Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (X)

Posted by on Mag 21, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (X)

LIBRO X

Marcia a Salerno. — Entrata in Napoli

I.— Se pure Francesco II aveva un istante potuto sperare che la costituzione valesse a ricondurre nel Regno la tranquillità e la pace, gli avvenimenti sopraggiunsero tosto a trarlo dai sogni dorati e a dissipare ogni vana illusione. Invano la diplomazia esauriva i suoi sforzi a galvanizzare un cadavere per metà putrefatto: invano i Napoleonidi cospiravano colle tradizioni italiane a rassodare sul capo del giovine Re la pericolante corona di Ferdinando II. Ispirata alle idee di un secolo intieramente diverso dal nostro, la monarchia napoletana era condannata a sfasciarsi al primo urto dell’Italia risorta. Il trono di Francesco Il avrebbe abbisognato per reggersi che l’Austria fosse eternamente rimasta dominatrice della valle del Po ed avesse continuato colla sua mana di ferro a comprimere l’intera penisola. Gli Italiani non domandavano al governo di Napoli leggi o riforme: non era la libertà od il patto costituzionale, ma il dominio stesso dei Borboni che i tempi ed errori infiniti avevano reso impossibile.

II.— L’opera lenta e perseverante della Giovane Italia aveva recato i suoi frutti: dopo sei lustri di cospirazioni e di sacrificii il programma politico di Giuseppe Mazzini otteneva l’adesione dei popoli e stava oggimai per raggiungere la sua pratica applicazione eziandio nel campo dei fatti. Gli Italiani correvano sull’orme del grande maestro: e postergando ogni considerazione di gloria o d’interessi locali, di convenienze politiche, di libertà e di governo, unicamente miravano a costituire l’unità del paese. Invasi e dominati da tale pensiero non eglino chiedevano libertà o riforme, ma un Regno od uno Stato che tutte abbracciasse le diverse regioni della penisola dalle Alpi alla estrema Sicilia.

III.— Nelle fortunose vicende avvenute nel 1859 lo scopo s’era a metà per lo meno raggiunto: il primo soffio della rigenerazione italiana avea bastato a rovesciare le piccole monarchie di Firenze, di Parma e di Modena: ed il paese fiducioso attendeva che la spada garibaldiana egualmente infrangesse lo scettro di Francesco II e la terrestre corona del santo Pontefice. Sotto l’impero di tali aspirazioni stato sarebbe impossibile indurre l’Italia ad accettare un dualismo monarchico sì contrario alle speranze ed ai voti dei popoli. La penisola divisa in due regni appariva; allo sguardo dei più siccome un’utopia un controsenso, un errore politico: errore che ad ogni costo dovevasi evitare e respingere.

IV.— Il programma federale era il solo che poteva salvare dall’estrema ed imminente rovina la dinastia dei Borboni: ma questo, osteggiato del pari dalle società secrete e dalla pubblica opinione, era ornai divenuto impossibile. L’Italia a que’ giorni presentava lo strano fenomeno di un popolo che unicamente riceveva le sue ispirazioni dalle occulte congiure che ne dirigeano i voleri ed i moli. Minato in tutti i sensi e lungamente agitato da innumerevoli affigliazioni politiche il paese nostro per mezzo della cospirazione soltanto si poteva guidare e condurre. Dalla caduta di Napoleone all’avvenimento di Pio IX gli affigliati alle varie congreghe furono i soli che osarono parlare alle popolazioni di libertà, di nazionalità e di patria: e non è quindi meraviglia che gl’Italiani in essi soli riconoscessero i loro condottieri naturali e maestri, che li seguissero con eroica ostinazione in esigilo, negli ergastoli e sui patiboli e che ne accettassero le dottrine e i consigli.

V.— Per somma sventura della dinastia borboniana tutte le cospirazioni liberali surte dopo il 1814 in Italia aveano sin da principio adottato la divisa unitaria. Come vivessero in un mondo novello ed infinitamente diverso dal nostro, i Re di Napoli mostrarono non avvedersi della voragine che si apriva all’intorno del trono: confidando nelle armi e nella fortuna dell’Austria i due Ferdinandi e Francesco I non pensarono menomamente ad assicurarsi una via di salute pel caso d’un rovescio che potesse toccare ai loro augusti patroni. Stoltamente imprevidenti non vollero o non seppero in tempo scongiurar l’uragano che loro fremeva sul capo: ed al torrente delle cospirazioni che straripava da tutte le parli opposero l’immobilità dei loro cervelli, la forza brutale, gli esilii e i patiboli, quasi le baionette e le forche bastassero ad arrestare i pensieri dell’uomo. Pur troppo gli orgogliosi della terra non sanno persuadersi che le idee, comunque incorporee, esercitino un irresistibile fascino sulla inerte materia, e come, essendo per natura espansive, acquistino in rapidità ed intensità quanto più si spende di tempo e di sforzi a comprimerle.

VI.— Nel 1848 Ferdinando II avrebbe dovuto comprendere quanto labili fossero le basi della sua dominazione e la necessità di creare una politica a suo beneficio, di farsi capo di alcuna delle innumerevoli sette che minavano la penisola e di adoperarla come mezzo di popolarità e di governo. Egli forse sarebbe riuscito, opponendo programma a programma e cospirazione a cospirazione, ad arrestare la propaganda unitaria che doveva tosto o tardi rovesciare il suo trono. Egli avrebbe dovuto avvedersi del modo col quale le secrete conventicole disponevano della pubblica opinione, davano e toglievano la popolarità, creavano ed atterravano gl’idoli ed estendevano la loro misteriosa potenza in tutta l’Italia. Sfortunatamente la legittimità lo accecava: e invece di cospirare coi popoli oppressi, cercò salvezza congiurando coll’Austria e col Papa, coi gesuiti e i sanfedisti, a danno del paese e involontariamente pur anche a detrimento dei propri interessi. Sebbene accorto politico e profondo conoscitore del cuore umano, Ferdinando II non comprese né allora né mai l’opportunità di collegarsi coi popoli: ma stringendosi fra le pastoie d’un odioso passato ed ispirandosi alle illiberali tradizioni della propria famiglia accelerò la rovina della sua dinastia. Erede sfortunato della politica antitaliana del padre, dell’avo e del bisavolo, Francesco II era condannato a subire la catastrofe che i predecessori suoi legato gli avevano.

VII.— Non è facile immaginare quanto potente e diffusa la cospirazione unitaria fosse in que’ giorni in Sicilia ed a Napoli. L’esito glorioso della campagna lombarda aveva grandemente contribuito ad elevare le speranze e le pretese del partito italiano: è mentre, prima della guerra, moltissimi accontentali sarebbersi d’una confederazione di Stati liberi ed indipendenti, dopo le vittorie di Magenta e Solferino, i fatti dell’Italia centrale e la portentosa spedizione di Garibaldi in Sicilia, altamente domandavano l’unità del paese sotto le medesime leggi ed intorno ad un unico centro. Per tal modo la sconfitta dell’Austria e il non-intertento, come regola di condotta della Francia e dall’Inghilterra accettato, avea lasciato il trono di Napoli senz’appoggio e difesa in balia delle secreto congiure e delle aperte popolari sommosse.

VIII.— Effettuata la spedizione dei Mille, prima cura della consorteria moderatrice stabilita a Torino e capitanata dal La-Farina fu quella di accingersi a sfruttare le vittorie dei volontari italiani e gli sforzi del partito dazione. In sul principio i moderati speravano imporsi a Garibaldi ed al ministero Siciliano e sedere a Palermo regolatori degli avvenimenti e della pubblica cosa: ma tosto, sventato quel vago disegno, rivolsero i loro sguardi ai continente napoletano dove meglio credevano aperto il terreno alle loro dottrine. Diffatti una mano invisibile, comeché conosciuta, in poco tempo e con perseverante tenacità travagliando nel senso, e secondo gl’interessi, dei moderati, raccoglieva intorno ad un centro le innumerevoli associazioni politiche disseminate fra le provincie del Regno e dava moto e direzione comune agl’incomposti conati dei popoli, fino allora lasciati in balia di se stessi. La Società Nazionale di Torino acquistala l’adesione del Comitato napoletano, e per mezzo di questo ponevasi in comunicazione coi circoli insurrezionali dagli Abbruzzi all’estrema Calabria (210). Col mezzo di mandatari ed esploratori, a bella posta inviati sul luogo, corrispondeva con tutte le società stabilite nel Regno, ne ispirava la condotta e sorvegliavano gli andamenti e le mire. Prima ancora che Garibaldi passasse in Calabria l’intiero continente napoletano era già acquisito alle idee moderate del signor La-Farina e de’ suoi illustri patroni.

IX.— Per tal guisa Napoli, immensa e popolosa metropoli e già centro di numerose e diversissime associazioni, diveniva il quartier generale di una vasta propaganda La-Fariniana e unitaria. In breve, come accade sovente, le varie sètte aderivano a quella che capitanava l’opposizione alla Corte, e tutti i malcontenti e i nemici dei Borboni raccoglievansi intorno lo stendardo della rivolta che gli unitarii aveano di già sollevato. Le reliquie del bonapartismo e del muratismo, gli antichi mazziniani e carbonari e gli adelfi abbracciavano l’opportunità di misurarsi, coi loro nemici ed accorrevano volonterosi ad aumentare le file del Comitato nazionale. Senza distinzione di colore o d’intenti le frazioni liberali formavano una sola falange che impegnava la sua ultima zuffa col governo abborrito di Casa Borbone. E i popoli, amanti di novità od avversari dichiarati del vecchio ordine di cose, cooperavano potentemente alla rovina dei loro signori.

X.— A tale, sul finire del giugno, era pervenuta l’esaltazione degli spiriti che nessuna forza valeva oggimai a contenere la rivolta irrompente. I liberali parevano moltiplicarsi in progressione geometrica: il numero dava l’impunità, e questa giornalmente accresceva le file del partito unitario. Né solo le classi colte ed agiate, per lo addietro tenute in sospetto di liberalismo, ma eziandio la moltitudine ignorante e fanatica a poco a poco passava nel campo nemico al governo.

