Società Nazionale, il cui scopo era quello di bilanciare l’influenza della cospirazione mazziniana nelle schiave provincie d’Italia e di moderare la rivoluzione a beneplacito e secondo le istruzioni del più grande fra gl’italiani ministri. In tal guisa La-Farina divenne il capo visibile d’un’immensa propaganda politica diramatasi dall’estrema Sicilia all’Isonzo.
XXL— Si vuole che La-Farina abbia fatto la sua conversione dopo essersi effettivamente convinto che l’avvenire ed il bene d’Italia esigessero da lui il sacrificio delle antiche opinioni. Non contestiamo agli uomini onesti il diritto di ricredersi da un’erronea opinione ogni qualvolta, dietro un più maturò esame dei fatti, la riconoscan per tale. Nella stima del vero e del falso la natura umana è sovente peritosa ed incerta: sedotta da vane apparenze essa può cadere in errore, ed è privilegio delle anime nobili il farne onorevole ammenda. Ma lo storico imparziale osserverà con un riso che il vantato sacrificio del signor La-Farina fu troppo largamente ricompensato dalla nuova sua posizione, da onori e da cariche; com’egli, abbandonando Mazzini, siasi elevato alla dignità di capopartito e di fondatore d’una immensa propaganda politica, laddove, se fosse rimasto fedele alle antiche dottrine, non mai si sarebbe innalzalo al di sopra dei cospiratori volgari. Se disinteressato e spontaneo il sacrificio è lodevole e santo: ma quando se ne traggono de’ vantaggi o materiali o morali perde il suo naturale prestigio ed assumo le esigue proporzioni d’un calcolo. È lecito perciò dubitare della rettitudine politica del signor La-Farina: non è facile decidere se la sua conversione alle idee moderate sia stata ispirata da profonde convinzioni o dall’amor di se stesso.
XXII.— Del rimanente nessuno contesta a La-Farina il suo amore all’Italia. Come cospiratore, come letterato e come caposcuola s’adoperò con istudio indefesso al bene ed alla futura liberazione della patria comune. La Società Nazionale da lui nel 1854 fondata a Torino si diffuse rapidamente per tutto il paese e produsse buonissimi effetti. Egli avrebbe potuto fare assai più: e forse l’azione di lui sarebbe stata ben altrimenti vantaggiosa all’Italia s’egli stato non fosse vincolato dagl’interessi della fazione che aveva ultimamente sposata. Le ispirazioni del partito moderato frenarono lo slancio dell’antico settario, ed egli fu condannato a rattenere l’impeto di quella rivoluzione che come cospiratore dovea suscitare dovunque. Singolare destino degli uomini collocati in una falsa posizione si è quello di trovarsi sovente costretti a disfar colla destra ciò che hanno colla sinistra operato.
XXIII.— La-Farina, per metà mazziniano e per metà convertito alle più vantaggiose opinioni del moderantismo, cospiratore ad un tempo e servitore devoto, era l’uomo più adatto a compir la missione che i suoi nuovi maestri affidavangli. Era ovvia la via che doveva percorrere: primamente bisognava conservare la popolarità col cessare da una ingiusta ed illiberale opposizione ai piani di Garibaldi, ed in secondo luogo accentrare nelle meni di gente fedele e sicura l’amministrazione delle spedizioni e l’arruolamento dei volontari; A sorvegliare i movimenti del partito italiano, onde non prorompesse ad alti ostili o compromettenti il governo, era d’uopo che gli ufflcii ed i comitali interamente da lui dipendessero. Se non che la Gassa Centrale istituita dal deputato Bertani parca composta in guisa da escludere perfino il sospetto che La-Farina mai polisse esercitarvi veruna influenza.
XXIV.— Allora si ricorse ad altri spedienti. A fianco della Cassa Centrale fondavasi in Genova, pochi giorni dopo la partenza dei Mille, un Ufficio militare, destinato al medesimo oggetto, quello di raccogliere armi, danari e soldati per Garibaldi. La-Farina, che non osava o non volea comparire siccome l’anima della nuova istituzione, la facea rappresentare dal colonnello Giacomo Medici. Ambedue questi ufficii, sovente discordi e talvolta in aperta collisione fra loro, gareggiavano ciò non pertanto di zelo e d’attività nell’inviare al condottiero italiano frequenti e numerosi soccorsi.
XXV.— Durante il maggio i volontari accorrevano numerosissimi a Genova ed impazientemente attendevano che un nuovo trasporto li conducesse in Sicilia. La vittoria di Calatafimi e l’espugnazione di Palermo avevano suscitato nell’Alta Italia un entusiasmo indicibile, e la gioventù generosa anelava a raggiungere il suo naturale condottiero ed a dividere con lui le glorie ed i pericoli della presente campagna. La seconda spedizione era pronta e solo attendevansi da Marsiglia i vapori, a tal uopo acquistati, a trasportarla in Sicilia.
XXVI.— Fu allora che nacque tra la Cassa Centrale e l’Ufficio militare il primo dissidio. Appoggiandosi al desiderio espresso da Garibaldi, Bertani voleva colla seconda spedizione approdar negli Abbruzzi ad oggetto di operare una diversione ed impedire al governo di Napoli di mandare nuove truppe in Sicilia. Ma siccome lo scopo principale del piano suddetto era quello di compromettere diplomaticamente il governo e di trascinarlo ad abbracciare la politica della rivoluzione, le ragioni addotte da Bertani in sostegno de’ suoi progetti non potevano a La-Farina sembrare ammissibili. Si obbiettò, ed a ragione, che mentre Garibaldi si trovava con soli mille uomini di fronte all’esercito regio sarebbe stata follia e temerità disseminare le forze anziché concentrarle dov’era maggiore il bisogno. Militarmente parlando i La-Fariniani dicevano il vero: uno sbarco nelle Romagne o negli Abbruzzi poneva i volontari nella necessità di lottare cogli eserciti pontificio e borbonico e forse anche colle truppe della occupazione francese. All’opposto in Sicilia non aveasi a combattere che l’armata già vinta e disordinata del Lanza, né era credibile che la Corte di Napoli, in vista dei movimenti insurrezionali manifestatisi eziandio nelle città di terra ferma, osasse spedire nuove forze nell’Isola.
