Alta Terra di Lavoro

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LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (VIII)

Posted by on Mag 16, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (VIII)

LIBRO VIII Ripresa delle ostilità — Battaglia di Milazzo

I.— Arduo sarebbe descrivere quali fossero a que’ giorni le condizioni del Regno di Napoli. Le vittorie di Garibaldi avevano oltrepassato le umane previsioni: la rivoluzione accampata e stabilita a Palermo da un istante all’altro poteva dilatarsi ed irrompere nelle provincie eziandio situate a di qua dello Stretto. Le popolazioni di terraferma, male affette al Governo, non altro attendevano «che la comparsa della bandiera italiana per rivoltarsi ed insorgere: e l’esercito, smagato dai tocchi disastri, appariva animato da tutt’altro sentimento da quello di lottare e difendersi.

Nel Governo stesso molti già appartenenti alle vecchia camarilla borbonica e che nei giorni di prosperità erano stati larghi di consigli e di cure a reprimere i moti popolari, mostravansi in quel frangente titubanti ed incerti come non bene sapessero a quale partito appigliarsi. Molti inoltre, che ne’ giorni felici avevano con zelo e ferocia servito i Borboni, parevano pronti ad abbandonare la tirannia soccombente, quand’essa più non valeva ad assicurare la loro dignità ed il loro soldo. Segnaci di tutte le scuole, parassiti di tutte le fazioni trionfanti e servitori di tutti i padroni, costoro sono apparecchiati mai sempre a mutar di bandiera a seconda del vento che spira: turpe razza di bipedi, contro cui giustamente inveiva la musa sdegnosa di Giusti (144). Alcuni di costoro non si vergognavano di corrispondere clandestinamente coi Comitati La-Fariniani instituiti e diffusi per tutto lo Stato, e di tradire alla setta l’ansie, i terrori e perfino la copia degli atti del governo che avevano giurato servire. La famiglia reale medesima offriva l’immagine dell’anarchia e del disordine: la mania dell’italianismo era penetrata persino ai piedi del trono borbonico: il conte di Siracusa sperando sottrarsi al naufragio che già prevedeva imminente de’ suoi, parteggiava per la libertà e per l’Italia: e non trovando a’ suoi consigli accoglienza prendea volontario la via dell’esigilo. ¡Pur troppo la Casa dei Borboni fu condannata lungo i secoli a vedere i suoi membri rinnegare per un’ombra di vana popolarità gl’interessi e le tradizioni del sangue

II.— Che fare, che risolver poteva il giovine Re, circondato com’era da timidi amici od infidi; da ministri corrotti, da cortigiani egoisti od inetti, disertato da’ suoi consanguinei e tradito persino nel proprio governo? Le popolazioni all’intorno fremevano, l’esercito minacciava sfasciarsi al primo urto, i comitati secreti, oltremodo accresciuti di numero, sordamente scalzavano le basi stesse del poter e la polizia era divenuta cieca a scoprirli od impotente a reprimerli. Le voci le più allarmanti, i più sediziosi libelli venivano divulgati stampati sotto gli occhi stessi delle autorità senza ch’esse valessero a svelarne o a punirne gli autori. La rivoluzione aveva da per tutto i suoi partigiani, o i suoi complici, nella polizia, nel ministero, nel foro ed in Corte: ed essa avviluppava nelle sue innumerevoli spire, alto stesso tempo, il Monarca e lo Stato. Il trono dei Borboni doveva cadere: l’odio accumulato di quattro generazioni e la corruzione sistematica dei precedenti tre regni concorrevano del pari a distruggerlo. Vittima, forse innocente, d’avversi destini, doveva Francesco II espiare le colpe de’ suoi antecessori e le carnificine immani del 1799, del 1815, del 1821 e del 1848.

III.— Gl’inviati d’Inghilterra e di Francia incessantemente esortavano il Re ad accordare ai suoi popoli una costituzione liberale, sulle basi di quella che il Monarca Sabaudo aveva largito al Piemonte. Ben egli comprendeva che la costituzione richiesta, lungi dal consolidare il suo trono, ne avrebbe accelerato lo sfascio. Con ciò avrebbe legalmente spalancato le porte alle cospirazioni 0 alle sette e posto lo Stato in balia delle dottrine unitarie vagheggiate nel nord dell’Italia. Francesco II non poteva né doveva lusingarsi od illudersi: sotto il pretesto di libertà ed indipendenza la rivoluzione mirava a spodestarlo ed a fondare l’unità nazionale. D’altronde se il Regno doveva cadere, la costituzione, in tal modo elargita, non era certo il cemento più atto a restaurarlo: la guerra che ferveva era lotta di vita o di morte: abbisognava sincere 0 rassegnarsi a soccombere, ma valorosamente e coll’armi alla mano.

IV.— Eppur non valse il resistere la rivoluzione, misteriosa ed invisibil potenza, propagavan in tutte le parti: ed in Napoli stessa a chiari segni appariva, che stava già per prorompere. I cittadini oramai, non in secreto 0 a bassa voce, ma francamente ed a pieno giorno facevano voti ed auguri pei trionfo dei Mille: e il grido di Viva l’Italia talvolta echeggiava fin sotto le finestre stesse del Re. La vittoria, di sua natura, aumenta le forze di chi la riporla e nella propria e nella opinione di chi la subisce: e il popolo e la Corte, animati da opposti sentimenti di speranza 0 terrore, convenivano in esagerare l’importanza numerica dell’armata italiana. L’esercito tremava al nome di Garibaldi e nei soldati manifesta appariva l’avversione ad affrontare sul campo le italiane legioni. E nessuno più ornai dubitava che il Duce dei Mille non fosse per invadere le provincie di Apulia e Calabria appena il permettesse lo stato degli affari nell’Isola.

V.— Né la diplomazia bastava a deprecare l’imminente e fatale sfacelo del regno borbonico. Invano Francesco II ricorse ad amici e nemici mendicando protezione ed aiuti; dimenticava che i topi persino abbandonano la casa che minaccia rovina. Gli ambasciatori napoletani a Londra, a Parigi ed a Vienna fecero quant’era possibile a stornar la procella che fremeva sul capo del loro padrone: ma non ottennero verun risultato. L’imperatore Napoleone, a cui l’unità d’Italia non era gran fatto simpatica, affermava desiderare che le Due Sicilie continuassero a formare uno Stato indipendente sotto la dinastia dei Borboni, ma credeva necessario che il governo mutasse sistema; e in tal guisa senza nulla promettere, la Francia dava consigli, mentre non di consigli era d’uopo, ma di armi e soldati (145). L’Inghilterra all’opposto che agognava acquistare, a scapito della Francia, simpatia ed influenza in Italia apertamente favoriva le velleità annessioniste del partito unitario. Finalmente l’Austria, sui cui appoggio il governo di Napoli potea maggiormente coniare, limitandosi ad esternare la sua simpatia per la Casa borbonica, dichiarava non trovarsi in condizioneda prestare assistenza o soccorso a Francesco II (146).

VI.— A tale verso il principio di giugno eran giunte le cose quando il governo francese, desiderando arrestar la carriera dell’armi italiane, interponevasi presso il Borbone, vivamente sollecitandolo perch’egli coll’accordare la costituzione e coll’allearsi al regno d’Italia cercasse evitare, se pur era possibile, la catastrofe che già gli pendeva sul capo. Il Borbone si sentiva perduto e perciò acconsentiva: il 25 giugno comparve un reale proclama che annunciava ritornata in vigore la tante volte giurata e ritolta costituzione. L’esperienza nel giro di pochi mesi stabilì ancora una volta l’incompatibilità del sistema rappresentativo col dominio borbonico (147).

