Alta Terra di Lavoro

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LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (XI)

Posted by on Mag 23, 2025

LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO (XI)

LIBRO XI

Polizia La-Fariniana

I.— La politica, negli ultimi tempi, abbracciata e seguita in Italia meritò e si attrasse le più amare invettive e censure degli estremi partiti che si contendono invano il dominio della pubblica opinione in Europa. Ai legittimisti agli amanti d’un vecchio passato, essa parve rivoluzionaria ed anarchica mentre gli altri che s’arrogano il monopolio delle idee liberali e pretendono per sé soli al diritto di parlare in nome dell’avvenire, l’accusavano di eccessivo conservantismo, di dubbie o retrive tendenze. La politica del conte Cavour non era quale sia gli uni che gli altri amavano fingerla: o per parlare con maggior precisione partecipava in un certo modo egualmente entrambe.

Eminente diplomatico ed al tempo stesso in continuo contatto coi rivoluzionarli italiani il conte Cavour ideava unificare l’Italia adoperando a suo luogo la diplomazia e la rivoluzione. Anima dotata di vasta intelligenza ed in sommo grado eclettica, il conte Cavour seppe con fina sagacia giovarsi di tutti gli elementi discordi e convergerli all’unico scopo prefisso quello di facilitare la via all’adempimento dei nazionale programma. Che la sua politica si regolasse sulle norme dell’equità e del diritto non oseremmo asserirlo: d’altronde è già gran tempo che la morale e la diplomazia hanno fatto assoluto divorzio. Né del resto presumiamo indagare l’origine del disegno da lui architettato e con profondo accorgimento condotto quasi al suo termine, né filosoficamente scrutarne i difetti ed i meriti. Espositori dei fatti limitiamo l’opera nostra alla semplice narrazione degli avvenimenti quali essi accaddero; ché la scienza dei fatti ha un linguaggio contro cui nulla vale la logica o le declamazioni dei panegiristi più audaci o de’ più acerbi censori.

II.— La base dell’attuale politica italiana fu posta nelle animate discussioni diplomatiche che preludiarono alla conclusione del trattato di Parigi nel 1856. In quell’epoca memoranda il conte Camillo Cavour plenipotenziario Sardo accennava ai pericoli in cui versava la pubblica tranquillità d’Europa per la situazione anormale in cui giaceva l’Italia. «Il più feroce dispotismo (è tale, presso a poco il senso delle sue parole) pesa sulla penisola orientale e meridionale: i governi, lungi dal calmare l’agitazione coll’accordare ai loro popoli le riforme che il tempo ha reso oggimai indispensabili, sembrano disposti ad affrontar l’uragano ed a sfidarne la furia. Ma l’Italia è solcata, è minata da innumerevoli sette e conventicole che dal fondo del loro ritiro sognano e propugnano principi) sovversivi ed i più compromettenti per la sicurezza delle proprietà e dei troni. Quindi noi abbiamo governi ostinati a provocare una conflagrazione, popolazioni esasperate dal lungo soffrire e giù pronte ad insorgere, ed un numeroso partito che s’apparecchia e stringere nelle sue mani la somma delle cose ed a distruggere la società esistente. Se una rivoluzione venisse a scoppiare in Italia sarebbe gravissimo il rischio che le provincie si costituissero in repubblica e che i popoli nel bollore della vittoria rovesciassero l’edificio su cui riposa la tranquillità monarchica di tutta l’Europa.»

III.— «V’ha un solo mezzo (proseguiva l’illustre statista) ad evitare la tremenda e vicina a catastrofe. È necessario anzi urgente che le potenze intervengano in Italia e in un modo o a nell’altro persuadano ai governi della penisola di cangiare l’antico e troppo dannoso sistema a cui sembrano stranamente attaccati. Coll’accordare ai loro popoli una moderata libertà eglino possono sventare le trame dei tristi, soffocare la rivoluzione in sul nascere ed allontanare da sé e dall’Europa il pericolo che tutti egualmente minaccia d’inevitabile morte e rovina. L’assolutismo, l’arbitrario che domina ed infuria in Italia è un continuo fomite al disordine un atei tentato perenne alla civiltà e agli interessi del mondo. Le cose fra noi sono giunte ad un punto a che non si può oltrepassare: i palliativi a nulla più valgono: o la monarchia temperata da regolamenti costituzionali e liberali o la più rovinosa e completa anarchia: tale è il dilemma che gli avvenimenti hanno già formulato in Italia e che attende fra breve la sua soluzione. Per poco che le cose procedano l’Europa sarà tosto chiamata a scegliere nella penisola fra la monarchia e la repubblica.» —

IV.— Osservata dal lato diplomatico la quistione forse non poteva formularsi con maggiore verità od artificio. Nulla meglio valeva per certo a commuovere la diplomazia e ad interessarla in favore della causa italiana quanto lo spettro della repubblica abilmente evocato dal grande ministro sabaudo. Da gran tempo i gabinetti europei, mentre ostentano là più fredda indifferenza pei dolori dei popoli, mostrano la più viva tenerezza per la conservazione di un ordine di cose oggimai divenuto impossibile. Ma la questione, così posta, un lato presenta oltremodo vulnerabile e debole. Si domanda per le popolazioni un po’ di libertà ad un governo meno tristo, non già in nome dell’imperscrutabile e sacro diritto nazionale, bensì in vista di una mera opportunità, per evitare maggiori disastri. Il diritto viene, per cosi dire posto da parte e dimenticato; ed in sua vece s’invocano le necessità che possono cangiare colle circostanze e coi tempi. La teorica dell’opportunità è a doppio fendente e può servire del pari alle nazioni ed ai despoti: oggi è opportuno concedere riforme vengono quindi attuate: domani quell’opportunità può cessare od almeno non presentare quei sintomi che impongono un cangiamento: e in allora la libertà e le riforme si rimandano a tempi migliori.

V.— Come agevolmente si potea prevedere, i governi italiani, lungi dal porgere ascolto ai salutari consigli che venivano loro direttasi ostinarono a perseverare nella fatale politica già da essi con ¡stolta prudenza abbracciata. Se non che la rassegnazione dei popoli ha un limite oltre il quale non è che rivolta e rovina: più tardi il fermento cresceva a dismisura e già minacciava trascender in aperta insurrezione, quando a scongiurar l’uragano. sopravvenne la guerra lombarda.