XXVII.— Il partito migliore la vinse la seconda spedizione fu diretta in Sicilia. I vapori acquistati dai signori Finzi e Mangili a Marsiglia gettarono verso i primi di giugno l’ancora a Genova. Due fra questi, l’Helvetie e l’Oregon (il primo de’ quali issando bandiera americana assunse il nome di Washington), si fermarono a Genova: il terzo partì per le acque toscane ove un corpo di 800 uomini lo attendeva con Malenchini a Livorno. I preparativi per la partenza si fecero colla massima celerità: se non che l’affluenza dei volontari era tale che i legni acquistati non bastarono a condurli in Sicilia. In conseguenza si noleggiarono un clipper americano, il CharlesGeorges ed il piroscafo l’Utile che dovea rimorchiarlo (118). Questi ultimi furono i primi a salpare: essi presero il largo la mattina dell’8 giugno nelle vicinanze di Cornigliano con oltre 900 soldati. Il mattino del 10 furono seguiti dall’Oregon e dal Washington che lasciarono Sestri con circa duemila e cinquecento volontari ed ufficiali.
XXVIII.— La seconda spedizione fu fatta precipuamente e diretta dai La-Fariniani, ed i volontari, specialmente quelli del clipper, lamentavano che mentre s’avea rifiutato l’iscrizione di giovani colti e virtuosi si fossero tra i moltissimi buoni arruolati non pochi di borsaiuoli e di ladri. L’accusa è grave, ma la troviamo espressamente formulata nel giornale di un Garibaldino inserito nei fogli di Genova (119). Esso biasima acremente la condotta del comitato; i fatti che rapporta sono piani ed espliciti; l’ingegnere Luigi Tentolini veniva derubato d’una borsa contenente cento e dieci lire; un ufficiale, Carcano di Milano perdette due viglietti di banca ammontanti a cinquecento lire; un terzo Garibaldino (io fremo in accordargli tal nome) fu posto in catena qual ladro (120). Quando si confronta la cura che Garibaldi già mise nel raccogliere i volontari della prima spedizione onde non avesse ad introdursi nelle file alcun sinistro elemento, colla negligenza del signor La-Farina, non si può non esprimere indignazione e sorpresa. Forse La-Farina, ad uomini illuminati e d’inconcussa fede rivoluzionaria, preferiva esteri ed ignobili che non avevano alcuna opinione o che non rifuggivano all’uopo di venderla a prezzo. Esseri si fatti si trovane pur troppo tanto all’alto che al basso della scala sociale e sono il disonore del partito nel quale s’intrudono (121). Forse voleasi con ciò preparare il terreno a rendere le calunnie probabili che si rovesciarono poscia sul benemerito esercito dell’Italia Meridionale: calunnie che, sebbene stolte ed assurde, non mancarono di trovare credenza presso una parte del popolo. Pur troppo v’ha taluno che guasta tutto dove pone la mano.
XXIX.— Alle otto mattutine del giorno seguente 9 giugno due legni napoletani da guerra, l’Ettore Fieramosca ed il Fulminante raggiunsero il clipper e l’Utile mentre questi, girando il promontorio Corso, veleggiavano verso le acque Toscane. Nell’avvicinarsi i due legni borbonici innalzarono il grido di viva Garibaldi e l’Italia: i volontari, non sospettando l’agguato che loro tendevasi, risposero al grido traditore con fragorosissimi applausi. I Napoletani, fatti certi che i due legni appartenevano alle spedizioni garibaldiane, issarono bandiera borbonica ed intimarono loro di arrendersi. I due navigli, comeché destituiti d’ogni difesa, costretti trovaronsi ad obbedire all’imperioso comando accompagnato da qualche colpo di cannone che per fortuna non arrecò nessun danno (122). I Borboniani attaccarono l’Utile.
XXX.— Più fortunati l’Oregon ed il Washington (123) salparono il giorno dopo dal medesimo porto e si ancorarono il 15 in vista di Cagliari, ivi sostarono ad ordinare militarmente le truppe, a formare le compagnie ed i battaglioni, a vestirli ed armarli, giacché volevasi pervenire in Sicilia con milizie già pronte ad entrare in campagna. Quindi ripresero il largo condotti dalla stella che aveva guidato Garibaldi a Marsala, e dopo una prospera navigazione gettarono l’ancora nella baia di Castellamare alle cinque e mezzo pomeridiane del giorno 17 maggio. Di là i volontari si riposero la sera stessa in viaggio e giunsero ad Alcamo, e quindi si diressero per la via di Partinico e Monreale a Palermo.
XXXI.— Partito da Genova Medici, il commilitone ed amico di lui colonnello Enrico Cosenz ricostituì l’Ufficio militare, e di concerto colla Cassa centrale, si accinse ad ordinare la terza spedizione. Questa fu in pochi giorni completa: e l’affluenza dei volontari., accorrenti a dare il nome alla patria, parve sì grande che si credette necessario sollecitare la partenza per dar luogo a chi doveva arrivare. Il 29 giugno salpava il Medeah con seicento cinquanta reclute (124), e fu il 2 luglio seguito dal Provence e dal Washington (a tal uopo richiamato di Sicilia) il primo con settecento settanta, il secondo con mille duecento settanta soldati. In pochi giorni, compiuto il tragitto, ritornava il Provence per un nuovo viaggio, ed unitamente al Samnon ripartiva il successivo 9 luglio colla forza complessiva di mille trecento uomini (125). Se non che il numero degli affluenti era tale da non poter capire sui legni di già apparecchiati: per cui si trovò necessario noleggiare due altri trasporti, l’Isère il quale con quattrocento volontari inviavasi il giorno dopo in Sicilia e la City of Aberdeen che ne portava con sé novecento. Finalmente il 13 salpava da Genova il vapore l’Amazon coi volontari del Clipper e dell’Utile, i quali, dopo un mese di prigionia sopportata a Gaeta, rilasciati dal governo borbonico, ansiosamente accorreano in Sicilia a misurarsi coi loro oppressori ed a prendere la loro rivincita.
XXXII.— A mezzogiorno dell’11 il Clipper e l’Utile, rimorchiati dalle fregate napoletane che li avevan sorpresi, entrarono nel porto di Gaeta. Durante quell’angoscioso viaggio furono essi di frequente fatti segno e bersaglio alle ire de’ soldati borbonici, i quali credevano forse ricattarsi delle tocche sconfitte coll’infierire sui prigionieri e gl’inermi. Il tragitto dal Capo Corso, dove i due legni vennero presi, a Gaeta aveva durato quarant’ore all’incirca: ed i volontari tutto quel tempo passarono nella dolorosa apprensione di vedersi da un momento all’altro colati e sommersi. Infatti i legni napoletani tenevano tre pezzi di cannone ciascuno appostati contro i nostri vascelli e pronti a far fuoco al minimo segnale del lor comandante (126).