XI.— Fra le cause che maggiormente contribuirono ad estendere la cospirazione, alcune ve n’erano generose e lodevoli: né per ciò vorremmo affermare che i motivi dominatori di tutte le menti fossero del pari disinteressati e sinceri. L’immensa maggioranza del popolo, giova almeno sperarlo, respingeva Francesco II per amore all’Italia, pel desiderio di costituire l’unità nazionale e per fondare su basi durevoli l’avvenire e la libertà del paese nativo. Ma oltre que’ magnanimi, che tutto avrebbero sacrificato alla patria, i nemici della Casa Borbone si reclutavano fra i malcontenti e i reietti del vecchio regime, fra gli amatori dei trambusti e delle rivolture sociali, fra gli smaniosi di onorificenze e d’impieghi, tra gli ambiziosi infine e gli scioperati che nel cangiamento del governo si lusingavano trovare la propria fortuna. Moltissimi erano liberali per principio, alcuni per interesse ed altri finalmente per soddisfare le proprie individuali passioni. E la popolazione ignorante seguiva il corso delle idee che non sapeva o non poteva comprendere e lasciavasi trascinare dall’ascendente del costume e della moda che esercita sempre una incalcolabile influenza sulle azioni e sui pensieri degli uomini.

XII.— Tuttavia non si dee misconoscere che il vero e principale movente di tanta avversione proveniva anzi tutto e sopra tutto dalla pessima amministrazione e dalla infame ed antinazionale politica del governo borbonico. Sembra che dopo la morte del celebre ministro Tannucci i Re che si succedettero al trono di Napoli fossero tutti condannati a servirsi degli uomini più ignoranti ed odiosi, |i quali senza saperlo, travagliavano indefessi alla rovina de’ loro padroni. Non seppero i Borboni o non vollero mai comprendere che la forza e l’autorità del monarca unicamente riposa sull’obbedienza e l’adesione dei sudditi, e che il trono più fermo e più stabile è quello che ha per base la sicurezza sociale e l’amore dei popoli. Le proscrizioni sistematiche, gli arresti arbitrarii, le spogliazioni e le vessazioni politiche a cui la Corte abbandonavasi per istinto ed abitudine, aveano più ancora delle società secrete contribuito a diffondere e propagare ridea italiana. Nel tempo medesimo la generale corruzione che diffamava la gerarchia amministrativa toglieva al governo la propria influenza e ne diminuiva l’autorità ed il rispetto agli occhi degli stranieri e de’ sudditi. Mentre l’odio accumulato di quattro generazioni, a guisa di irresistibile uragano, veniva a rovesciarsi sul trono reale, la corruzione dell’esercito e del governo accelerava la sua distruzione. Certo le cospirazioni liberali avrebbero dato seriamente a pensare ai Borboni, ma nulla avrebbero esse potuto mentre l’armata fosse stata fedele al suo Re, ed il popolo attaccato alle leggi e alla persona del principe. La stessa diplomazia è costretta a riconoscere che non tanto alle suggestioni venute da Torino od all’opera delle cospirazioni quanto alle inique e brutali misure della polizia, attribuire si dee il malcontento che metteva in que’ giorni a soqquadro lo Stato di Napoli (211). Cosi agli occhi stessi dei diplomatici la rivoluzione della Sicilia e della terraferma napoletana appariva un atto di legittima difesa contro le provocanti escandescenze e l’arbitrio brutale dell’autorità governativa (212). Come potevano le popolazioni rispettare o sostenere l’autorità di un governo che non rifuggiva dai mezzi più abbietti e più vili per mantenersi ed imporsi al paese? Un governo che abusava della forza brutale fino ad adoperare l’anarchia ed il disordine come mezzi di repressione, e che non si vergognava di violare i più sacri fondamenti del patto sociale, rilasciando gli assassini ed i ladri dalle prigioni di Palermo e Messina? (213) Che per libidine di strage e rovina faceva dai poliziotti travestiti e dai ladri insultare le truppe affine di provocare un conflitto ed allagare di sangue le sue più fiorenti città? (214) Come poteva un simile governo reggere e durare in onta alla civiltà e all’onore d’Europa? Qual meraviglia che le popolazioni abbracciassero con tanta effusione l’opportunità di liberarsi dai loro carnefici, e che il più lieve sintomo d’un migliore avvenire le facesse palpitare e commuovere? (215).

XIII.— Fu dopo la promulgazione delle concessioni costituzionali che la febbre rivoluzionaria raggiunse lo stadio di vero parossismo politico. L’agitazione popolare divenne in pochi giorni cosi generale o minaccievole che il governo si vide o si credette costretto a proclamare nuovamente lo stato d’assedio. Cosi le promesse di liberali riforme si alternavano colle comminazioni delle pene più sanguinarie e dispotiche: ed invano prodigavansi lusinghe e minacele ad arrestare la corrente dei fatti che stavano già per compirsi.

XIV.— Per lo addietro il governo di Napoli avea riposato sulla fede mercenaria dell’esercito, istituito unicamente ed educato a comprimere le velleità liberali dei popoli, e sull’attaccamento dell’infima plebe, cui la più supina ignoranza toglieva il comprendere e pregiare i vantaggi della vita libera e costituzionale. Ma nei tempi dei quali parliamo, eziandio. quel duplice appoggio o appariva insufficiente o per intero passava nel campo delle idee italiane. L’esercito borboniano avea fatto di sé troppo misera prova sui campi di Calatafimi e Milazzo e sotto le mura stesse delle fortezze palermitane, perché gli si potesse, con ¡speranza di vittoria, affidare i destini del trono. Dall’altra parte la fiamma suscitata già da Masaniello era stata abilmente riaccesa tra i Lazzaroni napoletani: e il governo poteva contare oggimai altrettanti nemici in coloro medesimi che aveano per lo passato accanitamente sostenuto la sua autorità.

XV.— A tale eran giunte le cose quando a Napoli perveniva Pannunzio che Garibaldi, tragittato lo Stretto, aveva sbaragliato e quasi senza battaglia distrutto le truppe che guardavano la Calabria citeriore e ulteriore. Non è a dire quanto l’improvviso avvenimento giungesse opportuno a diminuire il terrore ispirato dallo stato di assedio a cui di recente era stata la città sottomessa. L’entusiasmo popolare andò al colmo allora quando si conobbe che il Dittatore, superate le alture di Monteleone e Tiriolo e minacciando Catanzaro e Cosenza, accingevasi a marciare trionfante su Napoli.

XVI.— La consorteria La-Fariniana, allarmata delle successive e strepitose vittorie dei Mille e desiderosa di arrestare il progresso del moto italiano, apparentemente studiavasi di troncare il corso delle armi, di prevenire il Dittatore e di attribuirsi l’onore di avere essa stessa e da sola rovesciata la monarchia dei Borboni. Bisognava a tale oggetto precipitare l’insurrezione di Napoli e per questo mezzo costringere Francesco II a fuggire a Gaeta od a Capua, lasciando la sua capitale in balìa del tumulto e del disordine. Se l’intento avesse potuto riuscire, i La-Fariniani, di già apparecchiati, avrebbero afferrato il potere, presentandosi eziandio davanti all’Europa siccome i vindici ed i restauratori dell’ordine nella città abbandonata dall’antico padrone. Una volta poi pervenuti a dominare la pubblica cosa avrebbero potuto provocare ed imporre l’annessione immediata delle provincie meridionali al Regno italiano ed impedire a Garibaldi l’avvicinarsi di troppo al confine romano ed austriaco. Votata l’annessione si avrebbe potuto ordinare al Dittatore di sciogliere l’armata o deporne il comando nelle mani di persone più benevise e simpatiche E la rivoluzione, trascinanlesi tra le montagne calabresi sulle orme dell’esercito garibaldiano, priva del suo centro legale, sarebbe stata decapitata e distrutta in sul nascere. I volontari da ultimo avrebbero dovuto rimanere fra i monti e le pianure della Basilicata nella stessa anormale e bruttissima situazione in cui s’erano già trovati durante la marcia da Marsala a Calatafimi, a Monreale, a Parco e a Palermo.

XVII.— Ma il piano dei La-Fariniani, sebbene abilmente architettato, portava in sé stesso le cause della propria rovina. Prima di tutto avevano essi bisogno di suscitare l’insurrezione di Napoli: se non che l’esperienza dimostra che i popoli insorgono solo quando il bollore delle passioni politiche ha ecceduto ogni limite e l’entusiasmo siede arbitro e dominatore dei cuori e delle anime. La rivoluzione è un uragano, un turbine, una febbre che accende migliaia e migliaia di petti e li trascina misteriosamente alle barricate e alla Jotta: ma essa trova in sé sola la propria ispirazione e la propria condotta. Nessuna forza umana vale a provocare od a reprimere un movimento di piazza quando è generale e determinato dalle cause che sole possono fanatizzare la folla e trarla a combattere. La rivoluzione che si prepara da un uomo o da una setta e che si crede poter governare a beneplacito di qualsiasi padrone, non è rivoluzione popolare, ma un tumulto, un aborto, un semplice fuoco di paglia. Finalmente la rivoluzione era di sua natura Garibaldiana e liberale non La-Fariniana e moderata: e mentre la comparsa dei Mille avrebbe posto in conflagrazione l’intiera città le istigazioni di pochi ed illusi settarii non potevano riuscire che a vani ed impotenti conati.

XVIII.— I La-Fariniani come potevano essi adoperare l’entusiasmo rivoluzionario delle masse quale elemento di riescita, se appunto loro studio era quello di arrestarlo e comprimerlo? Come potevano essi parlare alle moltitudini di barricate e di lotta mentre sperano mai sempre adoperati a raccomandare la tranquillità e la conservazione dell’ordine! In qual modo dovevano essi parlare d’insurrezione quando aveano dichiarato esser essa un ostacolo alla redenzione italiana? Volevano eglino ordinare una rivolta colle forme diplomatiche: ignoravano o fingevano ignorare che la diplomazia spegno talvolta, ma giammai non crea l’insurrezione. Oggetto d’altronde dei loro maneggi era quello di frenare e dominare e non di suscitare i moti popolari: e sebbene camuffati da liberali erano pur sempre i campioni del moderatismo e dell’ordine. Coi loro sforzi e raggiri agitare potevan bensì ma non già sollevare la folla.