VII.— Contemporaneamente la Francia, sollecita in attraversare il disegno dell’unità italiana, adoperavasi a Torino per indurre il governo a frenare lo slancio patriottico del generale Garibaldi. Ormai la Sicilia apparteneva all’Italia, e già presentivasi che il Borbone avrebbe più che volentieri rinunciato a’ suoi diritti nell’Isola sempreché gli venisse assicurato il regno di Napoli. Il governo piemontese, che nella Sicilia vedeva una preda già certa, di malincuore tollerava che Garibaldi, coll’iniziar nuove imprese, s’esponesse a riperderla. Nessun prevedeva a quali conseguenze la conflagrazione di Napoli avrebbe potuto condurre: e, da consumato diplomatico, il conte Cavour, ai pericoli d’una nuova campagna, preferiva il sorriso di Francia e il pacifico possesso dell’Isola. La nuova conquista avrebbe, momentaneamente almeno, potuto soddisfar l’ambizione del ministro, ma essa era ben lungi dal risolvere il problema intavolato dal partito italiano. Se i desiderii dei moderati avessero in que’ giorni prevalso, Francesco II calcherebbe tuttora il suo trono.

VIII.— Le difficoltà consistevano in ¡strappare di mano a Garibaldi il potere che s’avea colla spada acquistato. Certamente non era facile indurlo ad abdicare la dittatura nelle mani a colui ch’egli a ragione od a torto stimava un ostacolo al compimento del programma unitario. Il nome di Cavour, nella mente di Garibaldi, associavasi all’idea d’immobilità, del moderantismo e della cessione di Nizza e Savoia: né mai persuaso sarebbesi ad affidargli, in que’ momenti, le sorti future d’Italia. A costringerlo non era né anche a pensarci: tanto più che al governo mancava il plausibil pretesto per un’armata invasione in Sicilia. Se non che tutto si poteva sperare dall’arte, dalla cospirazione moderata e dai consueti maneggi: e l’arte, la cospirazione e i maneggi furono indarno sprecati.

IX. —La-Farina fu l’uomo prescelto a mandare occultamente ad effetto un disegno che il conte Cavour ricusava compire in palese. Umile servitore, La-Farina accettava con gioia il mandato di cui compiacevasi il padrone onorarlo, e pochi giorni appresso salpava alla volta dell’Isola colle necessarie istruzioni e con auspicii sinistri. Dopo un viaggio ben diverso da quello dei Mille e per emozioni poetiche e per superati pericoli, sano e salvo toccava le coste della terra natale ed entrava a Palermo. Colà giunto accingevasi, a beneficio e per ordine del conte Cavour, a riannodare nel silenzio le fila della vecchia congiura, cui la vittoria del popolo dall’oscurità del mistero portata avea fra i tumulti di piazza o fra farmi sul campo di guerra. Gesuiti mascherati da filosofi, antichi borboniani camuffati da liberali, spie, poliziotti, bargelli, malcontenti d’ogni genere e specie, nobili ambiziosi, popolani ignoranti od illusi, bacchettoni e pinzocchere infoila affluivano alle porte del grande settario a consultarne gli oracoli e a cospirare con lui. Oltre moltissimi personaggi eminenti e per virtù cittadina e per alto sentire che agivano per impulso di cuore e principio, La-Farina può vantare di avere sotto le bandiere della moderazione arruolato la feccia, il rifiuto del popolo. Né mancavano lusinghe, promesse o danari: la publica coscienza vendevasi e compra vasi a un tanto per giorno. Gli affigliati alla setta ne divennero tosto gli apostoli, più zelanti quanto più era recente la lor conversione: i secreti convegni si moltiplicavano a dismisura in città e al di fuori: in pochi giorni un movimento di piazza era già apparecchiato che La-Farina ritenea irresistibile.

X. —Nei piani di Garibaldi la Sicilia diveniva siccome una leva necessaria a sommuovere il Regno di Napoli: ed era questo appunto il disegno che isventare volevasi. Unico scopo di tanti maneggi era quello di provocare nel popolo una dimostrazione imponente che valesse a determinare o a forzar Garibaldi a desistere dall’opera sua ed a precipitar l’annessione. Ammessa la votazione prevedevasi che il popolo siciliano si sarebbe all’unanimità dichiarato per l’unione col Regno d’Italia: compiuto il plebiscito La-Farina avrebbe afferrato il potere, (per cui seco forse recava il diploma ufficiale ¿Investitura) e condotto secondo le idee moderate le sorti future dell’Isola. Raggiunto l’intento i volontari sarebbero stati disciolti, Garibaldi, ridotto alla condizione di privato cittadino, rimandato a Caprera, ed anticipati di quattro mesi i tristissimi fatti d’ottobre. Arbitri degli avvenimenti i moderati avrebbero ridotto all’impotenza il partito unitario e troncato a metà della via la più gloriosa campagna dell’èra moderna. Per somma ventura le sorti d’Italia aveano disposto altrimenti: e mentre La-Farina apparecchiavasi ad effettuare il suo colpo di Stato e quando, tutto arridendogli, securo teneasi del trionfo, la cospirazione fu scoperta e repressa e le arti dei tristi sventate. La sera del sabato 7 di luglio il sacerdote Gusmaroli scortato da due guide presentava al sig. La-Farina il passaporto e un decreto di sfratto (148). L’agitatore rimase annichilito tanto più ch’egli non sapea persuadersi che il Dittatore potesse osare cotanto con lui. La-Farina protestò, strepitò, minacciò, ma convenne obbedire: l’ordine dittatoriale era perentorio ed esplicito, gli si concedeva soltanto d’indicare il naviglio sul quale desiderava imbarcarsi. Egli scelse la Maria Adelaide, ancorata allora nel porto: e tornossene scorato e oppresso a bordo del legno medesimo che portato lo aveva in Sicilia. Di là passò sull’avviso la Gulnara e corse a Genova e a Torino a sfogar coi padroni e sui giornali l’impotente sua rabbia (149). Cosi La-Farina, il presidente della Società Nazionale, l’alter ego, così egli spacciavasi, del conte Cavour, fu espulso dal suolo nativo come fomentatore di tumulti e di scandali e quale incorreggibile perturbatore della pubblica quiete. Ecco gli eroi moderati: eppure costoro in faccia all’Europa s’arrogano il vanto d’impedire i sollevamenti popolari e si costituiscono campioni dell’ordine!

XI.— La-Farina partiva, ma come si dice del diavolo, lasciavasi addietro la coda. L’agitazione annessionista aveva messo troppo salde radidi perché si potesse d’un tratto estirpare: e la congiura, disanimata non spenta per la sventura del capo, rialzava ben tosto la testa più fiera, più accanita che mai. Durante Pintiera campagna ebbe la Dittatura a lottare contro una fazione che unicamente studiavasi a sbarrarle la via: l’opposizione a Garibaldi era divenuta in certe sfere una frenesia ed una moda. Lo stesso Depretis che succedette a Garibaldi nell’amministrazione del paese incontrò Pagitazione medesima, sorda, misteriosa, instancabile. Scoprirne la fonte o l’origine era certo difficile impresa: eppure mille indizii rivelavano l’esistenza del vasto complotto. Depretis stesso non trovò miglior modo a difendersi se non quello di scacciare dall’Isola i cospiratori che La-Farina vi aveva mandato a continuare l’opera da lui cominciata.