XXXIII.— Un ufficiale appartenente alla marina borbonica saliva sul Clipper pochi momenti dopo il suo arrivo per domandare le patenti di navigazione. Enrico Wathson (tale è il nome del benemerito capitano del Clipper) allora comparve sul cassero e ricevette il visitatore con quella fredda urbanità che è solito indizio d’animo fiero e imperterrito. Alle intimazioni dell’ufficiale che pretendeva ad ogni costo visitare le carte di bordo l’intrepido americano freddamente rispose: «Non esser egli solito ad esibire la patente a pirati ¡ a gente che senza o con simulata bandiera aveva osato insultare l’americano vessillo ed assalire e catturare navigli da quello coperti e protetti. Dichiarò non avrebbe mai se non alla forza brutale ceduto: ma in ogni evento ammoniva lo sgherro di Francesco II del pericolo che il suo padrone poteva correre ove le cose fossero portate all’estremo. Rammentò che gli Stati Uniti possedevano flotte sufficienti a vendicare l’ingiuria ed a devastare tutto il litorale del Regno. E concluse infine protestando che non avrebbe in verun caso consegnate le carte se non al console rappresentante in que’ lidi l’americano governo. Queste dichiarazioni sull’ardito navigatore costernarono l’ufficiale nemico: e gli astanti malignamente osservarono la strana impressione che le parole di Wathson facevano nell’animo di lui.
Durante il colloquio il borboniano convulsivamente sfogliava una rosa che a caso tenea fra le dita, e mostravasi titubante ed inquieto, quasi versasse in misterioso pericolo. Egli si ritirò dal Clipper portando seco lo scherno di tutti.
XXXIV.— Mezz’ora non era trascorsa quando un altro personaggio, come il primo appartenente alla regia marina e che i volontari credettero il governatore del forte, comparve sul Clipper seco lui conducendo un tale che presentò come console americano. Se non che la sagacia e l’acutezza di Wathson valse a smascherare la frode: il sedicente console non era che un miserabile impostore a prezzo comprato nell’intendimento di trarre in inganno l’oculato navigatore ed indurlo a consegnar le patenti. Le proteste di Wathson furono dignitose ed energiche, quali s’addicevano ad uomo che si aveva vilmente cercalo sorprendere. Dopo un assai vivo colloquio i due napoletani, frustrati ne’ loro disegni e scornati e vilipesi dall’intiero equipaggio, ritornarono a terra a rendere conto al governo dell’infruttuosa loro missione.
XXXV.— Nel porto e nel forte regnava frattanto la massima costernazione: i Napoletani parevano allarmati dalla stessa loro vittoria. Forse in que’ momenti non altro avrebbero meglio desiderato quanto il non averla ottenuta. Avevano essi catturato una intiera spedizione, ma erano le conseguenze del fatto, ingigantite da superstizioso timore, che più gl’impaurivano. Non si dissimulavano l’agitazione che quell’avvenimento doveva suscitare nell’Italia superiore e nello stesso Regno delle Due Sicilie: né dall’altro canto la cattura di due trasporti poteva avere sulla guerra che ferveva nell’Isola quell’importanza che decide delle sorti d’un governo e di un popolo. Fra le numerosissime spedizioni che giornalmente eseguivansi dalle coste liguri e toscane due sole imbarcazioni, e forse le meno importanti, erano state sorprese ed arrestate dalla flotta borbonica. Se i Napoletani avessero avuto la fortuna e l’audacia d’impadronirsi del Piemonte e del Lombardo nel primo loro viaggio la guerra di Sicilia sarebbe stata finita sul nascere. Ma dopo che Garibaldi, sbarcato a Marsala, era entrato vittorioso in Palermo la presa dei due legni diventava un fatto di picciol momento né poteva esercitare sui destini d’Italia veruna perniciosa influenza. Ecco perché, in luogo di infiammare l’entusiasmo dei Borboniani, la cattura del Clipper e dell’Utile inspirava loro un sentimento di dubbio, d’allarme e paura.
XXXVI.— Ed in vero tanta apprensione, sebben prigionieri ed inermi, i volontari destavano, che il governatore della fortezza si credette obbligato a prendere le più rigorose misure per vietar loro qualunque contatto sia cogli abitanti sia coi soldati medesimi: temevasi che il fuoco sacro della libertà s’insinuasse in quell’anime educate ai capricci ed alle tirannie della Corte borbonica. Ai volontari fu quindi impedito lo scendere a terra: stipati com’erano sui loro legni eglino dovettero rimanere a bordo, né per qualunque preghiera od istanza fu loro concessa la benché menoma relazione colla città o colla truppa. Il Governo non dimenticò veruna precauzione per torre ne’ nostri la possibilità di penetrare nella fortezza; e le precauzioni stesse mostravano l’apprensione da cui era dominato. Due fregate da guerra, con cannoni livellati e già pronti, guardavano i volontari: e rartiglieria del forte minacciava d’aprire il fuoco e mandarli a picco al primo segnale che dato le fosse. E quasi ciò non bastasse, da dieci a dodici barche vennero collocate al loro fianchi alfine di esercitare una sorveglianza più vicina e più pronta. In tal guisa, esclusi dal mondo e prigionieri sui propri vascelli, quegl’infelici rimasero destituiti d’ogni umano soccorso: solo il 23, e dopo lunghissime pratiche, ottennero dr bagnarsi nel mare sotto gli occhi medesimi dei loro guardiani’ e solo dopo venti giorni durati fra le più ardue torture, fra le privazioni ed i terrori pervennero a ricuperare la lor libertà.