XIX.— Malgrado tali contraddizioni i La-Fariniani credettero un istante che tutto fosse a sperarsi dai mezzi di cui disponevano. Per la massima parte i comitati avevano riconosciuto la loro fittizia autorità: bastava quindi che formulassero il loro pensiero perché questo fosse in un lampo ripetuto per tutto il paese. Avevano inoltre denari da spendere e profondere senza riguardo: e potevano promettere onorificenze ed impieghi ai zelanti fra i loro servitori ed impertanto contare sugli ambiziosi, sui vani e su tutti coloro i quali in un cangiamento non altro vedevano che un mezzo di cangiare di condizione e fortuna. I comitati, è duopo render loro giustizia, fecero del loro meglio per soddisfare le brame dei loro padroni; e se, per allor, non riuscirono, non fu loro colpa, ma bensì delle circostanze e dei tempi ribelli alle loro pretese. Quanto diverse andrebbero sovente le cose se l’intenzione dell’uomo bastasse a governare ed a reggere il mondo!

XX.— In Napoli alcune case avevano ricevuto considerevoli somme a disposizione di certi individui che in quei giorni godevano di grande autorità fra i comitati e le sètte politiche. Donde i danari venissero non è conosciuto: ma è noto che i capi dell’agitazione popolare, specialmente appartenenti all’infima classe, spendevano e prodigavano a destra e a sinistra, al?uopo assoldando a contanti gli addetti e i seguaci. Era forse piccolissimo il numero di coloro che percepivano una sovvenzione od un soldo come prezzo del loro liberalismo: né il fatto è per questo men significativo o meno notorio.

XXI.— Fino dal mese di giugno i comitati di Napoli avevano clandestinamente arruolato una piccola squadra di circa duecento persone, scelte fra i più risoluti ed intrepidi artigiani e plebei della vasta metropoli. Percepivano queste la mercede quotidiana d’una piastra: e si obbligavano per contro ad accorrere al primo segnale armate ed apparecchiate ad una impresa di cui stavasi macchinando il disegno. Il secreto sì a lungo e tanto gelosamente custodito, era né più né meno d’un colpo di mano improvviso che trattavasi d’eseguire contro lo stesso Castello di Sant’Elmo, formidabile fortezza che domina e minaccia finterà periferia della grande capitale. Sembra però che i La-Fariniani meno confidassero nel valore e nell’audacia dei loro duecento che nell’efficacia de’ mezzi secreti di cui disponevano. Nel tempo medesimo ch’eglino invocavano il braccio dei popolani acquisivano eziandio il concorso di un alleato nella stessa fortezza cui si voleva sorprendere.

XXII.— L’affare venne conchiuso e stabilito nel modo seguente. Alcuno degli ufficiali superiori di presidio nel forte Sant’Elmo, lasciatosi evidentemente sedurre dall’oro o dalle arti dei comitati, prometteva consegnare la fortezza nelle mani del popolo, nell’ora però e nei modi che fossero di comune concerto fissati. Solamente egli poneva per condizione che i popolani si presentassero sotto il Castello in numero sufficiente a scusare e giustificare la sua dedizione. I duecento, il cui patriottismo era stato cosi accaparrato ad una piastra per giorno, furono gli eroi destinati e prescelti alla esecuzione dell’ardito progetto. Dovevano eglino impértanto ad un dato ordine concentrarsi nei punti a ciò stabiliti ed avvicinarsi quietamente alla fortezza: ed avventandosi sulle sentinelle isolate e sul corpo di guardia insignorirsi dell’entrata e costringere alla resa chi non altro aspettava che la loro comparsa per cedere.

XXIII.— La notte susseguente alla partenza di Francesco II pel campo di Salerno (ov’egli portavasi a frenare i progressi dell’insurrezione ed il corso delibarmi italiane) venne scelta a inaugurare un’impresa sì poco arrischiata e che ciò nondimeno speravasi cotanto gloriosa. Le risoluzioni del comitato furono durante il giorno comunicate ai valorosi duecento: venne stabilito il luogo e l’ora della riunione loro. Le armi di cui dovevano trovarsi muniti, i segnali a cui avrebbero obbedito e la via destinata a percorrere. Tutto si previde e calcolò con precisione matematica: s’avvisò agli ostacoli che inopinatamente potevano sorgere ed ai mezzi più adatti a prevenirli od a vincerli: nulla mancava oggimai alla piena riuscita che l’audacia di pochi mercenarii satelliti, e questa per l’appunto fece difetto. I comitati disponevano di duecento uomini che s’erano obbligati a servirli per amore del soldo e sulla cui fedeltà ed intrepidezza contavano al di là del bisogno: ma non eglino sapevano infondere nelle anime dei loro seguaci quell’ardore entusiasta e marziale che a Calatafimi e a Palermo avea reso invincibili i Mille. L’irresistibile audacia che compie miratoli non è virtù che i moderati valgano ad ispirare o a sentire.

XXIV.— I comitati affaccendaronsi per tutto quel giorno a stabilire il piano dell’assalto e ad apparecchiare gli animi e i mezzi per la buona riuscita dei loro disegni. Mezzi e comandi, esortazioni e lusinghe si diramavano e prodigavansi da tutte le parti, mentre la feroce polizia borboniana o non vedea perché cieca, o fare lasciava perché connivente.

XXV.— Se non che inutilmente sprecavasi la fatica ed il tempo: un solo accidente (accidente d’altronde comunissimo in simili casi, ma che la bonaria inesperienza dei La-Fariniani non aveva nemmen sospettato) bastava a rovesciare sì belle e sì vaghe speranze. La notte i duecento si fecero lungamente aspettare e mai non comparvero: sette soltanto aveano risposto all’appello dei loro padroni: ed è presumibile che quei sette eziandio si presentassero sapendo che i loro compagni non sarebbero intervenuti e che quindi non avrebbe avuto luogo conflitto veruno. Gli altri si accontentarono dello stipendio toccato per circa due mesi né trovarono ragionevole il risicare la vita per obbedire ai comandi od appagare (‘ambizione di pochi fanatici. Per tal guisa i La-Fariniani rimasero, come si suol dire, colle mani piene di vento: avevano eglino creduto potere impunemente scimmiottare l’audacia del generale Garibaldi e rinnovare sul Sebeto i prodigi operati a Palermo. Ma il disinganno seguiva da vicino si belle speranze: e tosto dovettero eglino persuadersi che non sempre senza scorno si assumono imprese alla cui esecuzione le forze non bastano. Anzi il risultalo de’ loro sforzi e maneggi riuscì del tutto contrario ai voti formati: e mentre ostinatamente travagliavano ad allontanare Garibaldi da Napoli non altro facevano che appianare la strada ed accelerare l’arrivo de’ suoi volontari (216).

XXVI.— Verso gli ultimi giorni d’agosto Francesco II lasciava la sua residenza e prendea la campagna ad oggetto di opporsi in persona ai progressi del Duce italiano. Per vero egli allor si trovava nelle dura condizione di non poter confidare in alcuno degli antichi ministri o satelliti, nemmeno negli intimi suoi, in coloro che nei tempi di prosperità erano stati maggiormente colmati d’onorificenze, di gradi e ricchezze. I suoi generali o defezionavano o tradivano o chiedevano la loro dimissione: gli altri, cui un resto di pudore o di fedi tenea tuttavolta attaccati alla regia bandiera, mostravano non avere de]Parte della guerra imparato che volgere il tergo e fuggire. Poiché le cose dello Stato volgevano a male si notavano le solite defezioni che ingombrano gli annali di tutte le dinastie soccombenti. Ciascuno pensava a sé stesso e nel cataclisma che minacciava inghiottire ogni cosa unicamente mirava a salvare la propria persona e le proprie ricchezze. Coloro che avevano avuto maggior parte alle proscrizioni arbitrarie onde fu ricoperto d’obbrobrio il governo, più d’ogni altro studiavano a farsi perdonare, ostentando il più avanzato liberalismo, il sangue che avevano fatto versare. Le spie, i sanfedisti. i poliziotti, divenuti ad un tratto italiani, erano tra i primi e i più pronti a coprire le colpe passate inchiodandosi al petto od all’occhiello dell’abito le più appariscenti ed enormi coccarde. Era il Re la sola persona del Regno la cui lealtà non fosse dubbia e sulla quale si potesse contare che non avrebbe disertato o tradito la causa del Re.

XXVII.— Prima però di abbandonare per sempre la sua capitale Francesco II si credette obbligato a discendere all’ultima umiliazione, quella di inviare un messaggio al fortunato Generale che avevagli tolto metà de suoi Stati ed agognava spogliarlo del resto. Le trattative intavolate col governo di Torino non avevano ottenuto alcun risultato mercé la subdola e misteriosa politica del conte di Cavour: e Francesco stimò di maggior convenienza il rivolgersi direttamente ad un nemico più aperto, ma che egli aveva ragione di credere più generoso, più franco e leale, e da cui poteva bensì esser vinto ma non mai ingannato. Se non che l’ambasciata non poteva produrre l’effetto bramato: poiché Garibaldi non domandava patteggiar coi Borboni ma solo costituire l’unità del paese.

XXVIII.— Era una lettera autografa che il Re dirigeva al vincitore di Landi e di Bosco: essa portava la data del 25 agosto e veniva consegnata a Garibaldi mentr’egli da Soveria si accingeva a passare a Cosenza. Chiedea Francesco la pace, e le condizioni che per ciò proponeva erano onorevoli e belle, ma tuttavia non bastavano ad appagare i desiderii del partilo italiano, né rispondevano alle grandiose speranze che il paese aveva fondato sulla fortuna e sul valore di Garibaldi e de’ suoi. Il discendente di Ferdinando I e di Carolina d’Austria domandava la pace al figlio del popolo sottomettendosi ai patti seguenti: avrebbe egli primamente riconosciuta l’indipendenza della Sicilia e ceduto i suoi diritti ai dominii situati al di là dello Stretto: obbligherebbesi in secondo luogo a sborsare in contanti all’armata italiana tre milioni di ducati (circa dodici milioni di franchi) ed accorderebbe al Dittatore la facoltà di levar volontari in tutte le provincie del Regno. Coopererebbe il Re finalmente colla flotta e con cinquanta mila soldati di truppe terrestri alla prossima guerra coll’Austria ed al finale riscatto della terra italiana. Ma tutte le condizioni vennero ignominiosamente respinte e continuarono le ostilità il loro corso (217).