XII.— Frattanto il Dittatore, sciolto dalle cure politiche, nuovamente volgeva il pensiero alle cose di guerra. Prima di tutto abbisognava assicurare il possesso dell’Isola: e Nino Bixio, elevato in que’ giorni alla dignità di general di brigata veniva col suo corpo mandato a promulgare e stabilire il nuovo governo nelle valli di Mazzara e di Demona. La marcia dei volontari traverso il paese fu un vero trionfo: le popolazioni plaudenti da tutte le parti accorrevano a festeggiare ed applaudire il vessillo italiano; e il nome di Vittorio Emanuele veniva acclamalo dalla punta di Trapani all’estremità del promontorio Passero.

Nino Bixio e il suo corpo visitarono rapidamente Corleone, Caltanisetta, Girgenti e Catania: e con lunghissimo giro, seguendo la spiaggia del mare orientale, raggiunsero a Messina l’armata trionfante (150).

XIII.— Verso il finire del luglio il Dittatore si accinse a riaprir la campagna. Le sue truppe con quelle che Medici e Malenchini aveano condotto da Livorno e da Genova, sommavano forse a cinque mila soldati. L’armata era piccola, confrontata con quella di cui il Borbone tuttavia disponeva: ma il difetto del numero era largamente compensato dall’influenza della bandiera sotto cui comhattevasi, dall’ardire e dal personale valore dei militi. Oltre questi vantaggi esso poteva contare sul nome di Garibaldi che solo era una potenza tanto per entusiasmare i volontari quanto per isgominare le file nemiche.

XIV.— I preparativi erano stati spinti con alacrità durante il mese di giugno. I Picciotti, inscritti in gran numero, si trovavano ordinati regolarmente ed istrutti nel maneggio dell’armi e nelle evoluzioni di campagna. Fino alla partenza da Palermo le manovre ebber luogo regolarmente due volte per giorno, al mattino cioè ed alla sera (151). L’indole pronta e svegliata dei volontari e dei Picciotti parea facesse miracoli: ed invero, dopo si breve tempo gli uni e gli altri compivano gli eserciti militari come se non troppe raccogliticcio od improvvisate, ma fossero stati veterani appartenenti alla più vecchia e disciplinata armata d’Europa.

XV.— Il 26 giugno fu il giorno fissato a ripigliare la guerra. Per ordine e sotto la direzione del Dittatore le truppe vennero schierate sul molo e passate in rassegna. Esse dovevano partire alla volta di Messina sotto il comando di Giacomo Medici al quale Garibaldi dava le necessarie istruzioni per ogni eventualità che potesse incontrare per via. L’armata si pose Osto in cammino; e non sarà, crediamo, discaro ai lettori conoscere dalla descrizione stessa d’un volontario le particolarità e le emozioni d’un viaggio nella parte più nota e più colta dell’Isola.

XVI.— «Lunedi 26 del mese di giugno, a a cinque ore di mattina, abbandonammo Palermo prendendo la via di Bagheria. La strada che a dovevamo percorrere, per la massima parte, è comoda e piana: alla nostra diritta era il mare, e a sinistra una lunga serie di colline, le une sovrapposte alle altre. e tutte egualmente pittoresche ed amene. Temperava i calori del giorno e la placida brezza del mare impregnata da effluivii odorosi emananti dagli innumevevoli boschetti di limoni e d’aranci che adornano quelle terre deliziose al pari e felici. Distratto da tante e si dolci impressioni fu il nostro viaggio lieto e gradevole: e alle undici ore di sera giungemmo alla meta.»

XVII.— «Bagheria, è piccolo paese, situato nel centro dell’istmo che mette ad un’angusta penisola terminata dal capo Zafferano. Negli ardori della state è luogo di ritiro pei ricchi palermitani, a le ci superbe villeggiature si elevano lungo le spiaggie del mare o sul pendio de’ prossimi a colli. Immensi parchi e giardini le circondano: il loro aspetto è imponente e grandioso. Tuttavia, malgrado una rigogliosa vegetazione non inferiore a quella dei tropici, e malgrado lo sfoggio di magnificenza e di lusso che vi si ammmira, la mancanza di disegno e di gusto rivelano la decadenza della civiltà e dell’arte. Da certi minutissimi indizii che mi venne fatto raccogliere giudicai essere pessima l’indole di quegli abitanti: infatti noi fummo trattati malissimo..

XVIII.— «Dopo due giorni di riposo la sera del 28 ripigliammo la marcia alla volta di Termini. È questa una città ragguardevole, situata a in posizione amenissima, eppure, come sempre, di aspetto miserrimo e squallido. Ritrovammo a colà un’accoglienza entusiasta e vivissima: e le cure di que’ buoni cittadini ci fecero dimenticare in gran parte le sofferenze del lungo viaggio. Una chiesa fu la nostra caserma: ed avemmo a nostra disposizione le campane ed un organo abbastanza accordato. I soldati approfittarono tosto di tanta fortuna: le sacre volte del tempio per tutta la notte, e forse per la prima volta, echeggiarono di profane armonie di polcke e mazurcke accompagnate da evviva e da baccani indicibili. Credo che que’ buoni terrazzani rimanessero scandalezzati a tanta profanazione e tuttavia ponno essere alcuni tra essi a cui la nostra partenza dispiacque solo per non poter più sentire dal loro organo ripetere le dolciarmonie di quell’allegrissima notte.»

XIX.— «Sabato 1.° luglio partimmo da Termini u dirigendoci a Cefalù, altra città situata sul mare e ventiquattro miglia da quella discosta. Questa fu la parte più allegra e più splendida del nostro viaggio: traversammo il Fiume Grande le cui rive ridenti serpeggiano fra le sinuosità di un terreno ubertoso ed opimo: e percorremmo forse la più bella fra le strade dell’Isola. Agli sguardi nostri s’offrivano sempre nuovi miracoli, sempre nuove vedute: vasti boschi d’aranci, di limoni e fichi barbarici: stupende pianure intersecate da montagne o torrenti; ed infine una non interrotta continuazione di castelli feudali diroccati o cadenti distribuiti sui ciglioni d’impraticabili roccie le cui cime selvaggio e nerastre si riflettono sulle onde tranquille ed azzurre del Mediterraneo. Una risplendentissima luna guidava coi raggi d’argento i nostri passi durante la notte: essa pareva amorevolmente guardarci dall’alto dei cieli quasi fosse una sorella o un’amica..

XX.— «Giungemmo a Cefalù il successivo mattino alle undici ore. Quegli abitanti ci accolsero con cordialità riservala, di cui bentosto sperimentammo gli effetti pel modo col quale venimmo alloggiati. Il giorno appresso ci riponemmo in viaggio, sempre costeggiando la marina alla volta di Santo Stefano circa otto leghe lontano.»

XXI.— «Potrei male descrivere i patimenti e gli orrori di quella marcia d’inferno. Furono ben ventiquattro miglia d’impraticabili montagne, a destra e a sinistra circondate da precipizii ed abissi, ignude per gran tratto e deserte. Strade non erano, ma sentieri e viottoli appena tracciati tra gli scoscendimenti delle roccie, ingombri sovente da cespugli e burroni e talvolta eziandio da enormi massi di granito cui il lento lavoro di secoli distaccò dalle rupi precipitandoli nelle gole soggette. Valicammo quel giorno due fiumi o torrenti il Pollina e il Patineo le cui acque scorrono tra profonde voragini: e dopo sedici ore d’incredibili stenti e fatiche sani e salvi toccammo la tanto bramata Santo Stefano..