XXXVII.— Sulle prime Francesco II resisteva alle sollecitazioni che da ogni parte venivangli fatte in favore de’ suoi prigionieri. Egli altamente reclamava il sovrano diritto a punire coloro che accorrevano a turbare la tranquillità del suo regno, dimenticando che i deboli non hanno diritti o gli hanno soltanto per vederli violati. In appresso, e per le vittorie di Garibaldi, e per la pessima piega che gli affari prendevano eziandio nella capitale stessa del Regno, smessa l’usata baldanza. assunse più miti consigli: e dopo mille dichiarazioni e proteste cedette alle istanze di tutti e risolse rimettere in libertà l’equipaggio ed i legni. Alle sei pomeridiane del giorno 28 il viceconsole sardo residente a Gaeta, per incarico avutone dal governo di Napoli, recava ai volontari la fausta notizia che i due vascelli erano liberi ed avrebbero potuto nel seguente mattino salpar da quel porto. Non è a dire l’impressione che produsse la grata novella: chi la portò venne accolto da fragorosissimi applausi ed evviva alla indipendenza e all’Italia. Que’ prodi sembravano trasportati di gioia non tanto per la ricuperata libertà quanto per la speranza di prendere la rivincita sui loro nemici e di raggiungere i vittoriosi compagni.
XXXVIII.— Lo stesso giorno il governo borboniano permise che il comandante della spedizione noleggiasse altri legni pel trasporto de’ suoi volontari. Il pericolo che quella agglomerazione di uomini, da venti giorni accatastati in si piccolo spazio ed esposti a spaventevoli disagi, potesse produrre un contagio avea costretto il comandante italiano a domandare al governo la concessione suddetta. S’imbarcarono la medesima sera le necessarie provvigioni: ed al vegnente mattino i volontari, salutati dalla regia corvetta il Miseno, abbandonaron quelle acque dirigendo il corso su Genova dove, dopo qualche incidente di ninno o di piccol rilievo, arrivarono. Il Clipper e l’Ulile gettarono l’ancora alle ore tre del nono giorno di luglio, appunto un mese dalla loro partenza. I volontari con essi tornati ripigliarono, dopo soli quattro giorni di riposo, il viaggio, sull’Amazon alla volta dell’Isola.
XXXIX.— I vapori e gli altri legni noleggiati dalla Cassa Bertani, dall’Ufficio militare e dai Governo dittatoriale siciliano andavano continuamente e venivano da Genova a Palermo e da questa a quella città. Il 16 salpava il Provence con quattrocento cinque volontari: il susseguente 18 la Città di Torino portavane tre mila quattrocento trentacinque (127). Il Franklin si metteva in viaggio la sera del 21 con cinquecento sessanta quattro e fu seguito nell’intervallo di poche ore dall’Amazon con trecento novanta reclute (128).
XL.— Oltre queste spedizioni, durante il caldissimo mese di luglio, partirono: l’Isère (23) con quattrocento ventitré volontari, l’Oregon (7) con quattrocento quattro, e per la quarta volta il Provence (20) con cinquecento ottantadue (129). Il 9 successivo agosto nuovamente salpava il Provence con duecento undici. ed il 16 partiva il Sidney Hall con cinquecento quarantadue (130). Per tal guisa, senza tener calcolo dei volontari imbarcati a Livorno e sul litorale toscano, durante i mesi di giugno e luglio e la prima quindicina d’agosto ben tredici mila quattrocento diecisette giovani si portarono dall’alta Italia a rinforzare le file ed a condividere le vittorie dei Mille.
XLI.— Furono. le spedizioni, come si vide, numerose e frequenti pii forse di quanto sarebbesi prima pensato: ciò nullameno il patriottismo della gioventù era ben lungo dall’avere esaurito i suoi sforzi. L’entusiasmo generale aumentava a misura che Garibaldi avanzavasi e la speranza del riscatto italiano si faceva più certa e vicina. Verso la metà dell’agosto forse venti mila inscritti, veneti, lombardi, romagnoli, toscani e trentini domandavano chi li trasportasse e li conducesse in Sicilia. Uomini appartenenti a tutte le classi sociali con generosa emulazione riunivansi in un sentimento comune di libertà, d’eroismo e di patria. Moltissimi adolescenti, fuggiti dalle famiglie o dai collegi, abbandonavano gli agi e le comodità della vita, e d’ogni parte accorrevano ad ingrossare le fila dell’armata liberatrice. Spesse volte si videro fanciulli ancora imberbi piangere d’ira e disperazione perché non erano, da chi presiedeva all’arruolamento dei volontari, stati accettati in ragione della loro età o della lor complessione Si notarono de’ giovinetti che nell’atto della partenza ricusarono di abbracciare i parenti, accorsi a salutarli, per tema non li costringessero a rimanere con essi e rinunziare alla vagheggiata campagna. Il dottore Michele Caffi veniva in Milano seriamente minacciato nella vita da pochi giovani ch’egli avea dimenticato avvertire dell’ora della partenza. Quando un popolo compie tali e si segnalati prodigi di virtù nazionale è ben meritevole d’esser libero, grande e felice.
XLII.— I Comitati di provvedimento e le associazioni politiche, mazziniane o lafariniane, gareggiarono di attività e di zelo nel servire la causa della unità e dell’Italia. Agirono tutti o quasi tutti in que’ giorni, quasi ogni dissenso o contestazione fosse sparita, non come ispirati dall’amore di parte ma nell’unico intendimento di giovare alla patria? L’Italia dev’essere grata a coloro eziandio che nelle sue vittorie miravano al trionfo del proprio partito, perché sebbene animati da impuri disegni operarono a favore di lei: ciò la storia, con severa compiacenza, registrerà ad onore di tutti. I comitati di provvedimento siccome le altre associazioni disseminate nelle valli del Po e dell’Arno corrispondevano al medesimo tempo con Bertan e La-Farina, ed inviavano indifferentemente gl’inscritti alla Cassa Centrale od all’Ufficio militare purché venissero o in un modo o nell’altro al più presto diretti in Sicilia. Lo zelo medesimo che i cittadini mettevano a raccogliere i volontari per l’armata garibaldiana avrebbero essi adoperato a1 servire la politica loquace del conte Cavour, se questi in luogo del soldato nizzardo avesse iniziato l’opera liberatrice nell’Italia meridionale. Interamente devoti alla nazione gli uomini che più faticarono a raccoglierne i brani dispersi non appartenevano a veruna camarilla o fazione e più dei partiti prediligevano l’avvenire e la libertà del paese.