VI.— Mentre gli alleali di vittoria in vittoria marciavano da Montebello e Palestre alle alture di Solferino e Valeggio, i principi dell’Italia centrale, abbandonando i loro dominii, si rifugiavano a Verona sotto l’anslriaco vessillo, e la rivoluzione, unica sovrana in allora possibile, invase ed occupò le lor Reggie. Né per ciò le popolazioni, lasciate in balia di sé stesse, trascorsero ad aiti precipitosi o violenti o minacciarono turbare od interrompere l’ordine delle idee stabilite. Non appena si videro libere che domandarono di congiungersi alle antiche provincie e formare una sola nazione.

VII.— Ma Napoleone, a cui la politica unitarianon era gran fatto simpatica, arrestò sull’altipiano che il Mincio separa dell’Adige il corso di tante vittorie e il progressivo sviluppo delle idee cavouriane. Forse nessun’altra considerazione lo indusse a sollecitare a Villafranca l’armistizio e la pace quanto il desiderio di frenare lo slancio del patriottismo unitario del popolo nostro. Ma invano egli stipulava a Villafranca e Zurigo il ritorno spontaneo dei Duchi e degli Arciduchi ai loro domini): le popolazioni sommamente irritate non ne voleano sapere, cosicché non altro mezzo rimanea a ricondurveli che l’intervento d’un’armata straniera: rimedio estremo ed al quale non si voleva ricorrere.

VIII.— A Firenze, a Bologna a Parma ed a Modena funzionavano I rispettivi governi provvisorii retti bensì da creature del conte Cavour, ma tuttavia indipendenti, con esercito, budget e leggi lor proprie. Era uno stato di transazione dal quale volevasi uscire ad ogni costo e al più presto. Napoleone tuttavolta resisteva a permettere l’annessione dell’Italia centrale alle antiche e nuove provincie del Regno Sabaudo: e l’abilità diplomatica del conte Cavour ebbe assai a penare per vincere l’opposizione del gabinetto francese. Né l’aiuto del partito italiano gli fece difetto.

IX.— Barcamenandosi fra la diplomazia e la rivoluzione il Ministero doveva avanzare e riuscire, ed avanzava diffatti e riusciva. Il secreto della sua politica sta in ciò ch’egli sapea combinare le cose per modo che i discordi elementi de’ quali servi vasi, lungi dall’urtarsi ed escludersi, concorressero al medesimo fine. Presentando a Parigi l’Italia siccome minacciata da un moto rivoluzionario e repubblicano era certo di ottenere un’adesione ai principii da lui professati che altrimenti per ninna ragione stata gli sarebbe accordata.

X.— La situazione anormale ed agitata in cui allora si trovava l’Emilia porgevagli il destro di parlare con verità e schiettezza. Le popolazioni animate da sentimenti unitari attendevano impazienti di votar l’annessione. Gli uomini più influenti e più avanzati colà traducevansi dove meglio pareva aperto il terreno alla lor propaganda. L’esercito composto di volontari, esuli per la massima parte od ascritti al partito {fazione, altamente chiedevano si proseguisse la guerra, s’invadessero le Marche, l’Umbria ed il Regno di Napoli e si compisse il programma italiano. Garibaldi stesso che comandava alle forze della Lega (poiché una specie d’alleanza offensiva e difensiva era stata fra que’ piccoli paesi conchiusa) non era l’uomo sul quale il ministero potesse maggiormente fidare per l’adempimento delle sue volontà.

XI.— Stimolato da tutte le parti ed animato dalle comuni speranze Garibaldi accingevasi a violare il confine delle provincie rimaste al Pontefice: ed a tale obbietto concentrava le sue forze alla Cattolica e dava le opportune disposizioni per la nuova campagna La guerra sarebbesi in al modo riaccesa nell’Italia centrale se il Ministero non accorreva prontamente ad impedirla. In quel tempo Cavour era (unge dagli affari ma la sua politica tuttavia dominava: era sempre il suo genio che presiedeva alla trattazione del problema Italiano.

XII.— Colto il destro rappresentavasi al governo francese, di già allarmato ed inquieto pei fatti che vedeva agitarsi in Italia, la inesorabile necessità di uscire al più presto da quello stato provvisorio e precario nel quale versava il ministero e il paese. Una più lunga continuazione della falsa politica a cui l’Imperatore abbandonavasi poteva suscitare immense complicazioni e irreparabili mali. L’anarchia più completa minacciava l’Italia del centro: e per poco che le cose procedessero oltre la proclamazione della república nell’Emilia e nella Toscana diventa inevitabile. La logica degli avvenimenti obbligava l’Imperatore a scegliere fra la croce di Casa Savoia ed il rosso berretto di Giuseppe Mazzini. Tale linguaggio non poteva mancar di produrre l’effetto bramato; e l’annessione venne da quell’epoca riconosciuta e ratificata.

XIII.— Caduto in quel turno Urbano Rattazzi sotto l’impopolarità procuratagli dall’informe e mal digesto ammasso di leggi e di codici con cui aveva inondato le antiche e le nuove provincie, Cavour riassumeva le redini del governo, ch’egli avea spontaneamente lasciato dopo l’infausto armistizio del Mincio. La sua ricomparsa agli affari rendeva più facili le soluzioni dei grandi problemi che il suo predecessore aveva lasciati incompiuti. Il gabinetto francese mostravasi con lui più arrendevole che non fosse col ministero caduto. Dall’altro canto Cavour riportava seco lui al governo la sua illimitata devozione alla Francia e la sua abilità diplomatica.

XIV.— La politica del conte Cavour era abbastanza chiaramente tracciata dalla sua situazione. Non egli poteva sperare un ingrandimento territoriale di qualche importanza senza il beneplacito della diplomazia od il concorso della rivoluzione. A quella era egli attaccato pel suo amore alle forme più o meno legali e pel proprio interesse: e si serviva di questa per effettuare i suoi più secreti disegni. I partiti nelle sue mani apparivano altrettanti ¡strumenti ch’egli sapeva adoperare a suo tempo e a suo luogo in via di più gravi ed urgenti bisogna.