XXII.— «Di là, con una marcia dalla precedente non guari dissimile, ci portammo a Sant’Agata, dove ripigliammo il cammino alla volta di Patti. Questa, quando voglia confrontarsi alle due precedenti, fu una marcia abbastanza gioconda. A Capo Orlando, dopo dodici miglia perle corse, fu concesso un po’ di riposo. Quivi ci le attendeva una grata sorpresa: gli abitanti di Naso e delle vicine località avevano, con gentile pensiero, apparecchiato pei volontari un copioso rinfresco; per gli ufficiali consistente in vino e gelati; ed in vino egualmente, in carne ed in le pane pe’ militi. Alle due antimeridiane del giorno seguente, rifocillati e contenti, prendemmo la via di Gioioso, nove miglia da Capo Orlando discosto e nove miglia pure da Patti, dove egualmente trovammo fraterna accoglienza,»

XXIII.— «Entrammo a Patti per un lungo viale ombreggiato da piante diverse e magnifiche, applauditi e festeggiati da tutto il paese. Patti, posta in situazione superba e città di non grande importanza, giace a cavaliere d’una vaga collina che sporge sul mare, ad oriente del Capo Calnava, d’incontro a Milazzo (152). .

XXIV.— Dall’altra parte il generale nemico non si tosto conobbe che i volontari erano rientrati in campagna, concentrò le sue truppe a Messina, appoggiando le due estremità dell’esercito alle piazze forti di Scaletta e Milazzo. Per tal modo eziandio la costa orientale dell’Isola veniva abbandonata dai presidii borbonici, ove però se ne eccettui la cittadella di Siracusa cui l’importanza del luogo e la difficoltà degli approcci avevano invitato a difendere. I Napoletani occupavano quindi l’angolo più angusto e settentrionale della Sicilia: ed era là che doveva decidersi dei fatti dell’intiero paese.

XXV.— Il generale napoletano nella persuasione che Garibaldi, seguendo la grande strada centrale di Misilmeri e Randazzo, dovesse avvicinarsi a Messina dal lato del sud, aveva da quella parte disposto le sue migliori difese. Ma i volontari avevano, come si vide, seguito una strada diversa: decisamente il generale borbonico era condannato a farsi ingannare dalle arti del suo tremendo avversario. Medici, percorrendo la riva del mare, era improvvisamente comparso davanti a Milazzo nell’istante e nel punto in cui meno aspettavasi. Convenne allora che Bosco mutasse i suoi piani: egli diede le necessarie disposizioni per recarsi ad incontrare l’armata di Medici: e i campi di Milazzo furono scelti come il luogo più adatto alla decisione del grande contesto.

XXVI.— Bosco frattanto lasciato a Messina un numeroso presidio tanto per proteggerla da un attacco nemico quanto per tenere in freno que’ cittadini che ben conoscea male affetti al governo, coll’esercito che rimanea disponibile moveva il mattino del 3 verso Milazzo. Egli movea, guidato da avversi destini, ad incontrarvi quel generale che avevalo consecutivamente vinto cogli stratagemmi a Parco, a Piana de’ Greci e a Palermo, e che or si accingeva a batterlo a Milazzo colla forza delle armi. Le truppe che seco condusse in campagna sommavano appena a sei mila soldati: ove a questi s’aggiungano forse altri quindicimila rimasti di presidio a Messina e nei forti si può congetturare che l’intiera armata napoletana in Sicilia non oltrepassasse i venti mila combattenti. Le defezioni, le malattie e la guerra avevano sì grandemente ridotto un esercito che allo sbarco di Garibaldi a Marsala contava non meno di cinquantamila soldati!

XXVII.— E Medici dall’altro lato lentamente avanzavasi. Il 12 i volontari valicarono il Patti e si diressero sulle colline di Tindaro e Castro: e l’intervallo che divideva i due campi a poco a poco diminuiva e spariva. Il mattino del 13 Medici occupò Barcellona e Limeri (153), piccole terre situate sulla via di Messina, e spinse gli avamposti ancora più avanti nella direzione medesima.

XXVIII.— Verso la sera del giorno medesimo ‘¿rasi divulgata la voce che i regii, scendendo le alture di Gesso, marciassero sopra Rausa. In conseguenza si presero le disposizioni perché i volontari al primo allarme si trovassero pronti ed apparecchiati alla pugna. L’allarme infatti fu dato alle due antimeridiane del 14: in un batter d’occhio tutti erano allestiti, sotto l’armi e al loro posto i due reggimenti della brigata coi loro colonnelli alla testa si schierarono sul torrente Limeri ad attendere il nemico che già si credeva vicino. Ma le ore passavano, né i regii si vedean comparire: i volontari rimasero schierati sino allò ore cinque di sera. Allora il generale, fatto certo che Bosco tuttavia si trovava ben lungi, ordinò ai comandanti delle compagnie di abbandonarsi alle consuete manovre: ed i volontari, dopo aver vanamente aspettato la pugna, tristi e pensierosi adattaronsi agli usati esercizii.

XXIX.— Il mattino del 15 gli esploratori, mandati a spiare le mosse nemiche, annunciavano che Bosco, scendendo la montagna, celeramente marciava sulla via di Rausa, senza dubbio ad oggetto di gettarsi nel campo trincerato di Milazzo. La linea che i Napoletani dovevan percorrere era parallela alla fronte di battaglia dei nostri: ragione per cui poteva credersi vicino un conflitto. Medici impertanto dispose le truppe sul largo e profondo torrente Limeri che scorre da levante a ponente di fronte a Milazzo: posizione di per sé stessa assai forte e resa quasi imprendibile dai lavori che i nostri vi avevano improvvisamente elevato. Il colonnello Malenchini col secondo reggimento si distese sulle due rive del torrente alla sinistra tino alle spiagge del mare: il colonnello Simonella con tre battaglioni del primo occupava Limeri, ed il capitano Guerzoni, faciente funzione di maggiore, schieratasi col quarto battaglione del primo sulle alture di Santa Lucia all’estrema destra del campo. Formavano l’antiguardo sul centro i maggiori Cadolini e Migliavacca coi rispettivi lor battaglioni.

XXX.— «Quanto era bello, scrive un garibaldino, il veliere schierata in ordine di battaglia quella eletta gioventù, speranza unica e somma d’Italia!» Alle ore nove mattutine i volontari notarono che gli avamposti della estrema destra avevano incominciato un movimento retrogrado: segno evidente che il nemico, sì a lungo aspettato, oggimai vicino trovavasi. Un profondo silenzio regnava su tutta la linea: i soldati coll’armi imbrandite e gli ufficiali colle spade sguainate alla testa delle loro compagnie ansiosamente attendevano l’istante d’irrompere. A vederle avresti detto non esser quelle truppe raccogliticcie e volontarie, ma schiere regolari di veterani educati alla disciplina dellle armi e al fragor della zuffa.

XXXI.— Fosse ordine ricevuto o divisamento di Medici, i volontari non si mossero dalle lor posizioni. Prima cura di Medici apparentemente doveva esser quella d’impedire la congiunzione del corpo condotto da Bosco colle truppe che stavano di presidio a Milazzo. Il che avrebbe potuto agevolmente ottenersi intercettando la strada di Spadafuori, unico passaggio che al generale nemico restasse per effettuare il suo piano. Ma il generale dei volontari, o giudicasse la posizione occupata di troppa importanza per indursi ad abbandonarla, o temesse esporsi a qualche inopinato rovescio, o non dovesse per istruzioni avute avventurarsi tropp’oltre, si tenne sulla stretta difesa e lasciò che il nemico tranquillamente compisse la marcia ideata.