XLIII.— Nella formazione dell’esercito meridionale ebbero fra gli altri molti, grandissima parte i Comitati politici di Milano e Ferrara. Il Comitato di rappresentanza politica per l’Emigrazione Veneta in Milano presieduto dal solerte conte Correr può vantare d’aver esso solo raccolto e mandato in Sicilia oltre otto mila volontari, appartenenti in gran parte alle provincie tuttavia occupate dall’Austria, trentini cioè e veneziani (131). Moltissimi ne raccolse il Comitato politico risiedente in Ferrara, in allora condotto da Paolo Da Zara la cui attività fu tale da meritare la riconoscenza e l’encomio dello stesso general Garibaldi (132). S’intiepidiva soltanto la generosa attività dei patrioti allorquando la famosa circolare del 13 agosto veniva a vietare e condannare gli arruolamenti per l’armata di Sicilia e di Napoli. Da quel giorno i Comitali dovettero rallentare se non troncare del tutto i loro lavori: ed un arruolamento clandestino, comeché in proporzioni più esigue, continuava a preparare soldati alla causa che deve, malgrado gli ostacoli, tosto o tardi trionfare.
XLIV. Ora cade in acconcio toccar brevemente la celebre spedizione cosi detta di Terranova, sulla quale da amici e nemici cotanto si disse e si scrisse. È questa una pagina tetra ed oscura dei contemporanei annali italiani né fu per anco dilucidata con quella cura che l’onore del vero e la dignità della storia richiedono. I giornali oltramontani ed italici giudicarono, secondo il proprio colore, o con troppa severità o con soverchia passione: locché diede luogo ai commenti, alle narrazioni più contraddittorie ed assurde. Noi quindi senza accordare agli uni piuttosto che agli altri credenza, cercheremo di sceverare i fatti dalle esagerazioni che li avviluppano, ponendo, le cose? nella piena e naturale lor luce.
XLV.— Partendo Garibaldi colla prima spedizione da Genova tracciava il piano per estendere alla Terraferma napoletana ed alle Marche la fiamma rivoluzionaria ch’ egli andava a rianimare in Sicilia (133). Argomentando che il Governo sardo, stretto nel magico cerchio delle convenienze e vincolato dalla diplomazia, mal potesse seguirlo nell’ardua missione, divisava i mezzi per compiere da sé l’intrapresa. Quel programma acclamava il principio dell’Unità nazionale: ma un principio, sebbene ammesso in diritto, abbisogna della sua applicazione per passare nel regno dei fatti. La nazionalità italiana era allora, legalmente parlando, un anacronismo, un sofisma, una finzione giuridica, mentre i Borboni regnavano in Sicilia ed a Napoli, come lo è pure oggidì col Pontefice a Roma e gli Austriaci a Venezia. L’unità del paese non si ottiene già col proclamare in un documento più o meno ufficiale o nella Camera dei deputati il Regno d’Italia, ma col raccogliere le sparse membra della penisola sotto la stessa bandiera ed intorno al medesimo trono. Aspettare il beneplacito della diplomazia a costituir fa nazione sarebbe stato quanto rinunciare ad una cara speranza o per lo meno rimandare a tempo indefinito il compimento d’un voto comune. Ma se il Governo piemontese non poteva senza grave pericolo muover guerra al Borbone ed al Papa era pur necessario che altri il facesse ed operasse per lui e suo malgrado. Indipendentemente dall’azione governativa la rivoluzione doveva scoppiare e propagarsi dai confini delle Marche all’estrema Sicilia: lo spettro delianarchia, abilmente evocato, avrebbe costretto la diplomazia a riconoscere le ambizioni legittime del Governo italiano ed a tollerare l’annessione delle nuove provincie. Avrebbero i gabinetti d’Europa energicamente protestato contro un’ostile invasione dei Sardi negli Stati del Papa e di Napoli: ma una volta che la rivoluzione trionfasse era certo somma per essi ventura che i Piemontesi vi penetrassero a farla cessare. L’Europa ufficiale non avrebbe potuto permettere che la rivoluzione si assodasse nell’Italia del Sud: e l’annessione delle Due Sicilie e delle Marche alla monarchia italiana sarebbe quindi sembrata necessità ineluttabile. Inoltre speravasi che una volta trascinato alta guerra il Governo non avrebbe potuto rattenere l’impeto delle masse e sarebbe stato suo malgrado costretto a proseguirla sino al finale compimento del proprio programma.
XLVI.— Altre riflessioni, non meno profonde e sagaci, avevano a Garibaldi ispirato quel piano: oltre i fini politici concorrevano a farlo adottare possenti ragioni strategiche. Partendo per la Sicilia non egli dissimulavasi le difficoltà dell’impresa né le forze del governo che andava ad affrontare ed abbattere: e fidando nel proprio suo genio più che nelle truppe di cui disponeva accingevasi a vincere. Volevasi quindi con una potente diversione dividere e sparpagliare le forze nemiche ed impedire al Borbone lo inviare nuove truppe nell’isola. La rivoluzione delle Marche, minacciando gli Abbruzzi, ov’erano gli animi alle novità già pronti ed aperti, avrebbe da quella parte attirato l’attenzione dei Napoletani e costretto Francesco II a pensar seriamente alla difesa della sua capitale. Ella è cosa evidente che in tali condizioni non solo non avrebbegli potuto spedire altre truppe contro Garibaldi, ma sarebbe stato eziandio obbligato a richiamare o per intero od in parte quelle che teneva nell’isola. Forse la rivoluzione delle Marche dilatandosi negli Abbruzzi poteva provocare la rivolta di Napoli: ed in tal caso le sorti della guerra sarebbero state definitivamente risolte senza ulteriori conflitti.
XLVII.— Tale era la missione che Garibaldi affidava a Zambianchi quando nel partire da Talamone inviavate con circa cinquanta de suoi verso i confini romani. La piccola schiera, nel cammino ingrossata dai volontari toscani accorrenti all’appello garibaldiano, penetrava a norma delle avute istruzioni nelle provincia tuttavolta soggette ai Pontefice e dirigevasi sopra Lutera. Ebbe quivi a sostenere lo scontro di un forte corpo di gendarmeria, ed usci dal conflitto vincente: le popolazioni le fecero buona accoglienza, ma senza sembrare disposte a prender parte all’azione. Soltanto alcuni guardacoste e pochi uomini appartenenti alla polizia pontificia agli insorti s’unirono: mentre da ogni parte le truppe papali accorrevano a soffocare nel suo nascere un incendio che potea, propagandosi, divenire fatale. I volontari, in numero di circa trecento, mal potevano resistere all’urto di più migliaia di soldati: la situazione loro sempre più grave facevasi per l’abbandono delle popolazioni cui Io spavento alienava dalla causa d’Italia. In tali frangenti si divisò di procrastinare per qualche giorno l’invasione, di ritirarsi ne’ monti e di fortificarvisi. Eglino si accamparono sulle alture a Grotta di Castro (134).