XV.— In tal modo abilmente evocando lo spettro dell’anarchia e della repubblica costringeva la diplomazia a legittimare l’ambizione governativa ed a permettergli nuovi ingrandimenti. E lasciando operare la democrazia italiana ed il partito d’azione regolavasi in guisa da appropriarsi il risultato delle loro vittorie. In questo senso il partito repubblicano può con ragione vantarsi d’aver esso fatto l’Italia: poiché senza i suoi sforzi l’Emilia e la Toscana sarebbero forse rimaste o ritornate alle cadute dinastie, come senza il timor che ispirava l’annessione di tante provincie sarebbe restata un pio desiderio. Se in Italia non fosse stato un partito repubblicano il conte Cavour avrebbe dovuto crearlo a suo uso e beneficio.

XVI.— Non è già ch’egli amasse o favorisse il partilo d’azione o i repubblicani. Forse gli abboniva in secreto siccome i nemici di quell’ordine di cose a cui lo legavano le tradizioni della sua casa e l’istinto suo proprio. Ma egli non poteva contenerli senza gravemente compromettere nel paese la sua autorità e quindi lasciavali fare.

XVII.— Ed assai meno egli amava e favoriva quella febbre incessante di patria che ognor vaga di nuove avventure voleva ad ogni costo precipitare la soluzione del problema italiano. Avrebb’egli voluto costituire l’unità nazionale, ma senza scosse, senza gravi pericoli, approfittando delle Circostanze e del tempo. Pago pel momento dei vantaggi ottenuti non egli amava vedersi travolto in perigliose intraprese: e saviamente preferiva la tranquillità e la pace ai dubbi e fortunosi risultati di una nuova campagna. Diplomatico e rappresentante gl’interessi della monarchia e del partito dell’ordine doveva abborrire ed avversare i conati che compromettevano i frutti di tante fatiche e l’esistenza stessa della nazione. Per acquistare od annettere una provincia di più non sapeva risolversi ad arrischiare quanto avevasi di già ottenuto. Donde avviene che se le intemperanze della democrazia furono da un lato sommamente vantaggiose all’Italia esse non mancarono dall’altra di porre ne’ più gravi imbarazzi il governo e il paese.

XVIII.— Ritiratosi Garibaldi dall’Emilia, proclamata l’annessione dell’Italia centrale e l’esercito della Lega disciolto od incorporato nell’antica armata Sabauda, la democrazia pareva frenata, spenta la rivoluzione ed ogni causa di guerra rimossa. Se non che mentre i moderati applaudivano ai risultati dei proprii artificii e s’apprestavano a godere dei frutti delle loro vittorie, la notizia dell’insurrezione siciliana piombò come un fulmine a rinnovare gli all’armi ed a sconvolgere di nuovo il paese. Alla sua volta la democrazia poteva sorridere allo strano sgomento dei suoi avversari; la pubblica opinione tornava favorevole alla causa della rivoluzione e della immediata unità. Verso il finire d’aprile raccolti i mille suoi prodi il dimissionario generale Garibaldi accingevasi a salpare da Genova ed a portare soccorso agl’insorti fratelli dell’Isola.

XIX.— L’esame coscienzioso dei fatti ci induce a dubitare che il ministero ritenesse l’insurrezione siciliana pericolosa alla propria ed alla, causa d’Italia. Infatti la lotta impegnata a Palermo e con varia fortuna proseguita nell’interno dell’Isola poteva suscitare nuove complicazioni e turbare la pace e la tranquillità dell’Europa. Certo i moderati avrebbero voluto annettere eziandio quella bella ed ubertosa parte d’Italia: ma eglino temevano della diplomazia, della opposizione delle potenze e della incertezza dell’esito. In ogni moto popolare essi scorgevano la mano di Giuseppe Mazzini e della rivoluzione, pronta a strappar loro dal pugno il frutto degli acquisti già fatti. I moderati abborrivano le insurrezioni per istinto, per interesse e per indole, e detestavano quella vita avventuriera che sempre trascinavali a nuovi pericoli. Avrebbero in ogni caso preferito che i siciliani da sé soli bastassero a trarsi al dominio borbonico, salvo ad intervenire in appresso a rimettere l’ordine nel paese sconvolto dalle civili contese. Ma nel tempo stesso si apparecchiavano a declinare la propria responsabilità pel caso che la rivoluzione avesse subito una rotta ed i Borboni fossero ritornati signori dell’Isola. Da tali uomini i siciliani non avevano gran fatto a sperare protezione e soccorso.

XX.— Ma l’Italia, inspirata alla coscienza dei proprii destini, esigeva si soccorressero tosto con armi e denari i fratelli che tenevano sollevato nell’Isola il vessillo dell’unità nazionale. Né i moderati potevano opporsi a quel voto d’amore fraterno, né il conte di Cavour rinnegare quella pubblica opinione alla quale in si gran parte doveva i successi ottenuti. Comprimere, come la diplomazia avrebbe desiderato, in una cerchia di ferro il patriottismo italiano e frenare lo slancio generoso dei popoli sarebbe stato impossibile e al di sopra d’ogni umano volere: opera del pari impolitica e assurda. Cavour poteva padroneggiare la rivoluzione, a patto però di lasciarsi da essa rimorchiare e di seguir la corrente. L’entusiasmo era giunto a quel limite d’effervescenza che avrebbe agito d’accordo col ministero o contro di lui. Cavour non poteva abdicare in un tratto a quella immensa popolarità che avevalo fatto si grande in Italia e in Europa e ch’era stata egualmente vantaggiosa al partito della rivoluzione e a quello dell’ordine. Egli non doveva abbandonare quella pieghevolezza di condotta e di spirito che fu sempre la scienza dei grandi politici e che gli aveva recato i più bei risultati. Era pure interesse. del principio monarchico che la rivoluzione, con improvvide misure, non fosse trascinata ad operare da sé, isolata e senza sorveglianza e controllo.

XXI.— Ai primi del maggio il corpo spedizionario riunivasi a Genova senza incontrare veruna opposizione. Altre misure non furono prese che quelle necessarie a salvare la responsabilità del governo al cospetto della diplomazia e dell’Europa. Furono sequestrate le armi di proprietà nazionale esistenti nei magazzini del municipio milanese: ma in compenso si consegnarono da parte del La-Farina alcune casse di fucili provenienti da Torino. Si fecero sorvegliare dalla pubblica forza i varii punti d’imbarco lungo il litorale di Genova, ma in pari tempo si lasciava che si involassero i due vapori della società Rubattino nel porto e sotto gli occhi stessi delle autorità. Ad alcuni volontari, sotto diversi pretesti, vennero usate angherie e sopraffazioni ma per contro si permetteva che si concentrassero in Genova ed a grossi stuoli s’imbarcassero nel porto, alla Foce ed a Quarto. Fingevasi di volere vietare la spedizione, ed intanto Garibaldi partiva con armi, uomini e danari per la sua avventurosa campagna.