XXIX.— Occupate frattanto le vantaggiose posizioni di Catanzaro e Nicastro, e con saggi decreti ordinata l’insurrezione della Calabria Ulteriore, Garibaldi anzi che marciare volava sulla via di Rogliano a Cosenza. L’instancabile attività del Dittatore non apparve mai manifesta si come in que’ giorni: egli pareva moltiplicarsi, tanto celeramente viaggiava e quasi simultaneamente mostravasi in luoghi affatto diversi e discosti. Disprezzando fino alla temerità gli sforzi che il nemico potevagli opporre fra le gole di quelle montagne ed intieramente fidando nel suo e nell’astro propizio d’Italia, lasciava il grosso dell’esercito a Tiriolo, a Nicastro e a Soveria, e quasi solo avventuravasi nell’interno del paese improvvisamente assalendo la Basilicata e il Principato Ulteriore. I Regii per contro, sgominati e confusi ritiravansi davanti al fortunato Generale di cui avevano assaggiato il valore in tante battaglie e presi da indescrivibile terrore gettavano le armi e volgevano il passo sbandati alle loro famiglie. L’esercito d’occupazione nella Basilicata e nelle Calabrie aveva ammontato a circa quaranta mila uomini di tutte le armi sotto il comando dei generali Ghio, Cardarelli, Melendez e Briganti: esso fu per intiero annientato dallepoche fucilate di Reggio, dalle operazioni strategiche d’Alta Fiumara e Soveria e dalla rapida marcia del condottiero italiano.

XXX.— Nella storia non riscontrasi esempio d’una campagna inaugurata con si favorevoli auspicii e come questa eseguita a passa di corsa o di carica. Ventidue tappe comuni separano Reggio da Napoli: e i volontari le percorsero in soli sedici giorni, tre dei quali furono dati al riposo nelle stazioni di MarceUinara e Cosenza. Garibaldi avanzavasi con tanta celerità che nessuno e nemmeno i suoi generali sapevano dove con precisione cercarlo. Egli passava pel turbine delle insurrezioni, acclamato e favorito dai popoli e protetto dal proprio suo nome: davanti,i suoi passi sparivan gli ostacoli e i nemici si disfacevano al suo avvicinarsi. La fama delle sue gesta riempiva le intiere provincie e gli era sufficiente salvaguardia contro le insidie o gli scoperti conati della vinta fazione borbonica. La fervida fantasia meridionale, ispirata ad un cielo di fuoco, attribuiva alla sua persona poteri eccedenti ogni limite umano: la sua comparsa quanto le prodigiose vittorie da lui riportale, gli uni riempivano di superstizioso terrore e di amore entusiasta e rispetto gli altri. Nessuno avrebbe osato attentare alla vita di lui, difesa, come là supponevasi, da un’egida fatale e divina che il rendea invulnerabile. Più ancora la mente del volgo, ristretta alle idee di religione o fanatismo, associava il nome di Garibaldi alla interminabile gerarchia dei santi, profeti ed arcangeli, cui l’abitudine piuttosto che l’intima convinzione del cuore paga sì largo tributo d’incensi e di lodi; quasi ciò che si eleva oltre il comune degli uomini debba partecipare alcun che dell’essenza increata e divina. Toccare Garibaldi, fra le montagne calabresi, sarebbe impertanto sembrato, più che delitto, un sacrilegio inespiabile.

XXI.— Ed il Dittatore pareva sentire il vantaggio della sua posizione e con nobile orgoglio sapea approfittarne Ciò spiega e giustifica l’inconcepibile audacia con la quale inoltravasi in paese nemico senza punto badare alle insidie od ai colpi improvvisi cui la disperazione poteva suggerire ai fuggenti Borbonici. Garibaldi era e sentiva essere la più nobile creazione del genio italiano, la personificazione più completa e più pura dei sentimenti e delle idee del popolo nostro. A lui solo appartiene la gloria delle sue strepitose vittorie: ma l’aureola che circonda il suo nome e l’irresistibile fascino che esercita sulla gioventù nazionale e straniera appartengono a tutta l’Italia.

XXXII.— Medici colla sua divisione stava il 24 accampato nelle vicinanze di Villa S. Giovanni non lunge dal teatro ove accadde la incruenta disfatta dell’infelice Briganti. Aspettavano colà i volontari che il Generale indicasse per quale destinazione dovessero eglino partire, giacché vociferavasi di importanti mosse strategiche che volevansi eseguite dall’armata italiana. Gli ordini non si fecero diffatti aspettar lungamente: e Garibaldi, che già contava al più presto assalire il nemico a Monte Leone o a Tiriolo. ingiunse a tutte le squadre di portarsi a marcia forzata a Mileto. Medici in conseguenza la notte seguente imbarcatasi co’ suoi a bordo dell’HckGrv e dopo sette ore di viaggio prese terra a Nicotera, città situata sul golfo di Gioia e non lunga dal grande stradale di Pioppo e Mileto. La sedicesima divisione cosi precorreva l’intiera spedizione, ed era la prima a marciare su Monte Leone.

XXXIII.— Ignari del paese e delle posizioni dei Regii, i volontari bivaccarono colle armi sul braccio nel centro d’una piccola valle, dopo essersi premuniti da ogni pericolo di assalti notturni o sorprese. Alle ore quattro del mattino seguente ripresero il viaggio alla volta dj Mileto dove posero la sera medesima il campo, e dove furono tosto raggiunti dalle brigate Eberhard e Sacchi e dallo stesso general Garibaldi.

XXXIV.— Il 28 sull’alba partirono alla volta di Monte Leone, l’antica Ippona, che aveva il nemico di già abbandonata. Quivi La decimasettima divisione Bixio, ch’ era lasciata di retroguardia, operò la sua congiunzione colla quasi totalità delle truppe che il Generale intendeva condurre all’assalto di Maida o Tiriolo.

XXXV.— Per quanto i volontari accelerassero la marcia non riuscivano a raggiungere un nemico atterrito che dileguavasi loro dinanzi e che eglino avevano indarno sperato trovare a Monte Leone e fra le gole de’ prossimi colli. Pieni di nobile slancio ed ardore non eglino sapevano farsi ragione dello strano sgomento dei loro avversari. In quattro giorni di viaggio traverso un paese che presentava la maggiore possibilità di resistenza e difesa, non videro la faccia d’un solo soldato borbonico, ove si eccettuino però i disertori e i fuggiaschi che si sbandavano da tutte le parti. Anelanti alla pugna ed al trionfo ad ogni istante attendevansi di venire alle mani: ma non eglino doveano trovare i Borboniani in atto di battersi che sulle rive del Volturno e sotto le mura della formidabile fortezza di Capua.

XXXVI.— Le innumerevoli bande che battevano e scorazzavano all’intorno il paese da sé sole bastavano a sgominare ed espellere le ultime reliquie dell’esercito regio. Codeste bande armate di tutto punto e condotte da capi nazionali di provetta abilità e pratici dei luoghi furono d’un’immensa utilità durante la guerra come si vide nella capitolazione dei generali Ghio e Cardarelli. Elleno precorrevano l’armata garibaldina e si appostavano di dietro, davanti ed alle spalle dei Regii, molestandoli senza posa, intercettando le loro comunicazioni e minacciando affamarli nel centro stesso del paese più ricco e più ubertoso del mondo. Nella loro condotta e nella loro importanza ricordano le celebri guerrillas spagnuole ch’ebberosì gran parte, e si portarono con tanto onore nella guerra d’indipendenza dal 1808 al 1814.

XXVII— Il generale Ghio, che a’ quei giorni ancora teneva Tiriolo e Nicastro, spingeva i suoi avamposti alla distanza di venti miglia a levante sino alla linea del fiume Carnato e del piccolo villaggio di Bevilacqua situato nel centro del Golfo di Sant’Eufemia. In quest’ultima posizione successe il 28 uno scontro fra gl’insorti calabresi ed i Regii: l’esito, come al solito, riuscì favorevole alla causa italiana: le truppe borboniche dopo mezz’ora di combattimento votarono il tergo e si dispersero per le attigue montagne, lasciando le armi e le munizioni e forse una ventina di morti e feriti in potere dei nostri. Questo fatto, insignificante in se stesso, apriva tuttavia e sgombrava all’armata italiana la strada di Cortale, di Maida e Tiriolo.

XXXVIII.— I volontari lasciavano Monte Leone alle ore quattro e mezzo pomeridiane del giorno 28 e giunsero a Pizzo. Elevasi Pizzo sulle ultime ondulazioni degli Appennini alla riva del Golfo di Sant’Eufemia in situazione amenissima: ma come gli abitanti per fama dicevansi attaccati alla causa borbonica i volontari pernottarono sulla publica strada, forse ad oggetto di evitar qualche insidia. E non a torto sospettavasi che i cittadini di Pizzo aderissero al governo di Francesco II: la cattura accidentale di Gioacchino Murat avvenuta nel 13 ottobre 1815 aveva attirato sulla città per più lustri le grazie e i lavori reali: molto avevano eglino a perdere e nulla a guadagnare cangiando padrone e governo.

XXXIX.— Alle due e mezzo mattutine del giorno 29, ripostisi in marcia, i volontari raggiunsero a Bevilacqua la divisione di Stefano Turr. Colà riposarono fino alle sei della sera, e si rimisero quindi in viaggio alla volta di Tiriolo, ove i Regii si dicevano accampati in posizione eccellente frammezzo alle gole dei monti. Camminarono eglino tutta la notte ed arrivarono il seguente mattino alle dieci, estenuati dalla fatica, dal caldo e dalla fame, e per ordine del Dittatore si schierarono di fronte a Tiriolo. Fu allora che successe il breve combattimento, in seguito al quale i Napoletani firmarono la famosa capitolazione di Soveria che apriva a Garibaldi la via di Cosenza e di Napoli fino a Salerno.

XL. —Invitato dai cittadini di Cosenza, cui la resa di Cardarelli avea liberi lasciati e padroni di sé, Garibaldi immediatamente partiva abbandonando il grosso dell’esercito nelle posizioni di Tiriolo e di Soveria. Rimasero le brigate Simonetta ed Eberhard, composta la prima dei reggimenti Cadolini e Vacchieri, incompleta la seconda e comandata dal suo generale. La decimasettima divisione occupava Catanzaro, capoluogo della seconda Calabria ulteriore, città situata a cavaliere dei monti che separano il Mediterraneo dalle acque del golfo di Squillace.