XXXII.— Celeramente sfilavano i regi davanti alla linea dei nostri. La colonna sulla via di Spadafuori a Milazzo occupava più miglia in lunghezza per modo che, mentre la fronte si trovava vicino alla fortezza, il retroguardo marciava tuttavia da Rausa. In quel punto due delle nostre guide discesero dal colle di Santa Lucia ad oggetto di esplorare da vicino i movimenti dell’armata nemica. I Napoletani, come videro le terribili camicie rosse avanzarsi si credettero attaccatidall’intiero esercito di Medici; e presi da improvviso e irresistibil terrore si diedero a precipitosa fuga disperdendosi pei burroni e per le roccie delle vicine montagne. Forse oltre mille Napoletani furono sgominati e dispersi dai due volontarii: eglino traversando la montagna si ridussero sulle rive del mare donde, per mezzo di alcune barche a bella posta inviate, vennero il giorno appresso trasportati a Milazzo. Ciò prova quanto stata sarebbe agevole cosa disordinare e distruggere nella marcia l’armata di Bosco se Medici l’avesse pensato o voluto (154).

XXXIII.— Il giorno seguente passò tranquillissimo. I Napoletani approfittarono del breve respiro a riprendere il coraggio perduto ed i volontari a prepararsi al trionfo. Dopo ([nasi due mesi d’intervallo i volontari il 47 luglio finalmente rividero la faccia dei regii.

XXXIV.— Da Milazzo per la vasta pianura si distende una strada tortuosa ed angusta che mette a Limeri. Ad oriente di questa sedevano due cascinali composti di pochi meschini tuguri abitati dai villici: punti di nessuna importanza, ma che erano stati tuttavolta occupati dai nostri avamposti. Archi è il primo e più vicino alla strada: raltro cascinale, un po’più grande e discosto 5 si chiama Coriolo. Forse ottocento Napoletani attaccarono la mattina del 7 nel cascinale di Archi i cento settanta volontari che vi stavano a guardia coi capitani Mangili e Cattaneo. I Garibaldini bravamente lottarono e per lungo tempo rintuzzarono l’audacia borbonica: ma soprafatti dal numero dovettero in appresso ripiegare a Limeri. In quel primo scontro i volontari lasciarono sul campo’ dieci morti ed altrettanti feriti, e perdettero inoltre circa venti compagni rimasti prigionieri col bravo Cattaneo. I Napoletani, restati padroni del campo, breve dimora vi fecero; poco stante il teatro di tanta ferocia scombro restava e deserto.

XXXV.— Quel piccolo scacco subito, lunge dal disanimare i volontari, gli accendeva di nobile ardire: ali annunzio dell’accaduto un grido d’indignazione e vendetta scoppiò da tutti i cuori, s’udi su tutte le labbra. Due battaglioni del reggimento Malenchini furono in tutta fretta mandati a reprimere e a castigare l’insolenza borbonica: eglino s’Insignorirono di Archi e Coriolo, mentre ì Napoletani, presi dalla solita paura, si ritraevano prudentemente dietro le loro trinciere. Calsi con piccoli scontri ed attacchi si preludiava da una parte e dall’altra più seria e decisiva tenzone.

XXXVI.— In questo mezzo Garibaldi, presentendo vicino il conflitto e stimando la propria presenza necessaria sul campo, affidava il 8 il governo dell’Isola nelle mani di Sirtori, suo Capo di stato maggiore, e partiva la sera medesima per mare alla volta di Patti. Egli raggiunse la brigata il giorno 19 a Limeri: e la sua comparsa venne salutata dagli unanimi e fragorosissimi applausi dei volontari e del popolo. Il Dittatore commosso arringò le truppe e le lodò del contegno tenuto in campagna e in battaglia: e con suo ordine del giorno dato in Li meri dichiarò la brigata Medici aver bene meritato della patria (155). La sera medesima il Generale si portò sull’alture di Santa Lucia affine di esaminare la piazza cui voleva assalire ed esplorare le opere e le difese e la disposizione delle forze borboniche.

XXXVII.— Milazzo, città ragguardevole ed una delle principali fortezze dell’Isola, giace sull’istmo che mette ad un angusto promontorio di poco più che tre miglia in circuito ed è terminato col Capo Bianco: essa si divide in due parti; la borgata inferiore od aperta e la città superiore o murata. Al di sopra di questa torreggia un castello antichissimo, avanzo delle passate generazioni ed edificato sulla roccia in situazione pressoché inespugnabile. Le muraglie tetre e grigiastre si riflettono sull’acque ove Augusto, diecinove secoli addietro, in conflitto navale sconfisse la flotta di Sesto Pompeo. Elevasi il castello sulla punta nord-ovest della città sopra l’antico porto, e domina a mezzogiorno e a ponente il campo trincierato, la campagna ed il mare. Ai piedi del castello medesimo giace un grandioso edificio che alle truppe napoletane solea servir di caserma e per la porta del quale si transita dalla bassa alla città superiore. Due strade quasi parallele, ma runa rettilinea e l’altra tracciata con qualche leggiera sinuosità, discendendo dall’alto mantengono le comunicazioni del campo trincierato col forte, e mettono, ambedue ricongiunte, alla porta Messina.

XXXVIII. —Fuori appena di Milazzo la strada piega a sinistra e si dirige costeggiando la montagna a Messina. Da questa, a breve distanza dalla città, un’altra strada diramasi, la quale correndo a mezzogiorno conduce a Limeri, dove allora trovavasi il centro del campo italiano. Ed il campo trincierato tenuto da Bosco per l’appunto occupava lo spazio che stendesi sul davanti della città sino al bivio indicato. Codesto campo, munito di una linea di difesa, da una batteria di campagna e varii fortilizi, appoggiavasi alle due estremità sulle rive del mare che bagna a levante e a ponente la città e la penisola. Per ultimo un piccolo fiume o torrente che scorre tra il campo e la città ed è traversato da un solo ponte meschino ed angusto compie le naturali ed artificiali difese d’una piazza cotanto munita.

XXXIX.— Garibaldi vide, conobbe e risolse. Ritornato da Santa Lucia si pose a meditare il suo piano d’attacco ed ai mezzi di porto ad effetto. Né le difficoltà del luogo, né le formidabili difese che i Napoletani vi avevano eretto valsero a sgomentarlo e ad indurlo ad abbandonar un’impresa dalla cui riuscita doveano dipendere i destini d’Italia. Con imperturbabile sangue freddo e con quella fronte serena ch’egli sa conservare tra i più gravi pericoli emanò gli ordini opportuni perché sull’alba del giorno vegnente si avesse ad incominciare l’assalto.

XL.— Il 20 luglio, alla punta del giorno le truppe italiane trovavansi sotto l’armi schierate e già pronte a marciare. Il colonnello Malenchini doveva col suo reggimento occupare il piccolo villaggio di San Pietro situato a sinistra del campo verso il mare, ed assalire pel primo il nemico alla estrema sua destra. Contemporaneamente il Dittatore recavasi col battaglione Gaeta e col battaglione Dunne ad occupare alcuni cascinali che giacciono ai fianchi della strada di fronte al centro borbonico. A destra il maggior Migliavacca avanzatasi col suo battaglione, col battaglione Gaeta, colla terza compagnia capitano Croff, e colla prima compagnia del battaglione bersaglieri Cosenz, il solo della brigata che in tempo sia giunto a partecipar della gloria di quel memorabile giorno. Il quarto battaglione del primo reggimento ed il maggior Cadolini col secondo battaglione vennero destinati l’uno di riserva sul centro e raltro all’estrema sinistra.