XXII.— D’altronde perché, a quale scopo, i moderati doveano impedirlo? Qualunque il risultato della spedizione garibaldiana si fosse per essere non potevano che trarne non lieve vantaggio. O l’impresa riusciva, ed eglino avrebbero raccolto i frutti della vittoria: o falliva, e si sarebbero liberati di un nucleo di uomini che a torto od a ragione riteneansi siccome incitatori instancabili di tumulti e di scandali. Gli esaltati, i frementi, gl’incorreggibili seguaci di Giuseppe Mazzini, si sarebbero senza dubbio riuniti a Garibaldi, almeno cosi supponevasi: e si lasciavano andare a combattere dove i loro trionfi potevano tornare giovevoli e dove la loro perdita poteva apparir vantaggiosa. Egli era certo che se Garibaldi fosse rimasto in Sicilia sconfitto, la inesorabile e nota ferocia del Governo napoletano non gli avrebbe dato quartiere, e che i Mille, senza distinzione di grado o di nome, avrebbero servito di contrappeso alle forche borboniche (225). in tal caso la rivoluzione, decapitata e priva di consiglio e di guida, non avrebbe, almeno per qualche tempo, potuto rilevare la testa: i moderati, senza temere ulteriori complicazioni sarebbero rimasti arbitri supremi della politica ed avrebbero potuto dormire in pace ed in tranquillità i loro sonni.

XXIII.— Garibaldi partiva lasciando al deputato Bertani l’incarico di rappresentarlo presso i Comitati e le altre associazioni politiche costituite nell’Alta Italia, e di raccogliere uomini e danari da inviarsi in Sicilia. Tale scelta del Generale non poteva piacere alla consorteria moderata a cui per lo appunto il nome di Bertani inspirava ben poca simpatiae fiducia. Dall’altra parte dispiaceva il lasciare il monopolio del patriottismo ad uomini che pei loro antecedenti e principii si ritenevano di rosso colore. Siccome l’impresa di Sicilia era estremamente popolare i moderati volevano avervi qualche ingerenza essi pure per appropriarsi almeno una parte di quella popolarità che dovea ridondare dalle premure colle quali si sarebbe soccorso il generale Garibaldi. Nel decorso della presente storia abbiamo bastevolmente dimostralo qual fosse la condotta tenuta dal ministero in riguardo al Dittatore, alle successive spedizioni dei volontari ed al governo provvisorio di Palermo.

XXIV.— La spedizione imperiamo avea luogo coll’approvazione secreta e col pubblico biasimo dei moderati e del conte Cavour. Ostensibilmente affettavasi di frapporre de’ piccoli ostacoli alla partenza dei Mille; ma favorivasi di soppiatto e sussidiavasi d’armi e danari. Nei documenti diplomatici e ne’ suoi discorsi al Parlamento Cavour ostentava disapprovare altamente e condannava l’avventurosa intrapresa: ma insinuava al medesimo tempo la necessità di tollerarla e proteggerla (226). Apparecchiavasi in tal guisa a comparire davanti alla pubblica opinione qual proiettore dei Mille pel caso che avesser trionfato e a declinareil disonore della sconfitta se la sorte della guerra fosse loro stata contraria. Così ira le tergiversazioni e gli artificii attendevasi l’esito degli avvenimenti che non doveva gran fatto tardare.

XXV.— Entrato Garibaldi vittorioso nella capitale dell’isola ogni ostacolo fu tolto all’imbarco ed alla partenza di Medici. I moderati col mezzo di La-Farina gareggiarono col partito d’azione di attività e di zelo nel raccogliere ed inviare in Sicilia armi, danari, munizioni ed uomini. I diecimila fucili, rimasti sequestrati nei magazzini del municipio milanese, ottennero, mediante un simulato contratto di vendita, d’essere sciolti e presero la via di Palermo. I fondi restati nelle mani della commissione delle offerte pel milione di fucili Garibaldi, composta di Finzi, Besana e Mangili, vennero adoperati a comprar tre vapori da porsi al servigio del governo siciliano (227). Così si evitava il dispiacere di vederli passare nella Cassa centrale, nelle mani di genti si poco simpatiche, come sembra essere stata volontà del Dittatore.

XXVI.— Le cose progredirono quietamente sino alla presa di Messina ed alla completa emancipazione del suolo siciliano. I tentativi di La-Farina e altri satelliti avevano fallito; ma i moderati tuttavia lusingavansi di riprendere il più presto il penduto ascendente e di allontanare il pericolo di nuove conflagrazioni. Vagheggiavano il progetto di una rivoluzione pacifica che stavano apparecchiando nel Regno di Napoli: persuasi che Francesco Il dovesse al primo allarme abbandonare la sua capitale e ripetere gli errori commessi dalla casa d’Este, di Lorena e di Parma. Riuscendo i moderati a liberare ed annettere, senza il soccorso della rivoluzione popolare, il vasto reame di Napoli, le glorie di Garibaldi guadagnate io Sicilia sarebbero rimaste del tutto ecclissate. Il disegno era bello ed abilmente ideato: forse troppo sublime perché potesse ottenere sulla pratica arena dei fatti la sua applicazione.

XXVII.— Mentre i moderati consultavano, Garibaldi, troncati gl’indugi, compariva vincitore al di qua dello Stretto, ed accingevasi a rinnovare in Calabria i prodigi strategici di Parco e Palermo. La fama del suo fortunato passaggio perveniva a Torino contemporaneamente all’annunzio della strepitosa ed incruenta vittoria d’Alta Fiumara. La consorteria ne parve costernata, ed i giornali da lei stipendiati sfogarono il loro livore contro la nuova intrapresa dei Mille. In loro sentenza Garibaldi valicando, contro la volontà del Governo, lo Stretto, gravemente comprometteva la tranquillità e l’avvenire d’Italia: ed egli infatti comprometteva i loro interessi e la loro popolartià (228).