XLVIII.— Pareva intenzione dei capi lo attendere ristante opportuno per marciare alla volta d’Orvieto e quindi gettarsi nelle gole dei monti nell’interno dell’Umbria e colà mantenersi sinché l’arrivo di nuovi soccorsi li abilitasse a riprendere un moto offensivo. Ma le numerose milizie che opposero i. papalini sventarono l’ardito disegno. Frattanto i soccorsi mancarono: l’invasione che se fosse rimasta vincente avrebbe attirato migliaia di volontari, avendo subito uno scacco non invogliava nessuno. I confini toscani erano inaccessibili: il governo avrebbe potuto favorire un tentativo riuscito, ma Don volea compromettersi con un’impresa fallita: ed anzi, simulando temere una imaginaria inva’ sione del territorio di recente acquistato, rinforzava con truppe piemontesi i presidii dei confini toscani (135). Cosi la prima spedizione negli Stati papali fu miseramente perduta.
XLIX.— Stretti dall’armata pontificia ed abbandonati da tutti, quegl’infelici trovaronsi quasi assediati nelle loro posizioni senza viveri e senza comando. I loro capi erano spariti oppure trovavansi in situazione da non potere comunicare con essi. In tale posizione vissero più giorni sinché più non valendo a resistere ripresero con incredibili stenti la via dei confini toscani, e dopo qualche esitazione si dichiararono prigionieri delle truppe italiane (136).
L.— Né, sebbene abortito quel primo disegno, Garibaldi abbandonava il prediletto suo piano: e Bertani era in Genova incaricato della sua esecuzione. Questo fatto spiega, se non giustifica l’ostinazione dello stesso Bertani in volere che la seconda spedizione, lasciando a sé la Sicilia, si dirigesse ad ogni costo verso le spiaggie romane. La nostra ragione, come pure il buon senso, c’induce ad applaudire il ministerialismo di La-Farina e di Medici per aver essi in quel frangente impedito a Bertani di compiere un’impresa cotanto importuna e che poteva essere cagione di fatali disastri. Se non che le recenti vittorie avevano agli Italiani assicurato il dominio dell’Isola: e sul finire di luglio, mentre stava attendendo l’istante di valicare lo Stretto, Garibaldi ricordò quel suo primo pensiero e scrisse a Bertani ordinando che le operazioni negli Stati pontificii venissero spinte ad oltranza (137).
LI.— S’adoperava impértanto Bertani ad allestire una truppa che potesse all’uopo bastare, e ne affidava la direzione suprema al colonnello Luigi Pianciani. L’intiero corpo di spedizione componevasi di sei brigate: le prime quattro venivano raccolte sul litorale di Genova agli ordini dei colonnelli Eberard, Cantini, Thorena e Poppi, e le due rimanenti trovavansi nello Stato toscano ed erano comandate dai colonnelli Canori e Nicotera (138): le prime dovevano agire per mare, per terra le altre.
LII.— Il piano d’invasione nelle provincie papali era cosi concepito: Il colonnello Caucci pel primo colla sesta brigata (diminuita però d’un battaglione messo a disposizione di Nicotera) doveva ad un dato segnale passar il confine pel Monte Feltro. Siccome il paese, sendo ineguale e difficile, non poteva percorrersi col corpo riunito, si stimava opportuno invaderlo da più parti ad un tempo per mezzo di compagnie complete e staccate, le quali in appresso si sarebbero ad un punto designato ricongiunte al lor corpo. La provincia sguernita trovandosi, dava a Cancri facoltà di condursi nel modo che gli paresse di sua convenienza. Eseguito con rapide mosse il concentramento dei suoi alla Fratta avrebb’egli minacciato le città di Urbino e di Gubbio: in caso di pericolo si sarebbe ritirato sull’Appennino a cavaliere dei due versanti, conducendosi in guisa da impedire la riunione dei corpi nemici acquartierati nell’Umbria con quelli che presidiavan le Marche. Per ultimo egli doveva, se costretto da forze imponenti, operare a destra e riunirsi a Nicotera (139).
LIII.— Abbandonando Castel Pucci,ove teneva la sua residenza, Nicotera doveva colla quinta brigata ed un battaglione della sesta, in tutto due mila soldati, valicare sull’imbrunire il confine toscano, ed approfittando. dell’oscurità, marciare inosservato a Perugia. Egli avrebbe dovuto assalirla il seguente mattino sull’alba, e tutto porta a credere che i volontari se ne sarebbero resi agevolmente padroni. Il presidio era scarso e insufficiente, l’assalto impreveduto: ed inoltre le popolazioni, anelanti a libertà, avrebbero senza dubbio grandemente cooperato alla sua espugnazione. Che se in onta alle previsioni Nicotera avesse trovato la città più munita di quanto a que’ giorni sapevasi, e fosse divenuto impossibile cosa occuparla, aveva ordine di non ostinarsi in inutili attacchi e di ritirarsi invece negli Appennini prendendo la via del Piegavo ove trovato avrebbe l’intiero corpo di spedizione. Riuscendogli di occupare Perugia avrebbe cercato propagare la rivoluzione nei paesi limitrofi e fortificato la città in guisa da resistere ad ogni attacco nemico (140).
LIV.— Contemporaneamente Pianciani divisava sbarcare colle quattro rimanenti brigate a Torre Montalto, piccola terra situata alla foce del Fiora, sei miglia distante dal confine toscano e venti circa da Civitavecchia. I volontari avrebbero il medesimo giorno probabilmente pernottato a Toscanella, appena venti miglia lontano da Torre Montalto. Il successivo mattino sarebbesi Pianciani diretto a Viterbo, ove teneva assai relazioni ed ove un battaglione di truppa indigena, con mezza batteria, di presidio dicevasi pronta ad arrendersi. In ogni evento non era a temersi che avrebbe osato resistere a cinquemila volontari entusiasti e chiedenti battaglia: e di più calcolare potessi sul concorso del popolo. Scopo di Pianciani era quello di marciare esteramente ad Orte, luogo situato in una forte posizione sulla linea del Tevere, di riunire colà le sue truppe e di dare battaglia a Lamoricière a Terni, o a Collescipoli, o a Narni (141).