XLI.— Dal 30 d’agosto al 2 luglio i volontari restarono nelle loro stazioni in attesa di ordini che mai non giungevano. Unicamente occupato a guadagnar terreno, Garibaldi pareva dimenticarsi perfino de’ suoi valorosi. Dall’altro canto le truppe sentivano la necessità del riposo dopo i patimenti sostenuti nella lunga e faticosissima marcia da Reggio a Soveria. Nessun esercito che non fosse stato animato da eguale entusiasmo avrebbe potuto tollerare le privazioni e gli stenti che i volontari in que’ giorni con eroica costanza aveano sofferto.

XLII.— Martedì 4 settembre i volontari levarono il campo dirigendosi verso Rogliano, dove giunsero e bivaccarono la notte seguente. All’alba del 5 si riposero in marcia e pervennero il giorno stesso a Cosenza, bella e pittoresca città, capo luogo della Calabria ulteriore.

XLIII.— Quivi i volontari pagavano un debito di patria e fraterna affezione e memoria. Il 24 luglio 1844 Cosenza era stata il teatro d’infausta tragedia: Attilio ed Emilio Bandiera, Domenico Moro ed i loro compagni di gloria e sventura avevano quivi scontato col sangue la temerità giovanile e l’amore all’Italia. Un governo piùequo o meno feroce avrebbe rispettato la loro gioventù e le loro illusioni: ma la Corte borbonica, avida mai sempre di sangue, tutti ad un tratto li fece dannare all’ultima pena. Eglino subirono il loro destino con eroica rassegnazione e costanza: e furono l’un sopra l’altro fucilati dagl’ignobili sgherri di Ferdinando II.

XLIV.— Durante il regno costituzionale del 1848 i cittadini di Cosenza con nobil pensiero ne raccolsero le ossa e lor diedero sepoltura onorevole sovrapponendovi una lapide che ne commemorasse i fatti e la morte. Ma dopo quel breve intervallo di libero vivere ritornata onnipotente l’autocrazia dei Borboni, il monumento fu distrutto, la lapide infranta e le ossa dei martiri gettate in una sepoltura senza pietra o ricordo al di dietro d’un altare in una cappella della chiesa cattedrale di Cosenza. I Borboni sanno agire e governare da despoti: e si vendicano perfino sui morti degli oltraggi recati alla loro autorità.

XLV.— Finalmente dopo rovesciato il governo borbonico, la città di Cosenza pensò nuovamente a riparare le ingiurie onde furono oggetto si a lungo quelle infelici reliquie. Le ceneri vennero di nuovo raccolte e tratte dalla fossa oberano state deposte: ed un altro monumento si eresse alla loro memoria. Così per un singolare destino e per L’avvicendarsi delle cose e dei tempi il riposo di quei generosi doveva essere successivamente molestato dalla mano di amici e nemici.

XLVI.— Alle ore cinque pomeridiane del giorno medesimo abbandonarono i nostri Cosenza dirigendosi a Paola, donde per ordine avuto dovevano per mare e al più presto recarsi a Sapri e a Salerno. dove il Re, coll’esercito sapeasi accampato. Pervenivano i volontari alla destinazione loro dopo un faticoso viaggio che durò per tutta la notte, e quivi, riposatisi alquanto, s’apparecchiavano pel giorno seguente ad imbarcarsi e a salpare. Medici s’allontanava impértanto da Paola nel punto medesimo che Garibaldi, rovesciata definitivamente la dinastia dei Borboni, entrava trionfante nella stessa Capitale del Regno.

XLVII.— Il Dittatore, lasciata Soveria, e conducendo seco soltanto le divisioni Cosenz e Türr, le Guide, i Carabinieri e i Bersaglieri, marciava, come si disse, con incredibile celerità alla volta di Napoli. Egli arrestavasi a Cosenza poche ore, il tempo necessario per dare a quel governo provvisorio ed a’ suoi generali le istruzioni opportune per le future operazioni di amministrazione e di guerra. In quel punto inoltre divise la sua piccola armata, mandando il generale Turr colla sua divisione a Paola con ordine di raccogliervi i volontari provenienti dall’isola e di portarsi immediatamente co’ suoi nel rada di Policastro od a Sapri. Col rimanente delle forze, seguendo la angusta valle del Crati, ed oltrepassando a sinistra i villaggi di Rende e Monta Ito ed a destra l’antica e spaziosa foresta di Sila, slanciavasi sul grande stradale di Tarsia e Spezzano.

XLVIII.— Da Spezzano il Dittatore passava a Cammarata ed a Castrovillari, percorrendo la vasta e maremmosa pianura dove un tempo sorgeva la superba ed opulentissima Sibari e che ora i fiumi Crati e Cosche hanno ricoperto colla melma delle loro alluvioni. Dell’immensa e popolosa città, la fama della cui dissoluta mollezza sì a lungo riempì l’universo, oggimai non rimane più traccia: essa giace sepolta sotto un fortissimo strato di vegetazione tropicale, in un cielo insalubre: le maestose sue torri, i monumenti, i trofei, ed ì suoi trecento mila abitanti scomparvero: ed ora la più tremenda solitudine regna sul teatro di tanta opulenza; hanno fine in tal modo le pompe e le umane grandezze!

XLIX.— Da Castrovillari Garibaldi colla solita fretta moveva a Morano e a Rotonda e quindi a Castelluccio ed a Lauria. Quest’ultima città fu interamente distrutta nelle fazioni del 1808 dal generale Manhès che vi fece appiccare l’incendio e fucilare gran parte de’ suoi abitatori. Essa era il centro delle innumerevoli bande che in quel tempo lottavano contro i Francesi per l’indipendenza del loro paese nativo, e per così dire il quartier generale dell’opposizione a Gioacchino Murat e dei maneggi della proscritta fazione borbonica. Lauria, malgrado la murattiaoa vendetta, risorse ben tosto dalle sue rovine: e crebbe con aspirazioni ed idee liberali ed italiche.

L.— Alcuni giorni prima era a Lauria sopravenuto uno strano accidente. Tre ufficiali garibaldini sbarcati in quel turno a Sapri ed inoltrandosi a diporto nell’interno del paese giunsero nelle sue vicinanze ed entrarono temerariamente in città, tuttavia presidiala dai Regii. I tre volontari, penetrati sino in piazza, s”imbatterono in un corpo di tre mila nemici che vi bivaccavano. Senza smarrirsi per questo, e non mostrando nemmeno avvedersi del pericolo in cui erano incorsi, eglino sedettero tranquillamente al caffè e si posero a parlare cogli ufficiali napoletani che venivano a vederli. Dopo qualche parola cortese scambiata da una parte e dall’altra gli ufficiali di Francesco II dichiararono essere eglino pure italiani e non avrebbero mai combattuto contro i patriotti. Il nostro dovere, soggiungevano, quello sarebbe d’impossessarci della vostre persone, e forse ne potremmo sperare una generosa ricompensa dal nostro governo: ma siccome il nostro cuore batte, egualmente che il vostro, alle idee di libertà e di patria, facciamo piena adesione alla causa da voi propugnata e ve lo proviamo lasciandovi liberi. La notte seguente quel corpo munito di cavalleria ed artiglieria volontariamente si sciolse e disperse: tali erano i sentimenti dell’armata in cui Francesco II doveva riporre l’estrema speranza della sua dinastia!

LI.— Garibaldi rapidamente avanzava, ma l’insurrezione tuttavia precorrevate. Le Calabrie non solo, ma la l’erra d’Otranto e di Bari, la Basilicata e gli Abbruzzi erano simultaneamente sconvolti dal turbine rivoluzionario: a Bari, a Potenza ed a Chieti, siccome a Cosenza e ad Otranto i comitati, non più secreti, funzionavano da veri governi. Gli insorti ordinati in guerriglie pullulavano ovunque e si moltiplicavano in progressione infinita: e verso il finire d’agosto l’autorità del governo borbonico non estendevasi al di là della mura della sua capitale o dei limiti de’ suoi militari accampamenti. Noi abbiamo dai comitati o governi provvisorii di Chieti e Potenza proclami ed indirizzi che portano la data del 28, del 27 e fino del 25 d’agosto. Chiunque osava innalzare una bandiera tricolore o porsi a capo d’una dimostrazione, d’un trambusto o d’un moto, era certo di trovare concorso, adesione, obbedienza: era il Re la persona in tutto il Regno ed in que’ frangenti meno atta ad esercitare i doveri e i diritti del potere sovrano.

LII.— Da Lauria il Dittatore dirigevasi a Bosco, e di là a Lagonegro, amena città fabbricata sulla strada ed in mezzo ad altissimi monti. Le sue truppe, giornalmente ingrossavano coi numerosi disertori dell’armata borbonica e colte non meno numerose squadriglie d’insorti che mancando di capi nazionali accorrevano ad arruolarsi nei battaglioni volontari. Egli passava in appresso a Sala e alla Polla, ove pose il campo, trovandosi in prossimità delle posizioni tenute dai Regii comandati dallo stesso monarca.

LUI.— Contemporaneamente la decimaquinta divisione imbarcatasi, a norma delle avute istruzioni, nel piccolo porto di Paola, veleggiava con prospero vento alla volta di Sapri. La numerosa flotta napoletana che stazionava in quelle acque avrebbe agevolmente potuto impedire per mare il trasporto delle truppe italiane: ma sia che non amasse impegnarsi in conflitti o la movessero altre considerazioni si accontentava di seguirne e sorvegliarne in distanza i progetti e le mosse. Nell’uscire dal porto di Paola il generale Türr scorgendosi di fronte ancorate le navi nemiche, dispose i suoi legni quasi fosse deciso ad accettar la battaglia che i Regii parevano offrirgli. Egli fece allineare le sue barche, insufficienti a resistere, in forma di mezza luna ponendovi ai fianchi ed al centro i tre soli vapori di cui disponeva. L’audacia dei volontari nell’apparecchiarsi ad una lotta cotanto ineguale e sopra un elemento che non era il loro proprio, poteva essere unicamente giustificata dall’esito; e questo fu lor favorevole. Tosto i Napoletani levarono l’àncora, non già per avanzarsi e combattere, ma per ritrarsi e fuggire davanti un avversario, cui avevano da più mesi imparato a rispettare e a temere. Dopo quell’unico accidente i volontari poterono felicemente compire il viaggio cui il Generalissimo aveva loro indicato.