XLI.— Alle ore cinque mattutine s’udirono le prime fucilate. Era il colonnello Malenchini che occupato San Pietro vigorosamente caricava il nemico sin dietro le sue trinciere. Con eguale celerilà e fortuna Garibaldi insignorivasi dei cascinali del centro ed apriva il fuoco di fianco alla strada. Dal canto suo Migliavacca assaliva la destra borbonica, ed in poco d’ora il combattimento si accese micidiale e terribile su tutta la linea.

XLII.— Esteriormente al campo trincierato il terreno, comunque eguale e spazioso, era ciò non di meno frastagliato ed ingombro di canneti e di boscaglie di amandorle, di aranci e di fichi barbarici e presentava agli assalitori innumerevoli e, se non gravi, noiosissimi ostacoli. Non è a dire quanto quegli accidenti favorissero la linea dei Regii, i quali combattevano coperti e nascosti dalle loro difese e dal lussurioso fogliame d’una vegetazione non inferiore a quella dei tropici. Senza artiglieria e scoperti erano i nostri costretti a lottare contro un nemico invisibile, munito di tutti i mezzi e riparato dietro i suoi fortilizi.

XLIII.— Avevano i Napoletani collocato tre pezzi d’artiglieria, l’uno sulla strada di Limeri e gli altri due sui fianchi non lungi dal primo. Il fuoco incrociato ed abilmente diretto dal lor generale fulminava il centro dei nostri, molte cagionando lagrimosissime perdite all’armata italiana. I Garibaldini rispondevano alla meglio all’infuriare nemico e con eroica persistenza mantenevano la; lor posizione.

XLIV.— Così con eguale accanimento e fortuna combattevasi da una parte e dall’altra, senza che la vittoria inclinasse a favore dell’una o dell’altra bandiera. Il Dittatore nel centro, a cavaliere d’un tetto che cuopriva una miserabile capanna, osservava attentamente le mosse de’ Regii e de’ ‘suoi. I Napoletani sópra tutto pesavano sulr estrema lor destra e sul centro e precisamente sullo stradale di Limeri e parevano risolti a tentare un colpo decisivo sulla linea medesima comandata dal generale Garibaldi. Verso le ore undici la somma delle cose annunciava vicino un urlo terribile.

XLV.— Bosco allo stesso tempo mandava una colonna composta delle migliori sue truppe sullo stradale di Spadafuori coll’ordine di portarsi alla destra dei volontari e girarla ed attaccare di fianco le schiere del maggior Migliavacca. Eseguivano i Borboniani il comando: eglino marciavano rapidamente proietti dai canneti e dalle macchie al punto indicato. In quel mentre Garibaldi, non sospettando di quella mossa nemica, avea mandalo a Migliavacca istruzioni di spingersi avanti e di snidare dalla strada suddetta i corpi Napoletani che la occupavano. Accingevasi Migliavacca ad eseguire il comando, allorché si accorse della colonna che a passo di carica sfilava sulla sua sinistra mezzo ascosa tra i cespugli nello scopo evidente di avvilupparlo e rovesciarlo sul centro. Fu mestieri cangiar di proposito: per mezzo di un ufficiale d’ordinanza il maggiore ne diede pronto avviso al Generale, e nel tempo stesso dirigeva la sua linea contro i Borbonici. Questi, vistisi scoperti e trovandosi da assalitori assaliti, ruppero gli ordini e si diedero precipitosamente a fuggire, inseguendoli i nostri fra i boschi e le macchie sin dentro le loro trinciere.

XLVI.— A sinistra il combattimento prendeva una piega diversa. Assalito da forze immensa, mente superiori alle sue, Malenchini fu costretto a retrocedere e ripiegare sul villaggio San Pietro che i volontari tenevano a stento. Quella mossa, retrograda veniva ció non per tanto eseguita con sangue freddo ammirabile: gl’Italiani cedevano a passo a passo il terreno ed opponevano la pii. ferma resistenza all’invasione dei Regii. Verso mezzogiorno l’armata italiana, vincitrice a destra, era perdente a sinistra e il centro conservava la. sua posizione: per tal modo il risultato della zuffa e la fortuna del giorno equilibravasi: pure se vi era vantaggio esso in quell’istante pendeva! dal lato dei Regii.

XLVII.— Allora il Dittatore comprese esser giunto Pistante di tentare un attacco decisivo sul centro. Incontanente ordinò il quarto battaglione Guerzoni di riserva a sinistra e il battaglione Cadolini venissero a marcia forzata a raggiungerlo.. Contemporaneamente spinse in avanti il battaglione Gaeta, mandò Missori e Statella colle guide, e coi carabinieri genovesi ad assalire il cannone che bersagliava la via di Limeri, e finalmente dispose che Dinne coi Picciotti costeggiando la strada attaccasse di fronte i Borbonici. Missori e Statella dovevano a traverso i canneti avanzarsi e penetrare inosservati sino al muro di cinta e questo superato scagliarsi sul pezzo ed insignorirsene. Il Generale medesimo si condusse sul luogo dell’azione a partecipare dei pericoli de’ suoi volontari ed a dirigerne le mosse e il valore.

XLVIII.— Primi i Picciotti, guidati da Danne, a gran passi avanzavano sino al punto ove la strada, perdendo la tortuosità primitiva, in linea diretta si stende all’entrata delle trinciere borboniche. I Napoletani, che li attendevano al varco, li salutarono allora con una triplice scarica d’artiglieria a mitraglia, rovesciando i più esposti e spargendo il disordine nell’intiera colonna. All’improvviso disastro i Picciotti s’arrestavano titubanti ed incerti: e gli ufficiali si adoperavano invano ad infonder coraggio nelle fis sottoposte ai loro ordini.

XLIX.— Approfittando del piccini vantaggio ottenuto Bosco slanciò a caricarli uno squadrone di cavalleria di riserva. Come videro i Picciotti il nemico avvicinarsi a briglia sciolta lungo la strada più non ascoltarono che il fatale spavento da cui stranamente parevan compresi: ed, abbandonata la posizione e smarrito ogni sentimento di pudore e vergogna, si salvarono a destra ed a sinistra fuggendo pel campo. I cavalieri napoletani, trovando la strada già sgombra, rapidamente oltrepassarono e discesero verso Limeri (156).

L.— Ma la rotta dei Picciotti per fortuna era stata più apparente che vera: sulla destra un lunghissimo muro, folte macchie a sinistra bastarono a contenere ed arrestare il loro sgomento e la fuga. Colà riannodati si disposero in linea, pronti a sostenere l’assalto dei Regii ove questi avessero osato cercarli nella nuova posizione occupata. Ad essi tosto si congiunse una compagnia di Malenchini ed una piccola squadriglia di bersaglieri.

LI.— Nel frattempo Missori e Statella? accompagnati da forse cinquanta guide e carabinieri, avevano con pari accortezza che slancio eseguita la mossa che stata ora loro ordinata. Eglino celeramente marciando fra le macchie erano riusciti a superare non visti la linea indicata e si trovavano davanti al terribile pezzo che tanti danni avea già cagionato. Garibaldi li attendea sulla strada a piedi e colla sciabola in pugno: e certo la sua presenza era necessaria ad effettuare un disegno dal cui risultato dipendea la battaglia, il cannone borbonico in quel punto fa fuoco e vomita una grandine di mitraglia: dei volontari alcuni cadono morti o feriti mentre gli altri a tutta corsa si slanciano, ed uccisi o dispersi gli artiglieri, s’ insignoriscono del pezzo e lo rivolgono contro i nemici (4).