LV.— Erano le truppe raccolte, il piano tracciato: soltanto mancava eseguirlo. Verso il finire di luglio la spedizione era pronta sia dal lato di mare che quello di terra. Tutto era andato sino allora a seconda: la vittoria era certa o per lo meno probabile, ed i vantaggi che se ne potevano trarre immediati e brillanti. Se non che la camarilla moderata guardava biecamente un’impresa la cui iniziativa avea già per sé riservata. Poteva essa lasciare indiviso al partito d’azione il vanto d’avere da sé liberato l’Italia bassa e centrate? Poteva essa tollerare un movimento contro il suo volere eseguito e che essa non valeva a dirigere? Poteva essa lasciarsi trascinare nei vortice dei popolari sussulti e porsi in balla dalla rivoluzione irrompente? Doveva essa lasciarsi guidare da uomini che aveva in faccia al mondo stigmatizzato siccome demagoghi e de’ quali affettava disapprovare i principii, d’uomini ch’essa temeva o fingeva temere? A che avrebbe servito il genio trascendente del conte Cavour ove non fosse nemmeno riuscito a troncare le trame di pochi fanatici? Era di sommo interesse pei moderati; anzi di suprema necessità, che la spedizione degli Stati romani non potesse condursi ad effetto.
LVI.— E come d’altra parte vietare un’impresa che Garibaldi aveva promossa e si attuava per sua ispirazione? Opporsi apertamente i moderati non avrebbero osato: era troppo grande la popolarità dell’audace guerriero per cozzare di fronte con lui. Fu necessità ricorrere. all’arte, ai secreti maneggi, alla cospirazione mendace, misteriosa, ingannevole; e con tali mezzi, comunque codardi ed indegni, si ottenne l’intento bramato.
LVII.— Due mesi prima La-Farina aveva potuto sventare i disegni da Bertani formati sulla spedizione comandata da Medici: avrebb’egli saputo ottenere altrettanto in agosto? A quanto pare i moderati non si fecero illusione sull’abilità del— Tinquieto settario: egli avea fatto troppo misera prova di sé nei fatti recenti dell’Isola perché gli si dovesse affidare un mandato sulla cui riuscita i padroni cotanto contavano. L’autorità di La-Farina era spirata col decreto Dittatoriale che lo espelleva dalla sua stessa terra natia: e nessuno voleva fondare le sue speranze sulla valentia d’un uomo che avea si di recente subito un terribile scacco. Si ricorse impertanto ad altri spedienti. Verso il fine di luglio lo stesso ministro Favini recavasi a Genova ad ordire la trama che avrebbe troncate le fila seccete della mazziniana congiura:
LVIII.— In un abboccamento avvenuto tra Farini ed il deputato Bertani si stabilirono le norme seguenti: Essere il governo dello stesso avviso coi partito trazione intorno alla necessità di liberare le provincie romane: essere per lo addietro stata quistione di tempo fra i due partiti, non d’altro, volendo i garibaldiani precipitare ed i cavouriani rattenere gli eventi. Allora pertanto convenire nello stesso pensiero: essere necessario cioè si facesse al più presto. Ma non potendo il Ministero tollerare che ostensibilmente paresse favorire un tentativo sulle provincie papali, i volontari partirebbero da Genova a drappelli coll’intervallo tra l’uno e l’altro almeno d’un giorno. Eglino si raccoglierebbero al golfo degli Aranci sulle coste della Sardegna ove avrebbero trovate le necessarie provvigioni e le armi, cui la prudenza governativa vietava che eglino seco portassero. Del resto non erano che vane formatità messe in uso soltanto per salvar le apparenze ed ammutire i reclami dei gabinetti europei. I volontari, raccolti ed ordinati in Sardegna, partirebbero per quella direzione che amassero meglio, avendo però riguardo di prima toccare le coste di Sicilia. Su tali basi Bertani firmava una convenzione la quale rendeva impossibile la spedizione degli Stati romani (142).
LIX.— Dieci legni dovevano comporre la spedizione: Il Bisantino, l’Isère, l’Amazon, il Garibaldi, il Torino, il Calatafimi, il Yeasel, il Veloce (destinato a partire dopo gli altri colle armi) e due Clipper cui avrebbero condotti a rimorchio il Garibaldi e il Veloce. A norma della convenzione Bertani-Farini, dovevano i legni suddetti l’un dopo l’altro partire da Genova e navigare verso il golfo degli Aranci in Sardegna. punto destinato al concentramento dell’intiera flottiglia. E fu stabilito che l’ultimo a giungere al luogo fissato fosse appunto colui che avrebbe dovuto prima di tutti gli altri arrivare, cioè il colonnello comandante la spedizione collo Stato Maggiore del corpo (143).
LX.— Sul cominciare d’agosto il Torino partiva pel primo alla volta della Sardegna: ma come giunse in prossimità del luogo designato allo sbarco, ecco avvicinarsi la Gulnara, piccolo avviso da guerra della marina sarda che bordeggiava in quell’acque, ed intimare al comandante a nome del Governo l’ordine di volgere immediatamente la prora a Palermo. Il comandante intimidito dai cenni imperiosi di chi tutto poteva, ubbidì, e senza attendere pii oltre istruzioni si diresse in Sicilia.
LXI.— L’Amazon e l’Isère ricevettero lo stesso messaggio, tuttavia si ostinarono a rimanere nel golfo. Se non che i volontari veduto allontanarsi il Torino e trovandosi abbandonati e sprovvisti si lasciarono guadagnare da irresistibile panico e costrinsero i comandanti a partir per Palermo. Cosi l’uno dopo l’altro i legni appartenenti alla spedizione vennero con iscaltrezza e con arte mandati in Sicilia. Ultimo il colonnello Pianciani comparve e trovò le spiaggie deserto: non una sola compagnia attendeva colà il comandante d’un esercito destinato a liberare si gran parte d’Italia. Vittime di cabale inique e di vergognosi raggiri i soldati erano tutti scomparsi: invece d’un’armata, su cui aveva posto le più belle speranze, Pianciani trovò lo stesso general Garibaldi il quale, non si sa come mutato parere, invitavalo a secolui recarsi in Sicilia.