LIV.— Türr approdava a Sapri mentre Garibaldi correva sullo stradale di Lagonegro alla Polla. Secondo gli ordini avuti egli doveva raccogliere le diverse frazioni del corpo spedizionario di Luigi Pianciani, e marciare in appresso con sollecitudine, seguendo la valle del Sale o la via di Capaccio, sopra Eboli, gettarsi quindi fra le gole del monte Corvino, e di là, disegnando una curva, inoltrarsi dal lato di San Cipriano e San Severino sulle alture della Cava, donde potesse al momento opportuno intercettare la strada di Nocera e di Napoli. Con tali manovre Garibaldi mirava a rinnovare a Salerno i fatti di Alta Fiumara e Soveria, ed a prendere prigioniero il Re con tutto l’esercito. Il che sarebbe senza fallo avvenuto qualora Francesco II si fosse ostinalo a tenere e difendere la sua posizione.

LV.— La decimaquinta divisione, ingrossata dalle truppe disperse di già appartenenti al corpo di Luigi Pianciani state direttamente da Palermo trasportate a Paola, a Scalea, a Policastro od a Sapri, stilava colla massima secretezza e celerità sulla destra dell’esercito regio. A queste forze, già per sé considerevoli, si unirono tosto le bande insurrezionali del paese ed i numerosi distaccamenti dei Calabresi che avevano preceduto la marcia dell’armata italiana. Con tutti questi corpi riuniti, il generale Türr, riuscendo a girare, come gli era stato ordinato l’estrema sinistra dei Regii, avrebbe potuto seriamente compromettere la loro posizione.

LVI.— Dal sin qui detto manifestamente si scorge qual fosse il piano strategico dal Dittatore traccialo. Come ad Alta Fiumara e a Soveria egli invaginava sorprendere l’armata e chiuderla da tutte le parti fra gl’insorti, il corpo condotto da Türr e le forze che egli stesso guidava all’assalto. Se Francesco II non si fosse per tempo ritirato, sarebbesi tosto veduto rinchiuso nel suo campo con Garibaldi di fronte, con Türr alle spalle, colla rivoluzione a sinistra e col mare alla destra. In tale frangente egli è chiaro che non altra via di salvezza gli sarebbe rimasta se non quella di cedere, capitolare ed arrendersi.

LVII.— Ma sia che Francesco prevedesse le mire nemiche e che quindi sentisse la necessità d’una pronta ritirata, sia ch’egli non credesse conveniente accettar la battaglia in condizioni cosi svantaggiose, colla rivoluzione ai fianchi ed a tergo la capitale romoreggiante e mal fida, o non stimasse prudenza contare sul valore de’ suoi, i Borboniani inopinatamente levarono il campo e si diressero sulla via di Napoli. Infatti, anche non volendo calcolare sull’esito delle mosse di Türr, che pure non poteva esser dubbio, l’esercito regio non avrebbe saputo resistere all’impeto di Garibaldi e de’ suoi. I soldati borbonici a chiari segni mostravano quanto di malavoglia s’attendessero ad un conflitto, com’eglino tremassero al nome solo del fortunato avversario e come fossero già vinti e soggiogati prima ancora di battersi. Dall’altro canto l’audacia, le gesta e le marcie di Garibaldi apparivano cosi prodigiose e si strane che quelle anime ignare e fanatiche amavano piuttosto attribuirle ad una sopranaturale potenza che alla sagacia ed al valore dell’uomo. Le «condite e le perdite sostenute durante la campagna dai Regii furono cosi decisive e si rapide che toglievano loro, non che la speranza, la possibilità di respingere l’invitto invasore.

LVIII.— Ostinarsi impertanto a tenere Salerno stato sarebbe pel Re quanto esporre a certa disfatta l’esercito. Né in tal caso Francesco potea lusingarsi di raggiungere le fortezze di Capua e Gaeta, da gran tempo estremo rifugio delle Case reali di Napoli. Era facile prevedere le conseguenze di un totale rovescio: la rivoluzione della metropoli, fino allor contenuta, avrebbe scoppiato con piena ed irresistibile furia ed avviluppato nei suoi vortici l’armata ed il Re. Egli sarebbesi trovato battuto e rinchiuso fra le montagne ed il mare, con Napoli insorta alle spalle e coi Garibaldini vincitori ai fianchi, di fronte e da tergo. I destini di Casa Borbone sarebbero inevitabilmente stati decisi a Salerno come il furono dopo un mese sulla linea del fiume Volturno.

LIX.— Ai primi di settembre e dopo brevissima assenza Francesco rientrava scorate ed abbattuto nella sua capitale, non già per tenerla e difenderla, ma per fuggire e ricovrarsi fra le mura di Capua. Eppure il suo esercito, malgrado le perdite fatte, ammontava in quei giorni alla cifra di quaranta mila soldati, quindici mila dei quali all’incirca formavano il presidio di Napoli e delle sue vicinanze (218). Era il quadruplo delle forze garibaldiane: tuttavia non valevano a resistere ad un nemico cotanto inferiore di numero. E quando si aggiungano le truppe lasciate di presidio a Capita, a Gaeta, nella l’erra di Lavoro e negli Abbruzzi e la flotta, si può con qualche certezza calcolare l’armata borbonica a non meno di settanta mila uomini di tutte le armi di terra e di mare. Essa inoltre aveva perduto circa settanta mila de9 suoi ra le diserzioni e le sconfitte sostenute in Sicilia e in Calabria.

LX.— Durante l’assenza del Re Napoli aveva presentato l’aspetto dell’anarchia e del disordine. Le piazze e le vie continuamente vedeansi gremite di popolazione anelante a raccoglier notizie del pari e a diffonderle. Le botteghe in gran parte eran chiuse, stagnati gli affari e le officine deserte: l’interesse, la legge e i magistrati tacevano. I comitati La-Fariniani si trovavano essi pure trascinati dall’irresistibile torrente. Avevano eglino concepito il pensiero di padroneggiare la rivoluzione: ma le loro parole e i loro sferzi, bastevoli a provocare, erano in definitiva impotenti a reprimere, i moti del popolo. L’ebbrezza, l’entusiasmo appariva cosi universale e spontaneo che inutilmente oggimai si avrebbe tentato arrestare il suo rapido corso.

LXL— In que? giorni un ultimo slancio di simpatia per la causa reale e d’ardore guerriero si manifestò fra le truppe borboniche. Avvennero diverse risse e contese Ira cittadini e soldati con perdite gravi di morii e feriti da entrambe le parti. I cittadini si difendeano coi sassi o coi bastoni sole armi che la gelosia del governo loro non avesse potuto vietare: e la città in tal guisa riempivasi di stragi, di lutti e tumulti. I Borboniani. abituati a volger le spalle sul campo di guerra prodigavano la loro virtù sugli inermi e sui deboli. Il governo cadente periva siccome le iene, tuffando le zanne nel sangue.

LXII.— Lo stesso barone Brenier. rappresentante del governo francese presso la Curie di Napoli, accorso un giorno fra gli altri a sedare i tumulti, venne dai Regii stramazzato con grave ferita nel capo. A stento il barone riusciva a salvarsi: ed il gabinetto di Francia in appresso ne mosse le più alte lagnanze chiedendo perentoriamente un compenso per l’insulto scagliato sul suo ¿ambasciatore: non sempre nell’odierna Civiltà si rifugge dal ricorrere ai codici de’ secoli barbari, i quali stabilivano che le ingiurie si potessero compensare con una somma che appagasse la vanità dell’offeso o fosse fissata da’ giudici. Se nonché il governo borbonico avea troppo da fare per. Occuparsi di tali reclami (219)).

LXIII.— Adottando le misure già prese dalle altre potenze d’Europa, aveva il governo italiano spedito nelle acque di Napoli una parte della flotta nazionale con alcune compagnie di Bersaglieri. Sotto colore di proteggere i sudditi del Regno d’Italia nei trambusti civili che già prevedeansi vicini in quella metropoli, apparecchiavasi un corpo di osservazione il quale in certe circostanze poteva servir di presidio dei forti e di aiuto alla consorteria moderata. Qualora la popolazione napoletana, respinto il Borbone, avesse o votato, o semplicemente acclamato l’annessione, i soldati italiani si trovavano pronti, a ricevere la consegna della città in nome del Re e della patria e salvarla dal pericolo, di più tremende conflagrazioni sociali.

LXIV.— Un giorno, verse il finire d’agosto, alcuni bersaglieri discendevano a terra, recandosi a diporto a visitar la città: e la moltitudine coglieva all’istante la propizia occasione per mostrare ai fratelli del nord la sua simpatia e quali fossero i sentimenti che nutrirà riguardo all’Italia. I bersaglieri furono importante l’oggetto di universali e spontanee ovazioni: e gli evviva ai vincitori di San Martino si alternavano colle grida di abbasso gli stranieri ed i despoti. Tanto bastò ad irritar la ferocia dei Regii ed a provocare un conflitto nel centro stesso di Napoli. I Cacciatori reali, fatti audaci dal numero e dalla vicinanza dei loro compagni, ed appostatisi dietro i crocivii, cominciarono ad insultare a parole e finirono coll’assalire i bersaglieri, in prudente distanza, colle lor carabine. Una volta la mischia impegnata altri Regii accorrevano, mentre le guardie nazionali ed il popolo, presa la parte dei nostri, s’adoperavano a ripulsare la vile aggressione. Fu il contegno de’ nostri soldati lodevole, fermo dignitoso: e nel difendersi mostrarono la moderazione che è frutte di quella disciplina e coraggio che ognor li distinguono.

LXV.— Il marchese di Villamarina, ambasciatore italiano, accorse egli pure nel luogo, ma tardi ed in tempo che tutto era già terminato. Nella lotta ineguale i bersaglieri, in numero soltanto di quattro (il valore dei Regii cosi bene spendevasi) avevano toccato più o meno di gravi ferite: eglino furono in conseguenza scortati o portati a bordo dei proprii navigli. Villamarina recavasi allora al governo a protestare contro tali atti di nefanda barbarie ed a chiedere un indennizzo pei bersaglieri feriti ma le sue proteste e pretese non ebbero miglior risultato di quello che ottenne la nota del gabinetto francese intorno al ferimento del barone Brenier.