XXVIII.— Aveva Garibaldi manifestato il pensiero di compiere d’un tratto e senza deporre la spada l’emancipazione del suolo italiano dall’estremo Capo Passero all’Isonzo. Egli intendeva servirsi della Sicilia e di Napoli siccome di una leva a sommuovere le popolazioni ed a spingerle in massa sotto le mura di Roma e davanti ai fortilizii del quadrilatero. Il piano tracciato dal Dittatore abbracciava l’intiera Penisola, dalle coste meridionali della Sicilia all’Isonzo ed al Brennero. Co’ suoi volontari e coll’esercito napoletano acquistato alla causa della patria contava presentarsi sul Mincio o sul Po alla testa di due o trecentomila combattenti, numero senza dubbio bastevole a lottare coll’Austria con qualche probabilità di successo. E la conclusione di questa immensa epopea doveva aver luogo nella eterna metropoli, dove sul Campidoglio sarebbesi posta sul capo di Vittorio Emanuele la corona reale od imperiale d’Italia. Sublime illusione che i tempi ed i maneggi della consorteria moderata dovevano si presto troncare e disperdere (229).

XXIX.— Tale disegno non avrebbe potuto seguirsi senza esporre a gravissimi rischi il paese: e il conte Cavour, o qualunque altro si fosse trovato al governo, doveva ad ogni costo sventarlo ed escluderlo. Abbandonata alle sole sue forze l’Italia non era certamente in situazione di riporsi in campagna il giorno dopo la conclusione della pace: e il buon senso c’induce ad applaudire a coloro che seppero in tempo scongiurar l’uragano e salvare la patria da fatale e forse non dubbia rovina. Ammirando la vastità del concetto garibaldiano e facendo i più fervidi voti perché venga al più presto attuato, noi non possiamo ricusare la nostra simpatia ed approvazione a coloro che a prezzo della propria popolarità si studiarono allontanarne il dubbio e pericoloso esperimento. A raccogliere i due o trecento mila soldati per assalire l’esercito austriaco trincierato nel suo quadrilatero sarebbe stato mestieri ricorrere alla rivoluzione: e poiché la rivoluzione metteva spavento era inutile pensare alla guerra coll’Austria.

XXX.— Il proclama pubblicato all’atto di partire da Genova e col quale Garibaldi annunziava all’Italia la risoluzione già presa di soccorrere i fratelli dell’Isola, manifestamente rivelava le mire e la politica della sua spedizione. Ispirato alle tradizioni unitarie ed ai sentimenti nutriti sino dall’età giovanile, Garibaldi esortava gl’Italiani ad invadere l’Umbria, le Marche, la Sabina e il Napoletano, onde fosse il nemico obbligato a divergere la sua attenzione e a sperperar le sue forze (230). Nel dettare quelle linee il Generale non era che il rappresentante o l’organo di quella politica dalla quale ad ogni costo sfuggire volevasi. Fino dai primordii della campagna siciliana il partito della rivoluzione studiavasi ad estenderla a tutta l’Italia, mentre appunto il governo adoperavasi con tutti i suoi mezzi a limitarne e circoscriverne il teatro e fazione. Di là quelle lunghe e continuate contestazioni che si prolungarono durante la guerra e finirono colla dissoluzione dell’esercito garibaldiano e col ritorno del Dittatore a Caprera.

XXXI.— Nei mesi di giugno e di luglio ebbero i moderati abbastanza che fare nell’impedire l’invasione degli Stati tuttavolta rimasti alla Chiesa. Anzi tutti s’adoperarono con attività sorprendente a strappare di mano a Bertani e ad avocare a sé il monopolio delle ulteriori spedizioni: e se anche non riuscirono in tutto, ottennero di avere la massima parte e la maggiore influenza nella pertrattazione degli affari di Genova. Eglino si rivolsero ai diversi Ufficii provinciali d’arruolamento e cercarono che i volontari venissero diretti all’Ufficio militare regolato da La-Farina, anziché alla Cassa centrale condotta dagli amici del Generale. Né rifuggendo dalle più stolte e banali calunnie asserivano che i Garibaldiani di Genova, non che conformarsi agli ordini ricevuti, agivano per proprio conto e in opposizione ai decreti stessi del Dittatore. Affermavano che le spedizioni negli Stati pontificii si volevano effettuare contro la volontà e i divisamenti di Garibaldi, perché condotte da capi macchiati di pece repubblicana i quali col nome del Dittatore soltanto volevano sollevare in Italia la bandiera rossa ed il frigio berretto. Insinuavano quindi ai volontari, pronti a dare il nome a Garibaldi, che ben si guardassero dall’arti dei loro nemici, e che per non essere condotti a perdizione dovessero arruolarsi e partire con persone già note pel loro carattere ed amore alla monarchia e alr Italia. A forza di maneggi pervennero ad ottenere dai varii comitati delle dichiarazioni che i volontari non sarebbero ulteriormente spediti se non alle persone che verrebbero loro indicate (231).

XXXII.— Si cominciò dall’inviare in Sicilia la seconda spedizione Medici, col pretesto, d’altronde assennatissimo, che non si dovevano dividere e sparpagliare le forze mentre Garibaldi a Palermo versava in istrettissime angustie di armi e soldati. «Quanto all’Umbria e alle Marche, dicevano, ci penseremo dappoi: ora è necessario che i volontari, che diedero a Garibaldi il loro nome, vadano tosto a raggiungerlo. Ottimo pensiero è liberavi d’un tratto l’Italia: ma prima si cerchi di soccorrere i Mille, né si lasci Ga«ribaldi in pericolo di venire da un istante schiacciato dal numero, eccessivamente superiore, dei Regii.» Più tardi il colonnello Luigi Pianciani, destinalo a comandare la infelice e famosa spedizione di Terranuova, vide egli pure abortito il suo tentativo, ed uguale fortuna toccava in Toscana al barone Nicotera che doveva assaltare Perugia e sollevare le Marche contro il governo del Papa.