LII.— La cavalleria napoletana che scorrea vittoriosa sul grande stradale sentivasi in questo mentre ricominciare alle spalle il fragore dell’armi, e rivolgendosi a tutta corsa volava o a soccorrere i suoi od a salvarsi in Milazzo. Ma il ritorno non era senza pericolo: perocché i Picciotti schierati accanto alla strada raccolsero con un vivo e ben nutrito fuoco di moschetteria cagionandole gravissime perdite. Sotto il tempestar delle palle la cavalleria napoletana passò come turbine e già si credeva al sicuro, quando il Dittatore, Missori e Statella con cinque o sei uomini le intercettarono il passo e le intimarono la resa (157)..

LIII.— Alla intimazione di Garibaldi l’ufficiale borbonico rispose con un colpo di sciabola: il Dittatore lo para e nell’atto medesimo lo ferisce di rovescio alla gola e lo caccia per terra. Si precipitano allora i Napoletani sul Generale che si difendea bravamente, quando Missori come un leone si scaglia nel mezzo e mentre colla persona difende il suo capo, allontana gli assalitori a colpi di revolvers e di sciabola. Infiammati dal nobile esempio i volontari fecero egualmente il loro dovere: e i Borboniani dopo breve difesa rendettero le armi e si dichiararono prigioni di guerra (158).

LIV.— Il Dittatore rannodati quanti più volontari poteva penetrò nel campo nemico ad inseguire i Regii che vinti ed atterriti da ogni parte fuggivano. Nel medesimo tempo Migliavacca superata la linea nemica per la strada di Messina vittoriosamente avanzavasi, inseguendo i Napoletani colle baionette alle reni, verso il ponte che dà accesso in città. E Bosco veduta la sinistra ed il centro sbaragliato ed oppresso incominciò la ritirata fuggendo in castello.

LV.— Una battaglia è una successione fortuita di fatti e incidenti che non si può, rigorosamente parlando, delineara esattamente o descrivere. Si possono bensì numerare e raccogliere i più. lievi accidenti, il cui grande risultato finale è una battaglia guadagnata o perduta; ma non già stabilire l’ordine o il punto nel quale essi accaddero, pesare in giusta lance il loro reale valore e determinare per quali cause ed in quale proporzione abbia ciascun d’essi sulle sorti del giorno influito. La vittoria o la sconfitta è la somma collettiva d’innumerevoli fatti parziali, la cui importanza mai sempre dipende dalle molteplici e volubili circostanze di luogo e di tempo, e i cui rapporti ci sfuggono nella serie infinita delle gradazioni che si sottraggono all’analisi dell’umano pensiero (159).

LVI.— La destra dell’armata napoletana che, respinti i volontari di Malenchini, vittoriosa marciava a San Pietro, correva in tal modo pericolo di venire separata dai suoi e travolta nel mare il che sarebbe senza dubbio avvenuto se il corpo di Garibaldi fosse stato più forte od i militi meno affaticati. Come i Borboniani s’accorsero della disfatta subita dal centro e dalla loro sinistra lasciarono Malenchini e precipitosamente fuggirono verso Milazzo, con qualche stupore de’ nostri che non sapeano la cagione di tale spavento. Ogni ordine di disciplina era rotto: i soldati anelanti correvano al ponte e promiscuamente si precipitavano nella città. I Garibaldiani gli inseguiano d’appresso, ma non tanto però da impedire che; il nemico raccogliesse tutte le sparse sue schiere sotto il cannone del forte (160).

LVII.— Primo a penetrare sino al ponte Ai il maggiore Migliavacca col suo battaglione. 1 Regii, non ritenendosi sicuri nemmeno in Milazzo, s gettarono a precipizio nel forte. Le strade e la campagna, poco prima gremita di truppe borboniche appariva già sgombra e deserta: né un solo soldato nemico trovatasi nello spazio che giace tra il ponte e il castello.

LVIII.— Adorai cannoni del forte cominciarono a tirare a mitraglia: il maggior Migliavacca gloriosamente cadeva alla testa del suo battaglione, già decimato da sei ore di lotta incessante. Pure ogni sforzo suo fu inutile: l’intera linea garibaldina avanzavasi vittoriosa ad investire la città. I volontari vi penetrarono a viva forza sotto un’orribile pioggia di palle e proiettili: e rasentando le case o percorrendo le vie laterali si portarono ad occupare il molo e la piazza medesima situata davanti al castello. Colà giunti proseguirono il combattimento senza nessun risultato per una parte o per l’altra: né le artiglierie reali potevano recar nocumento ai volontari schierati sotto le mura stesse del forte o dietro le case della perduta città, né i Garibaldiani coi fucili valevano a recar danno al nemico coperto dalle grosse muraglie del castello.

LIX.— Vincitori i volontari si distesero sulla penisola ed occuparono i punti donde meglio potevasi bersagliare gli artiglieri nemici. Il Dittatore ordinò che si costruissero barricate all’intorno del castello al fine d’impedire qualunque sortita che Bosco pensasse intraprendere, ed appostò tre distaccamenti sul Molo e sulle alture del Molino a vento e di San Leucio, al nord e al nord-ovest, con istruzione di sorvegliare e molestare le truppe borboniche. Di là i volontari nutrivano un fuoco incessante e vivace contro le cannoniere del forte sebbene con pochissimo frutto.

LX.— Avea Garibaldi disposto che Tuckery, sul quale era giunto a Patti unitamente alle guide e al battaglione Cosenz, si portasse nel golfo della Madonna, onde potesse al primo cenno avanzarsi e cannoneggiare il castello. Il momento era giunto di porre ad effetto quel piano: ma nel viaggio Tuckery avendo perduto una ruota fu per esso impossibile il prendere parte alla zuffa.

LXI.— Ma il giorno seguente il vapore, la City of Aberdeen, il quale aveva a Patti esso pure sbarcato il rimanente della spedizione colonnello Enrico Cosenz, proseguendo, a norma delle ricevute istruzioni, il viaggio, comparve davanti a Milazzo. Il Dittatore lo raggiunse su piccola barca: e presane la direzione, abile del pari nelle operazioni di mare e di terra, egli stesso il condusse all’attacco del forte.

LXII.— Il combattimento durava così per due giorni senza che perciò si cangiassero le sorti dei due contendenti. Da una parte i volontari mancavano dei mezzi voluti ad espugnare il castello, e dovevano quindi unicamente accontentarsi a bloccarlo: Bosco dall’altra, circondalo e rinchiuso, non poteva sperare di sottrarsi ad una resa oramai inevitabile. Oltre cinque mila Borboniani, d’ogn’arma e di varie lingue e paesi, stavano colà rintanati; le provvigioni erano insufficienti per modo che già quasi mancavano i viveri il secondo giorno del blocco. Quello che non potevano i Garibaldiani il poteva la fame, la nemica fatale e inflessibile delle fortezze assediate. Per poco che quello stato di cose fosse ancora durato stato Bosco sarebbe costretto ad arrendersi a discrezion del nemico. I volontari, con un sorriso, osservavano dall’alto del castello il telegrafo arrovellarsi a chieder soccorso: ben eglino comprendevano il significato di quel muto linguaggio: il presidio versava in angustie pressanti e terribili (161).

LXIII.— Verso le dodici meridiane del 23 successivo gli avamposti italiani scoprirono un vapore che, spinto a gran forza, navigava alla volta del porto issando bandiera borbonica. Altri vapori non lungi il seguivano; e ben tosto un’ intiera flottiglia nemica comparve davanti a Milazzo. Ma le intenzioni dei sopravvenuti non erano ostili se dovea giudicarsi dalla bianca bandiera parlamentare che sventolava attaccata all’albero di prora del primo vapore. Il Dittatore, avvertitone, faceva incontanente schierare i suoi militi in linea di battaglia, e spediva il colonnello Cenni dello Stato Maggiore a ricevere le proposte dei Regii. Salito sopra una lancia sormontata da due piccole bandiere, l’una tricolore e l’altra bianca, Cenni recavasi a bordo del legno nemico, donde mezz’ora dopo tornava accompagnato da un colonnello e due ufficiali napoletani incaricati a trattare col general Garibaldi.