LXVI.— Il 3 di settembre si sparse la voce che il Re, già disfatto a Salerno, marciasse in piena rotta alla volta di Napoli inseguito alle spalle da Garibaldi e da’ suoi volontari. Stava la moltitudine nella più viva apprensione poiché assicuravasi che i Regii, trovandosi obbligati ad abbandonar la città, l’avrebbero data al saccheggio e alle fiamme. La strana notizia, comunque imaginaria ed assurda essa fosse, trovava facilmente credenza nella concitazione degli spiriti, e nel paese produceva un fermento indicibile. Vociferavasi di mine apparecchiate per far saltare il Castello Sant’Elmo, la magnifica strada di Toledo e lo stesso Palazzo di Corte. Né mancava chi, le ombre vestendo di corpo e scambiando per bui reali i fantasmi della propria allucinazione, asseriva avere cogli occhi propri veduto gli apparecchi per incendiare e distruggere l’intiera città. L’orgasmo universale aumentava l’universale spavento, e lo spavento accresceva le ire bollenti del volgo.

LXVII.— L’esasperazione e il terror dei soldati egualmente erano al colmo. Accampate sulle piazze e le viedell’immensa metropoli e circondate da un popolo ostile e talvolta aperto nemico, le truppe continuamente vedevansi esposte ai più gravi disastri. Da un istante all’altro le barricate potevano sorgere ed il pepalo correre; all’armi: né in tal caso sarebbe stato, dubbio il conflitto fra dodici o quindicimila soldati affranti, avviliti, indisciplinati e la innumerevole folla animata dall’entusiasmo e dalle più nobili aspirazioni di libertà e patriottismo. Rammentavano i Regii tuttavia con invincibil terrore quanto sangue avea loro costato l’infausta giornata del 15 maggio.

LXVIH.— La fazione retriva, la quale, sebbene già vinta e dispersa, non aveva per anco deposto il pensiero di risorgere all’antica potenza, s’adoperava con zelo e con arte infernale ad istillare net cuor dei soldati la sete di saccheggio e di sangue ed a provocare un conflitto fra popolo e truppa. Gli uomini del passato per tal modo nutrivan fiducia di ritornare, nei cataclisma universale, al governo da cui eran caduti. Fu per loro istigazione che 1 soldati invasero e devastarono l’ufficio dell’uono, piccolo periodico liberale che aveva osato assalire colle sue invettive la riputazione dei campioni dell’ordine. Fu somma ventura, né certo per loro, che Napoli non fosse in que’ giorni sconvolta e riempiva di lutti e massacri. Né s’avvedeano che impegnando una lotta disuguale col popolo avrebbero, non ch’altro, precipitato la rovina della causa reale.

LXIX.— L’ufficialità superiore della guardia nazionale, guadagnata essa puro dal partito della moderazione, riesci a scongiurar la tempesta ottenendo che il mistero allontanasse dalla Corte i generali Ischitella e Cutrofiano, cui a ragione od a torto ritenevansi 1 capi e i motori di que’ turpi maneggi. Il ministero, i moderati ed i La-Fariniani conginngevano in tal guisa i loro sforzi ad impedire il vicino e decisivo conflitto.

LXX.— Avrebbero i La-Fariniani voluto l’insurrezione, ma tale che non offendesse le suscettività diplomatiche, gl’interessi della loro camarilla e le rigorose prescrizioni dell’ordine. Eglino avrebbero desideralo una insurrezione che dovesse alle loro mani affidare il supremo potere ed allontanare Garibaldi dalle Marche e dall’Umbria: non già. una conflagrazione di piazza, il sovvertimento geaerale delle autorità e delle leggi. Rivoluzionari di nuova stampa, i La-Fariniani volevano una rivoluzione di gabinetto o di camera, non già la rivoluzione vera, popolare, infrenabile. A ragione si pud dubitare (almeno le dottrine che propugnano ci accordano questo diritto) elessi avrebbero so, slenuto il governo di Francesco II piuttosto che vedere la somma delle cose nelle mani del popolo.

LXXI.— Frattanto l’esercito regio, lasciando Salerno, ripiegavasi sulla via di Nocera, ed occupava le alture della Cava e le gole di Monteforte e di Sarno, dai dintorni d’Avellino alla rada di Castellamare e di Vico. Né già che fosse intenzione del Re l’accamparsi e il resistere: egli avea bene compreso la necessità di concentrar le sue forze sulla linea del Volturno e nelle piazzo di Capua e Gaeta. Garibaldi essendo ancor lungi, Francesco marciava a rilento per aver tempo a disporre le cose pel prossimo sgombro della sua capitale.

LXXII.— Oggimai prevedendo il risultato finale di tante e si strane vicende, il Re concepiva il progetto di serbare il possesso delle forze navali o perché non cadessero in poter de’ nemici o per servirsene in altra e meno, infausta occasione. Impertanto ingiungeva alla flotta di recarsi a Trieste e di rimanere colà sino a nuove istruzioni. Il colpo, oltre ogni credere, sarebbe riuscito fatale all’Italia, sia che la marina napoletana fosse passata in proprietà degli Habsburgo, o rimasta a disposizione del Re spodestato. Ma l’ammiragliato, il ministero, le troppe e le ciurme ricisamente rifiutarono di conformarsi a quell’ordine. Sopra tutto il ministero rilevò l’incostituzionalità di un atto che poteva considerarsi un tradimento verso il paese. Un memorandum fu steso e segnato da tutti i ministri: esso contenea le ragioni per cui credevasi dover disobbedire al cenno sovrano: nel fatto il governo mirava a salvare la propria responsabilità, ben sapendo che l’Italia fra pochi giorni gliene avrebbe potuto domandare strettissimo conto.

LXXIII— I Comitati di Napoli la mattina del 4 settembre, per via diplomatica, seppero che un vascello appartenente alla marina reale, ancorato nel porto, aveva la notte ricevuto al suo bordo una somma che supponevasi ammontare a trenta milioni di ducati, equivalenti a centoventi milioni di franchi all’incirca. I Comitati, come si suol dire, allargarono gli occhi all’inaspettata notizia e pensarono ai mezzi per insignorirsi d’una somma cotanto vistosa, in nome ed a beneficio, dei nuovi padroni. Ma il vascello che portava l’ambito tesoro stava nel porto scortato da due grandi vapori austriaci da guerra ed era inoltre esso stesso difeso dalla ciurma che sembrava fedele all’avuta consegna. I moderati si limarono per tutto quel giorno il cervello né trovarono la via di effettuare l’impresa. Era un andare e un venire continuo di messaggi e d’istruzioni che i comitati a vicenda si trasmettevano, e riceveano: erano proposte e contro proposte, adesioni, obbiezioni ed osservazioni incessanti, come per solito si fa da coloro che discutono sempre né mai trovano la via di concludere. Le trattative in tal guisa durarono a lungo con estremo stupore del popolo che non sapea la ragione di tenti raggiri.

LXXI.— Fra tante proposte irrazionali più o meno ed assurde, una sola meritava e poteva essere immediatamente applicata ed avrebbe senza dubbio raggiunto lo scopo. Vi fu chi dimentico della parte da lui stesso rappresentata nella turpe commedia, ed in quell’istante ispirato piuttosto alle idee di libertà e di rivoluziono che agli interessi e alle brame de’ suoi superiori, ardiva proporre che il fatto si spargesse, cosi come stava, fra la plebe di Napoli e a lei si lasciasse il pensiero e la cura di assaltare e sorprendere il naviglio ed i ducati. Orrore profanazione! I moderati, fedeli alle loro massime, preferivano cento volte che i milioni rimanessero in potere del Re piuttosto che passassero, per via insurrezionale, nelle mani del popolo.

LXXV.— Cosi trascorrea la giornata e la notte seguente in trattative infinite e con nessun risultato. Il 5 all’alba il vascello, o tali fossero gli ordini avuti o lo affrettasse il timore delle macchinazioni che ih secreto tramavansi, prese il largo e scortato dalla flotta dell’Austria si diresse a Gaeta. I danari in tal guisa restarono nelle mani di Francesco II e servirono poscia a prolungar la difesa di quella fortezza. Grazie alla deplorabile inerzia ed all’esagerata apprensione dei Comitati, l’Italia in appresso ebbe pur troppo a lamentare una maggiore effusione di sangue.

LXXVI.— La notte del 5, ritirandosi eziandio da Nocera, Francesco giungeva nella sua capitale, non già per risiedervi ma per apparecchiarsi a sgombrarla e partire alla volta di Capua. Il successivo mattino emanava un proclama (220), rimasto celebre ne’ torbidi annali del breve suo regno, nel quale, con ferme e dignitose parole annunziava suoi popoli la risoluzione già presa di allontanarsi con parte dell’armata da Napoli per non esporre agli estremi disastri la città, gli abitanti e le proprietà si private che pubbliche. Il Re dichiarava ritirarsi per salvare dalle rovine della guerra i templi, i monumenti, le collezioni d’arte tutto quello che forma il patrimonio della civiltà e grandezza napoletana e che, appartenendo alle generazioni future, è superiore alle passioni di un tempo. Sentimenti elevati e generosi che onorano la sua caduta e meritano l’approvazione ed il plauso di tutti gli onesti.

LXXVII.— Contemporaneamente una lunga e veemente protesta, da inviarsi agli ambasciatori napoletani residenti presso le Corti europee, venne redatta e sottoscritta dal Re e dal primo ministro. In essa Francesco formulava nettamente le tristi condizioni del Regno e le cause delle quali pretendeva esser vittima: ed a torto additava all’Europa il governo torinese siccome il motore principale od il complice della grande rivoluzione che sbalzato avealo dal trono. Se meno la passione lo avesse accecato sarebbesi il Re agevolmente avveduto che il conte Cavour, lungi dall’essere istigatore della rivoluzione, da lei suo malgrado veniva rimorchiato. Allegava quindi Francesco l’incolumità dei sovrani diritti, la fede dei trattati e il dovere di protestare contro l’abuso della forza brutale che lo avea debellato e contro gli atti, emanati o da emanarsi, del nuovo governo. Tuttavia dopo attenta disamina, dal contesto di quel documento chiaro rilevasi quanto debole fosse nel paese l’autorità dei Borboni e quanto facile cosa rovesciare il loro dominio. Infatti deve credersi quel governo ben pessimo che in cento ventisei anni non seppe crearsi un partito o conciliarsi l’amore o l’affezione di nessuna classe sociale.