XXXIII.— I moderati si diedero impértanto a, favorire le successive spedizioni dei volontari n Sicilia al doppio intendimento di potere condurle a norma dei proprii interessi e vezzeggiare la pubblica opinione, e di fortificare l’armata Garibaldiana onde porla in situazione da non aver nulla a temere dai Regii. È bene tuttavolta osservare che Medici non salpava da Genova, ancorché i volontari da più giorni già fossero pronti e raccolti, se non dopo ricevuta la certa notizia dell’espugnazione di Palermo operata dai. Mille. Dall’istante che la Sicilia aveva accettato la Dittatura, promulgata a Salemi e Palermo in nome di Vittorio Emanuele, i La-Fariniani dovevano considerare il paese siccome appartenente di diritto all’Italia o siccome una nuova conquista: e ragione ed interesse volevano che si cercasse soccorrere il Dittatore, già stremo di forze, onde non avesse a subire un rovescio inopinato, una rotta. Ma le cose cangiarono dopo la presa di Messina e il»passaggio in Calabria, intrapreso contro il volere napoleonico e malgrado i contrari avvertimenti del Ministero. Mentre Garibaldi vincitore a Reggio e ad Alta Fiumara, marciava sulla via di Cosenza e di Napoli parve all’opposto opportuno o prudente il cercare che l’esercito da lui comandato non aumentasse di troppo d’ardire e di forze onde poi riuscisse all’uopo impossibile disarmarlo e discioglierlo. Sebbene gli atti del governo dittatoriale si emanassero in nome di Vittorio Emanuele e lo Statuto fondamentale sardo fosse stato di già promulgato a Palermo e in Calabria (232), i moderati tuttavia diffidavano delle intenzioni di Garibaldi o per lo meno di coloro che l’attorniavano, ai quali si attribuivano pensieri ed idee che forse giammai non aveano sognato. Per tutte queste ragioni, e simulando accondiscendere alle prestanti sollecitazioni della Francia e dell’Inghilterra, si pensò a vietare le ulteriori spedizioni di volontari tanto in Sicilia che a Napoli.

XXXIV.— Il 13 agosto comparve in proposito la famosa circolare Farini, vero capolavoro d’astuzia banale e doppiezza. In essa le spedizioni venivano severamente disapprovate come lesive le leggi internazionali che regolano i rapporti degli Stati in condizione d’amicizia e di pace. Il governo, in essa dicevasi, non può tollerare che si violi il territorio altrui e che si ponga a soqquadro il paese soggetto all’autorità dei legittimi principi.

XXXV.— Il passaggio in Calabria produsse a Torino una dolorosa impressione stante le più vive premure mostrate dal governo di Francia a vietarlo. I La-Fariniani temettero veder compromesso il risultato di tanti travagli, mentre col tempo e coll’arte assai meglio s’avrebbe potuto ottenere il medesimo scopo. I giornali moderati ne menarono il pii alto scalpore: ed alcuni giunsero perfino ad accusare di avventata o peggio l’impresa di Napoli. Non potendo attaccarsi a Garibaldi, la cui riputazione e popolarità era al disopra d’ogni calunniaci moderati assalivano colle più amare invettive i suoi amici insinuando che il male, benché fatto in suo nome, veniva da essi operato. Dicevasi Garibaldi incapace di sentimenti ostili al governo ed al paese, ma volevasi debole e facile ad essere raggirato dalle arti di coloro nei quali oltremodo fidava. In tal guisa bellamente si dava al Dittatore un diploma di leggerezza o incapacità o ignoranza politica (233).

XXXVI.— Né d’altra parte la circolare Farini avea fatto spi popolo men trista impressione. La pubblica opinione parve vivamente colpita dal divieto di arruolar volontari mentre il paese abbisognava cotanto di armare. I giornali avanzati alla lor volta gridarono contro l’ingiusto ed antinazionale decreto, e promuovevano delle proteste e delle sottoscrizioni da inviarsi al Parlamento. Fu allora mestieri studiare per porre un tardo riparo allo sproposito fatto con inopportuna precipitazione: ed una seconda circolare Farini riapriva gli arruolamenti pei volontari che sarebbero stati incorporati nell’armata italiana (234).

XXXVII.— Durante il mese di luglio esauriva il governo francese i suoi sforzi a riavvicinare le Corti di Torino e di Napoli. Napoleone voleva che un trattato d’alleanza venisse conchiuso onde con questo mezzo arrestare la marcia dei Mille e sottrarre il trono borbonico dalla completa rovina. Se nonché l’Imperatore trovava in parole una piena e formate adesione, mentre in fatto nessuno voleva o poteva adattarvisi. Il ministero italiano poneva per condizione che la Sicilia fosse lasciata in libertà a decidere de’ propri destini: al che il Re di Napoli non voleva acconsentire ben sapendo che in tal caso l’avrebbe perduta. Mentre Garibaldi tratteneasi a Palermo, Francesco Il nutriva fiducia di riconquistare il perduto, sempreché altre bande non sopraggiungessero a rinforzare l’armata dittatoriale. Quindi insisteva a Parigi perché fossero effettivamente vietate le spedizioni dei volontari in Sicilia. Dal canto suo il ministero italiano non poteva aderire, perché opponendosi alla partenza dei volontari sarebbe stato quanto esporre l’Italia al pericolo d’una generale conflagrazione. Più tardi e dopo molte trattative e parole, il governo napoletano umiliato dalla rotta di Milazzo e dalla perdita totale dell’Isola, avrebbe acconsentito all’abbandono dei dominii situali al di là dello Stretto purché gli venissero assicurate le provincie rimaste sino allora fedeli. L’ostinazione di Garibaldi ed il pubblico grido fece sventare quelli ibrido piano, e tutti i conati diplomatici a nulla riuscirono.

XXXVIII.— Verso i primi d’agosto i plenipotenziarii napoletani Manna e Winspeare giunsero a Torino, ov’erano accreditati, e si misero tosto in relazione col conte Cavour. Eglino riconoscevano o fingevano riconoscere i sentimenti benevoli che animavano il gabinetto di Torino e nutrivano impértanto fiducia che le trattative intavolate potessero ottenere felice successo. Dal canto suo il ministro italiano stemperavasi in proteste d’amicizia ed esprimeva il desiderio che l’alleanza progettata a Parigi potesse a Torino concludersi (235). Il vero si è che gli uni e gli altri egualmente scorgevano l’impossibilità di venire ad un componimento amichevole, massime nello stato in cui si trovavano allora le cose e gli animi. I giorni, le settimane passarono in vane discussioni od in fallaci proteste, ed intanto la crisi marciava alla sua soluzione.