LXII.— Era per tal modo la spedizione per mare abortita: rimaneva infrattanto ad impedire quella che doveva operarsi dalla parto di terra, e per mezzo dei soliti inganni si ottenne l’intento. Il barone Bettino Ricasoli governatore in Toscana simulava dapprima un esagerato attaccamento a Giuseppe Mazzini e si accaparrava la fiducia di Caucci e Nicotera. Egli aveva concesso l’arruolamento dei volontari e ceduto la villa Castel Pucci perché loro servisse di quartier generale e dove potessero esercitarsi nelle manovre militari e nelle evoluzioni di campo. Aveva accordato vestiari viveri, armi e foraggi, e più ancora prometteva, di quanto era stato largito. Ricasoli giunse a dichiarare allo stesso Nicotera (questi almeno lo afferma) ch’egli era pronto a propugnare le idee di Mazzini e che qualora il governo di Torino volesse costringerlo avrebbe gettalo la maschera e sarebbesi posto con essi. Ma più tardi i consiglie i comandi del conte di Cavour lo fecero mutar di parere: e trovò più vantaggioso seguir la dottrina del grande ministro che correr sull’orme dell’esule.
LXIII.— Fallito l’affare Pianciani a Nicotera venne intimato di sciorre il suo corpo e di rimandare i volontari alle loro famiglie. Come si può di leggieri supporre ricusò francamente d’obbedire al dispotico cenno. Allora altre misure si presero: poiché agevole impresa non era strappar l’armi per forza a due mila soldati già istrutti, entusiasti e deliberati a combattere. Se un conflitto ne fosse seguito l’Italia intiera sarebbesi levata a protestare contro il fratricidio insensato: ad ogni modo abbisognava provocare uno scandalo tale che valesse a giustificare il Governo ne’ suoi liberticidi disegni. Ed è quanto si fece arrestando Nicotera: egli venne sorpreso di pieno meriggio sulla piazza del Duomo a Firenze e tradotto in prigione. Forse credevasi col terrore strappargli un”adesione che lo avrebbe avvilito; oppure volevasi provocare una sommossa de’ suoi per aver poscia la gloria di sventarla e reprimerla. Tuttavia, in onta alle previsioni moderate nulla avvenne di ciò: Nicotera ricusò sottoscrivere il licenziamento del corpo preferendo rimanere in prigione anzi che riacquistare la libertà con sì vile bassezza: e dal canto loro i volontari, abilmente condotti, serbarono la più dignitosa disciplina, limitandosi a domandare col mezzo di una deputazione il rilascio del lor colonnello. Sebbene gli animi oltremodo agitati sembrassero non s ebbe a lamentare il più picciol disordine.
LXIV.— Altri mezzi a riuscire occorrevano. Nicotera fu tratto di carcere ed accolto coi modi più urbani e cortesi. Gli si disse il Governo dolentissimo pel fatto accaduto: fosse certo che tale Aon fu mai l’intenzione del barone Ricasoli; obbliasse il disgraziatissimo equivoco. Ed il governatore stesso non ¡sdegnava rappresentar la sua parte nell’astuta commedia. Egli si lagnava con Nicotera che la sua posizione officiale non gli permettesse d’operare come ne aveva la brama pel bene d’Italia. Tuttavolta egli sempre sarebbe disposto a favorire la spedizione con tutti i mezzi compatibili colla sua dignità: non aver mancato né mancherebbe mai alla data parola. Desiderare sommamente che la spedizione si compisse: ma non potere, come governatore, tollerare che partisse dal suolo soggetto alla giurisdizione toscana. Essere mestieri transigere colle circostanze del momento ed almeno salvar le apparenze. Del resto non trattarsi del merito dell’impresa, ma solo di un lieve mutamento nella sua esecuzione. Si portassero i volontari a Livorno e prendessero il mare: egli avrebbe accordato trasporti, navigli, viveri e danaro. Una volta usciti dalla Toscana e toccato un porto qualunque di Napoli pigliassero la direzione che meglio lor convenisse. Su queste basi una convenzione venne fissata la quale prolungò d’un mese nelle Marche e nell’Umbria il pontificio dominio e l’agonia di que’ popoli.
LXV.— I volontari furono in conseguenza diretti a Livorno e prestamente imbarcati. Le armi che a tenore della convenzione suddetta furono consegnate a Giuseppe Dolfi, dovevano seguirli in apposite casse. Disarmati e come acciughe stipati nei loro navigli i volontari rimasero più giorni sotto il sole cocente d’agosto, né le armi giungevano, né indizio di salpare appariva. Fa loro vietato severamente di scendere a terra e di tenere la minima relazione col popolo e colle medesime truppe. Finalmente un mattino s’ode battere la generale: le vie di Livorno formicolano d’uomini armati: la truppa si distende al davanti del porto: l’artiglieria delle navi e dei forti rivolge i cannoni contro i volontari, e la Guardia Nazionale si dispone in battaglia. Allora un commissario di polizia accompagnato da un ufficiale dei Carabinieri sale arditamente a bordo del Provence su cui era il colonnello Nicotera ed a nome del Governo lo invita a condurre il suo corpo a Palermo od a scioglierlo, ammonendolo che in caso di opposizione egli sarebbe considerato ribelle e come tale processato a termini di legge. Nicotera protestò ed invano: abbisognava venire ad un conflitto fraterno o cedere, e i volontari cedettero e furono tradotti in Sicilia.
LXVI.— Tale fu l’esito delle due spedizioni che fecero tanto rumore: s’evaporarono ambedue, come una vaga illusione, davanti i secreti maneggi della consorteria moderata. Turpe commedia, sostenuta da un lato colla più fina scaltrezza ed astuzia e dall’altro colla ingenuità e le disposizioni ottimiste che distinguono i liberali di tutti i paesi. Così fu salvata la patria: poiché vennero impedite le comunicazioni tra i liberali del nord £ del sud dell’Italia e resi alla rivoluzione inaccessibili i confini dell’Austriaco dominio. Sventato il pencolo di vedersi loro malgrado trascinati ad una guerra precoce coll’Austria i moderati applaudirono ai proprii maneggi e s’accinsero ad approfittare dei risultati ottenuti. Frattanto due semplici convenzioni bastarono a tranquillare le giuste apprensioni del Lamoricière e i serafici sonni del santo Pontefice. Il Papa rimaneva ancora un mese possessore delle Marche e dell’Umbria; e nell’intervallo potè, come sopra accennammo, smungere ancora un poco e martoriare quelle infelici provincie.
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