LXXVIII.— E tristi e commoventi furono altresì le parole dirette dal Re fuggitive alla Guardia Nazionale di Napoli, «Poiché il vostro» esordi, con piglio di sdegnoso sarcasmo; «ma rimettendosi tosto», soggiunse, «poiché il nostro Don Peppe si avvicina io lascio la mia capitale affidando la sua sicurezza ed il mantenimento dell’ordine alla Guardia Nazionale ed alle Autorità costituite. Io vado frattanto là dove il dovere mi chiama, a combattere indifesa de’ miei più sacri diritti. Iddio solo sa il fine di tante sventure, ma qualunque sia il destino che l’avvenire mi serba, nato ed educato in questa terra, sono e sarò napoletano..

LXXIX.— In tal guisa disposte le cose e, per quanto il permetteva l’angustia del tempo, provveduto al mantenimento della publica sicurezza, Francesco II, scortato dalle truppa, lasciava la città sulla quale i suoi padri avevano esercitato il supremo dominio e ch’egli non doveva più mai rivedere. Ponevasi il Re in viaggio la sera stessa, del 6 settembre, soli diciotto giorno dallo sbarco di Garibaldi in Calabria e quindici dalla capitolazione di Reggio: sì rapida era stata la dissoluzione di un governo che l’arte o le perfidie di tre generazioni non avevano saputo stabilire ed ordinare a valida resistenza e difesa. Da quell’istante la, monarchia napoletana spariva dal numero degli Stati europei l’intiera superficie del paese, meno le piazze forti di Gaeta e di Capua, la cittadella di Messina e Civitella del Tronto, apparteneva alla patria italiana. Se in quel punto Francesco ed i due Ferdinando avessero potuto sollevare dal sepolcro lo sguardo sarebbero stati di certo costretti a maledire alla stolta politica che fu causa della rovina del lor successore.

LXXX.— Non si tosto fu sparsa la voce dell’avvenuta partenza del Re e dell’esercito, la moltitudine irruppe da tutte le parti e le passioni popolari minacciarono scatenarsi con nuova ed infrenabile furia. Migliaia e migliaia di fiaccole improvvisamente comparvero a rompere l’oscurità delle tenebre e ad illuminare le piazze e le vie della vasta metropoli: ed innumerevoli vessilli nazionali sventolarono dalle chiese, dalle torri e dalle case. I popolani raccolti in profondissime masse percorrevano le strade o s’attruppavano sulle piazze prorompendo in acclamazioni all’Italia ed in bestemmie ed imprecazioni alla caduta dinastia borbonica. L’entusiasmo universale aveva spento ogni privato dissidio e la libertà ispirava in tutti cuori I sentimenti medesimi. Cogli urli e coi fischi i Napolitani celebrarono il funerale d’un governo da essi cosi giustamente abborrito e che spariva per non mai più funestare quella eletta parte d’Italia.

LXXXI.— Né, malgrado le previsioni o il terrore dei ricchi, il buon popolo meditava alcun che di sinistro o d’atroce. Egli è certo che né le guardie nazionali né le truppe rimaste io custodia ne’ forti, avrebbero bastato a contenere un movimento insurrezionale od una conflagrazione quando tale fosse stato il pensiero delle masse. La moltitudine aveva tutt’altro pei capo che di provocare disordini: essa all’opposto accontentavasi ad esprimere, col modo che le è abituale, cogli urli cioè e cogli schiamazzi, la sua piena adesione al nuovo ordine di cose che inauguravasi sulle rovine del caduto sistema.

LXXXII.— Ciò nullameno i moderati, i liberali d’anticamera, i vecchi servitori dei Borboni ed i La-Fariniani medesimi non si teneano per nulla securi. Tutti costoro si vedeano trascinati dal vortice d’una insurrezione impreveduta e spaventevole: impotenti a condurre i movimenti popolari ed a frenare lo slancio dei cuori già liberi si sentivano perduti per poco che quello stato di cose potesse durare. Rivoluzionari dai guanti gialli tremavano al solo pensiero di un moto di piazza.

LXXXIII.— L’ultima squadra borbonica aveva appena abbandonata la città che il prefetto o ministro di polizia Liborio Romano si credette obbligato ad inviare una lettera al general Garibaldi in nome del governo invitandolo e sollecitandolo a portarsi al più presto in Napoli per assicurarvi l’ordine minacciato dall’effervescenza del popolare entusiasmo (221). I medesimi La-Fariniani, che sperano cotanto adoperati ad allontanare i volontari da Napoli, deposto in que’ frangenti ogn’altro pensiero, con ansietà ed impazienza attendevano che venissero a contenere l’insurrezione irrompente. I retrivi eziandio lo desiderano come l’unico mezzo che rimaneva a deviare l’attenzione della moltitudine, la quale temean si rivolgesse con ira e disdegno ai passati dolori. Per tale maniera, trascinati dal turbine delle cose, La-Fariniani, moderati e reazionarii divenivano ad un tratto partigiani dell’autorità dittatoriale. Era unico il punto in cui tutti costoro potevano trovarsi concordi: ed era l’abborrimento per tutto ciò che rassembrasse alla vera sovranità popolare o ad un governo di piazza. Sì poco quei signori conoscevano la libertà che pure avevano sempre sul labbro, e cotanto tremavano all’idea di vedersi, eziandio interinalmente, senza padrone. Avrebbero eglino preferito il conte Cavour: ma questi era lunge ed il tempo pressava; per cui dovettero rassegnarsi ad invocare l’autorità del Duce dei Mille.

LXXXIV.— Garibaldi conobbe la ritirata del Re da Salerno mentr’egli nel campo di Polla concentrava le sue forze ed apparecchiavasi all’ultima e decisiva battaglia contro la dinastia del Borboni. L’inopinato ritiro del Re e dell’esercito lo costrinse a cangiare i suoi piani ed a sollecitare la marcia sulla capitale, cui egli credeva che i Regii avrebbero ad ogni costo tenuta e difesa. Né il Dittatore né altri avrebbe mai imaginato che Francesco II dovesse senza lotta lasciar la sua reggia e la sede della sua autorità e potenza. In conseguenza Garibaldi, date le disposizioni opportune perché i suoi dovessero tosto raggiungerlo e concentrarsi a Salerno e Nocera i con soli venti o ventiquattr’uomini di scorta, partiva alla volta di Napoli, senza dubbio ad oggetto di esaminare le posizioni dei Regiie meglio informarsi dello stato in cui le cose versavano. Il Dittatore contava tracciare sul luogo il suo piano per le successive operazioni, per essere in tal guisa, al sopravvenire delle truppe, di già apparecchiato all’attacco di Napoli. Si celere fu il suo viaggio ch’egli giunse a Salerno il mattino del 6, mentre l’avanguardia dell’esercito volontario trovavasi tuttavia alla distanza di circa sessanta chilometri (222).

LXXXV.— Per tutto quel giorno egli stette osservando quale sviluppo o soluzione prendesser gli affari di Napoli. La notte, ad ora assai tarda, gli venne recata la lettera di Liborio Romano, già sopra accennata, e varii altri indirizzi di corpi morali e persone autorevoli che lo invitavano a recarsi immantinente in città. Da tutte questo vivissime istanze il Generale poteva temere che qualche cosa di serio e di strano veramente si agitasse nella vicina capitale: pareva che l’anarchia fesse pronta ad irrompere e ad avvolgere da un istante all’altro nella confusione e nel caos la vasta ed opulenta metropoli. Tuttavia Garibaldi non voleva aderire alle sollecitazioni che gli veniano dirette se prima ii Sindaco ed il Comandante della Guardia Nazionale di Napoli, de’ quali aspettava l’arrivo, non fossero giunti. Ciò non pertanto a calmare il terrore e lo sgomento da cui que’ signori pareano compresi pubblicò un proclama col quale esortava la moltitudine a conservare la tranquillità e l’ordine pubblico (223). Questo, spedito in forma di lettera, era diretto a Liborio Romano quale risposta alla sovracitata missiva.

LXXXVI. —La mattina medesima senza che nulla avvenisse che sembrasse giustificare gli esagerati terrori della fazione moderata, il ministro di polizia si rivolse egli pure con un proclama alla popolazione, pregandola a mantenere la quiete che nessuno pensava a tartare (224). Il tuono generale di questo documento traspare da tutte le linee: è quello d’un uomo che parla senza essere certo che le sue parole valgano ad ispirare rispetto, e che invoca l’altrui autorità e l’altrui nome per far eseguire la legge di cui è depositario e custode. A tali uomini Francesco II aveva affidato le cariche più alte del Regno!

LXXXVII.— L’agitazione popolare era grande e si grande che fu vero prodigio se non s’ebbero a deplorare gl’Inconvenienti che seno gli effetti inseparabili dei cataclismi politici. Ma il popolo napoletano unicamente pensava a Garibaldi: e pieno di questa idea generosa non altro voleva che aspettare e festeggiare l’arrivo del Duce dei Mille, del vincitore di Calatafimi, di Palermo, di Milazzo e di Reggio. Innumerevoli brigate sino dall’albeggiare si precipitavano a tal uopo fuori della città dalla parte d’oriente ove appunto s’innalza la stazione della ferrovia di Nocera. Napoli era tutta in movimento attendendo la sospirata comparsa del suo liberatore.

LXXXVIII.— Verso le dieci mattutine la Guardia Nazionale schieravasi in bell’ordine per le strade principali di Napoli, sui Larghi (cosi vengono nella bassa Italia chiamate le piazze) e davanti alla stazione della ferrovia. Un numero prodigioso di splendide ed eleganti vetture, senz’alcun invito municipale, inviate dalle case più ricche di Napoli, si allineavano pure lungo la riva del mare e sulla via di Portici. Il Generale giunse alla stazione circa, alle undici e mezzo, e la sua comparsa venne con lunghi e frenetici evviva annunciata all’intiera popolazione. Descrivere l’entusiasmo, l’ebbrezza di quegli istanti diverrebbe cosa impossibile, si generale e spontanea appariva la gioia sul volto di tutti. Garibaldi, accompagnato dal suo segretario particolare deputato Bertani, dal Sindaco e dal Comandante della Guardia Nazionale, e festeggiato dalle benedizioni d’un popolo risorto per opera sua a libera vita, faceva poco oltre il mezzogiorno la sua entrata solenne nella Capitale dei Re e dei Cesari. Egli percorse a lenti passi in vettura e sotto usa pioggia continuata di fiori ad in mezzo al giubilo universale la vasta strada del Piliero fino al palazzo della Foresteria, situato di fronte alla Reggia, ove pose la sua residenza.

fonte

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-PERINI-La-spedizione-dei-Mille-storia-documentata-2025.html#LIBRO_X

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.