LXIV.— Dopo cinque ore d’animato colloquio vennero stabiliti i patti per la resa del forte sulle basi seguenti: Escirebbero i soldati napoletani coll’onore dell’armi,e s’imbarcherebbero sui legni medesimi ancorati in vista del porto. La fanteria porterebbe seco quanto le apparteneva; la cavalleria lascerebbe i cavalli che sarebbero consegnati allo Stato Maggiore italiano. Delle tre batterie di cannoni da fortezza e da campo che tuttora in castello trovavansi, una mezza batteria di campagna sarebbe stata conservata dai Napoletani il resto verrebbe ceduto. Finalmente i Regii s’impegnerebbero a non portare entro un determinato spazio di tempo le armi contro ì volontari sia in terraferma o nell’Isola.

LXV.— A dieci ore del mattino 24 luglio i volontari si schierarono lungo la strada che mette dal porto al castello a sorvegliare la partenza e rimbarco dei Regii. A mezz’ora dopo il meriggio dal lato opposto e precisamente dal lato del molo s’intese un rumore dapprima confuso che in seguito si tradusse in grida ed in fischi acutissimi: era Bosco, il quale prevedendo gli onori che i volontari gli avrebbero resi, da una porta segreta del castello scendeva sul mare dove una lancia attendevalo per condurlo a bordo d’un piroscafo regio.

LXVI.— Lo sgombro dei Regii cominciava alle due e mezzo pomeridiane. In quel giorno s’imbarcarono 400 soldati d’artiglieria, mezzo battaglione del primo cacciatori e circa 200 uomini di cavalleria: marciavano questi a piedi, gli uni dietro gli altri, tristi ed umiliati per cotanta sventura. La prima compagnia reggimento Simonetta venne un’ora più tardi incaricata a ricevere la consegna del castello, non che dei 140 cavalli e 96 muli che a tenore della capitolazione dovevan trovarvisi.

LXVII.— «Imponente è l’aspetto di quella fortezza (cosi un garibaldino descrive le proprie impressioni): fabbricata sulla roccia essa dote mina il mare da tre lati e dall’altro la soggetta città. La cingono grosse e doppie murate glia da quindici a venti metri d’altezza e guernite di circa quaranta pezzi d’artiglieria di vario calibro, con polveriere e magazzini e con; u tutto il necessario per una lunga difesa, meno tutta volta i viveri. Maravigliai di trovarmi là dentro: ma più assai mi fece stupire la presenza di forse quattromila Napoletani che umiliati e malconci io vedeva prostesi sul nudo terreno. Eglino erano bene armati, ben vestiti ed istrutti: eppure non aveano saputo resistere a noi, soldati improvvisati, in malissimi arnesi ed animati soltanto dall’amore di patria e dall’ardire a che infonde una santissima causa..

LXVIII.— Alle undici antimeridiane del giorno seguente i Napoletani rimasti nel forte s’imbarcarono essi pure e partirono: mezzo il primo battaglione, l’ottavo ed il nono cacciatori e il primo reggimento di linea; gli artiglieri ed i cavalleggieri marciavano a piedi. La fortezza in tal guisa evacuata venne per intiero occupata dai nostri che vi piantarono sugli spaldi la bandiera italiana.

LXIX.— Alla punta del giorno ventesimo-sesto di luglio, lasciato Milazzo, la brigata Medici si dirigeva a Spadafuori, posizione eccellente e, strategicamente parlando, di grande importanza; si aspettavano i nostri incontrare qualche truppa di Regii che lor contendesse il passaggio ne’ monti, e non è a dire qual fu la generale sorpresa, quando, entrati in paese, lo trovarono libero e sgombro. Seppero poi da quegli abitanti come i Regii l’avevano per vero occupato, ma che dopo i rovesci di Milazzo se n’erano allontanati portandosi a Gesso. A tre ore di notte, il 27, l’avanguardia comandata dal colonnello Fabrizi inoltravasi fra le gole che mettono all’alture di Gesso dov’era seguita dall’intiera colonna. Entrarono inpaese dopo cinque ore di marcia alle otto antimeridiane e lo trovarono allo stesso modo abbandonato dal fuggente nemico.

LXX.— A quattr’ore pomeridiane i volontari proseguirono il viaggio internandosi in un labirinto di scoscese montagne fra le cui gole s’apre la strada che sola ed angusta conduce a Messina. Ma trascorse quattro miglia appena i Garibaldini raggiunsero un superbo altipiano tracciato sulla vetta della montagna e procedente con leggero declivio al meriggio: opera stupenda della natura che sembra un belvedere ideato dall’ingegno dell’uomo. I volontari rimasero estatici davanti l’immenso panorama che s’apriva ai loro occhi a destra vedeano la Sicilia già libera ed i campi di Limeri e Milazzo, il teatro delle loro recenti vittorie, contemplavano a sinistra l’azzurra ed irrequieta superficie del mare Ionico le cui onde spumeggiando frangevansi contro gli scogli della muta Calabria: di fronte sorgeva Messina colla sua cittadella e i suoi forti al di sopra dei quali torreggiavano nel lontano orizzonte le vette nevose dell’Etna. SI magnifico spettacolo accompagnò i volontari sino al termine del loro viaggio: eglino, pervenuti a tre miglia da Messina, si arrestarono e posero il campo.

LXX1.— Bivaccarono, si può dire, la notte coll’armi sul braccio e pronti al minimo allarme a disporsi in battaglia e a marciare. Pure le ore passarono abbastanza tranquille: i Napoletani avevano tutt’altro pel capo che la voglia d’impegnarsi in novelli conflitti. Il seguente mattino una convenzione fu stipulata tra i generali Medici e Clary, mediante la quale i Regii abbandonavano la città di Messina ed i forti, meno però la cittadella, ove le truppe borboniche si sarebbero accasermate coll’obbligo, se non provocate, di non molestare la città né combattere contro i volontari sino a guerra fluita. Medici dal canto suo si obbligava a permettere che il presidio della cittadella facesse le sue provvigioni in Messina nel modo e nel luogo a ciò fissato. Colla stessa convenzione i Regii cedettero eziandio la importantissima cittadella di Siracusa. Il giorno stesso i Garibaldiani entrarono in Messina e vi presero il possesso a nome della patria italiana.

LXXII.— Entro pochi giorni si radunarono a Messina tutti i corpi appartenenti all’armata meridionale. Nino Bixio, dopo fatto il suo giro a traverso dell’Isola raggiungeva colà il Dittatore; la spedizione Cosenz già era arrivata. In que’ giorni l’esercito Garibaldiano coniava non meno di dodicimila soldati.

LXXIII.— La battaglia di Milazzo aveva definitivamente deciso delle sorti dell’Isola: la convenzione di Messina annichiliva la resistenza borbonica. Garibaldi vincitore e securo alle spalle poteva rivolgere il pensiero all’effettuazione della seconda parte della sua gloriosa campagna. Da quel giorno i volontari unicamente attendevano l’ordine di tragittare lo Stretto e di portarsi in Calabria.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-PERINI-La-spedizione-dei-Mille-storia-documentata-2025.html#LIBRO_IV

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