XXXIX.— Per certo il ministero italiano trovavasi in condizioni tristissime: Cavour non avrebbe potuto respingerò le negoziazioni senza incorrere nell’ira imperiale, né contrar l’alleanza senza esporre ad inevitabile rischio la propria e la popolarità del governo. Posto fra la rivoluzione popolare che incalzavate da tutte le parli e la diplomazia bonapartista che volea rattenerlo, nel contegno e nelle parole serbava l’impronta della doppia influenza a cui era soggetto. Gli stessi plenipotenziarii napoletani furono costretti od indotti a rendere omaggio ai benevoli sensi del nobile conte ed a riconoscere ch’egli doveva obbedire ad una forza di lui più potente, la pubblica opinione.

XL.— Nel frattempo Garibaldi, superate le Calabrie marciava alla volta di Napoli e precipitava la soluzione di tanti problemi che sembrarono dapprima insolubili. Il momento, sì a lungo temuto, era finalmente arrivato: resistenza e l’avvenire d’Italia poteano dipendere dalle risoluzioni che il ministero stava per adottare. Unico scopo di tanti maneggi fu sempre di allontanare i volontari dall’Umbria, onde la rivoluzione straripando non invadesse le Marche e l’Emilia e li trascinasse ad una guerra precoce sul Mincio (236). Ed era ciò che sopra tutto si potea prevenire, tanto più che un attacco contro l’armata Habsburghese sarebbe stato avversato dalla Francia non solo ma eziandio dal governo britannico, il quale mostrava con grande apprensione aspettare il risultato degli affari di Napoli (237).

XLI.— Rimaneva ai La-Fariniani una sola via di salute e fu tosto prescelta. A prevenire Garibaldi abbisognava lasciare da canto le vane paure ed entrar nelle Marche a suscitarvi o sedarvi la rivoluzione e il disordine. La misura in se stessa appariva assai ardua; ma stato sarebbe d’ogni altro consiglio il peggiore quello di lasciare sì gran parte d’Italia in balia del partito avversario. Napoleone opponevasi: ma si poteva ben credere che, posto nell’alternativa di vedere sulle mura di Perugia e Spoleto il vessillo garibaldiano o l’azzurra coccarda sabauda, non avrebbe un istante esitato a preferire quest’ultima. Egli è un fatto singolare abbastanza per non dire inconcepibile che i bonapartidi, surti e ristorati dalla rivoluzione, la debban cotanto abborrire e temere. La situazione del governo italiano veniva esattamente compendiata nelle celebri parole rivolte dal conte Cavour al signore di Talleyrand il quale in appresso protestava contro la nota diretta al cardinale Antonelli. «Se noi, diceva il nobile conte, non siamo, prima di Garibaldi alla Cattolica, noi saremmo perduti. La rivoluzione invade l’Italia;noi ci troviamo costretti ad agire (238).» Cavour concludeva dicendo che il governo sardo, mentre non poteva arrestare la marcia di Garibaldi su Napoli e sulle Romagne, per lo meno oppor gli doveva una insormontabile barriera lungo gli Abbruzzi.

XLII.— Verso il finire di agosto l’imperatore Napoleone viaggiava per diporto in Savoia a beare di sua presenza que’ nuovi e recenti suoi sudditi: e il governo italiano, colta la propizia occasione, spediva a complimentarlo in Chambéry il generale Enrico Cialdini e Luigi Carlo Farini il ministro. L’obbietto di quella visita di cortesia diplomatica, alla quale sino dal principio si attribuì con ragione una importanza politica, doveva esser quello di esporre all’Imperatore le penose condizioni d’Italia ed intercedere l’assenso per tutto ciò che si voleva tentare. Napoleone sulle prime negava assolutamente di acconsentire ad un invasione delle provincie papali: ma poscia comprendendo che il suo rifiuto non avrebbe che favorito il disegno di Garibaldi, discese a più miti consigli e lasciò si facesse. Le condizioni accettate od imposte per l’ottenimento dell’assenso imperiale rimasero e sono tuttavia un mistero: ma i fatti parlano abbastanza chiaro da sé, ed ognuno, confrontando le date, può di leggieri persuadersi che in quell’abboccamento fu in gran parte deciso il destino delle Marche e dell’Umbria.

XLIII.— Entrava Garibaldi in Napoli il 7 settembre di sera: e il successivo giorno 8 Cavour spediva una nota al ministro pontificio cardinale Antonelli intimandogli di licenziare le truppe straniere di presidio nelle Marche, per torre, com’egli insinuava, ogni forni le al malcontento popolare ed alla rivoluzione. L’indisciplina inerente a tale esercito, l’improvvida condotta dei capi, e le minaccia provocatrici ostentate nei loro proclami suscitare e mantenere un fermento pericoloso oltremodo alla pace d’Italia. Vivere nella memoria delle popolazioni le rimembranze dolorose delle stragi e del saccheggio di Perugia: pensasse il ministro pontificio che tale condizione di cose, per sé funestissima, lo era maggiormente divenuta dopo i fatti accaduti in Sicilia ed a Napoli. La presenza delle truppe straniere ingiuriare il sentimento nazionale ed impedire la manifestazione dei voti popolari: e la vicinanza e le ragioni dell’ordine e della propria sicurezza imporre al governo italiano il dovere di rimediare al più presto a tanto pericolo. La coscienza non permettere di restare in presenza delle sanguinose repressioni con cui le armi de’ stranieri mercenarii soffocherebbero ogni manifestazione di simpatia nazionale. Significare per tutte queste ragioni a Sua Eminenza che il governo italiano impedirebbe in nome dell’umanità ai mercenarii pontificii di sevire sulle inermi popolazioni. Provvedesse imperiamo al disarmo ed all’immediato scioglimento di que’ corpi la cui presenza minacciava incessantemente la tranquillità del paese.

XLIV.— Al che Antonelli replicava: I nuovi principii di pubblico diritto posti in campo dal conte Cavour lo dispenserebbero da ogni risposta, tanto gli parevano opposti a quelli riconosciuti da tutti i governi. Ma contenersi nella missiva del conte Cavour offese e calunnie ch’egli dovea rilevare e confutare. Essere odiosa del tutto ed ingiusta e falsa la taccia portata contro le truppe di recente dal governo papale formate: parergli inqualificabile raffronto che gli veniva scagliato, né potere comprendere come si volesse interdire al Pontefice di tenere al suo servizio truppe straniere, mentre molli altri governi il faceano e nessuno l’aveva attribuito a loro colpa. Essere menzogna ed impudente calunnia i disordini che voleansi, con insigne malafede, attribuire alle papali milizie: avere la storia di già registrato quali fossero e donde partite le bande che avevano violentemente imposto alle volontà delle popolazioni, e quali, e da cui macchinate, le arti ond’era di recente stata sconvolta si gran parte d’Italia. Quanto alle disastrose conseguenze della repressione di Perugia doversi esse attribuire, non alle milizie pontificie, ma bensì a coloro che avevano dall’estero promossa quella rivolta. Calunnie le declamazioni contro il pontificio governo: calunnie le accuse scagliate sulle sue truppe, e calunnie le imputazioni fatte ai generali, dandoli a credere autori di minacele provocatrici e di proclami atti a produrre pericolosi fermenti. Respingere del resto le minaccie e le intimazioni pel disarmo e il rinvio de’ volontari pontifici!: la Santa Sede forte nel suo diritto ed appellando al jus delle genti resisterebbe impavida a tutte le violenze che le venissero usate (239).

XLV.— In tal guisa la risposta d’Antonelli fu quale ognuno potea prevedere e molti avevano desiderato: la Corte di Roma, come sempre, si mostrò inesorabile. La tempra della pontificia politica non è certamente tale da cedere o piegarsi davanti alle necessità od alle intimazioni di qualsiasi terrena potenza: gli avvenimenti potranno schiacciarla od opprimerla, ma domarla o cangiarla non mai. A Roma domina tuttavia la politica di Alessandro II, di Adriano VI e d’Ildebrando: e si regola quasi ancora vivesse fra le tenebre di un’età che per sempre è sparita. È un governo che vive delle memorie del passato, tenacissimo delle proprie abitudini ed ostinalo alla follia nella stima della propria saviezza e potenza. Esso sparirà mille volte prima d’indursi a riconoscere il progresso che lo avviluppa e minaccia e prima di recedere un iota dalle sue inopportune pretese. È un governo col quale non è dato trattare se non colla punta delle armi: ed all’armi malgrado la riluttanza di molli, si dovette finalmente ricorrere.

XLVI.— La condiziono delle Marche è dell’Umbria facciasi diffatti più minacciosa ogni giorno e più seria. Una banda di quindici a ventimila volontari, appartenenti a tutte le nazionalità ed a tutte le lingue d’Europa, tenevano da padroni e da despoti quelle sventurate provincie. Le notizie della bassa Italia e le vittorie di Garibaldi sollevavano le loro speranze, le quali venivano altresì rafforzate dall’odio che ispiravano i presidii papali. Il generale Lamoricière, supremo comandante pontificio, trovavasi accampato in paese nemico ove tutti misconoscevano la sua autorità, molti cospiravano contro al suo governo e moltissimi si apparecchiavano ad assalirlo colle armi alla mano. L’odio che ispiravano i suoi soldati diveniva fomite di continui tumulti: le leggi tacevano e i magistrati, atterriti od animati dalla pubblica opinione, mancavano di forza odi volontà per farle eseguire. Regnava in tutto il paese una confusione indicibile: erano frequenti le risse, non meno frequenti le uccisioni fra cittadini e soldati: e i delitti sì degli uni che degli altri andavano impuniti, perché gli uni venivano protetti alalia connivenza dei superiori e gli altri da quella delle civili autorità. Il generale legittimista Becdelièvre, faceva bastonare alcuni cittadini perché avevano cercato d’indurre qualche soldato alla diserzione, e ciò pel timore che venendo giudicati dal tribunale ordinario non fossero assolti. Pimodan ordinava che i veri o supposti delitti onde fossero i cittadini accusati venissero deferiti al tribunale militare, poiché non fidava sullo zelo o sulla accondiscendenza delle civili autorità. Una simile situazione non era tenibile: e Lamoricière, a contenere l’avversione ed i moti minacciosi del popolo, si credette ben tosto obbligato a promulgare Io stato d’assedio.

XLVII.— Questo documento, vera emanazione di caserma, pare letteralmente copiato dalle sanguinarie proscrizioni dei Wekìen, degli Haynau e de’ Windischgràtz: pure, dopo attenta disamina, siamo costretti a riconoscerlo consono in tutto all’arbitraria legislazione ed alle massime che regolano negli Stati pontificii il corso della giustizia punitiva. Ventisei articoli o paragrafi il compongono: vi sono enumerate diverse specie di colpe o delitti e comminate tre sole pene, l’ergastolo, la confisca e la morte (240). A tenore del barbaro quanto sciagurato proclama di Lamoricière i beni mobili ed immobili del prevenuto dovevano sino dall’arresto essere sequestrati a favore del Fisco. In conseguenza nell’individuo si colpiva l’intiera famiglia e si violavano le basi più inconcusse della più ovvia giustizia: pel capriccio d’una spia o d’un proconsole gl’innocenti potevano essere da un istante ali altro travolti nella miseria. Nella stolta mania d’incutere terrore non si rifuggiva dal ricorrere a leggi e consuetudini che disgraziarono in passato la giurisprudenza europea, e d’avvolgere nella stessa condanna gl’innocenti ed i rei, i padri ed i figli (241). Tuttavia Lamoricière, quasi gli pesasse assumere la responsabilità delle sue barbaro disposizioni, si riferisce agli Editti pontificii del 20 settembre 1832 e dell’aprile 1842, citando in appoggio leggi e decreti anteriori (242).

XLVIII.— Erano o dovevano essere puniti di morte i portatori di armi o di coccarde nazionali, i promotori della rivolta e coloro che avessero divulgato stampe o scritti sediziosi od inviato o ritenuto danaro destinato ad operazioni politiche. Alla stessa pena si sottoponevano coloro che avessero eccitato i soldati papali alla diserzione e coloro che si fossero dati a favorirla. Chi teneva corrispondenza mediante lettere o messaggi coll’estero e con fine politico o cercava, turbare od interrompere le comunicazioni telegrafiche o postali. Tutti questi delitti si punivano coll’ultima pena e con una multa che poteva portarsi a 30,000 scudi romani (243).

XLIX.— La diffusione di notizie allarmanti, il fatto di aver dato protezione o ricetto ad un disertore, l’avere deviato le ricerche delle guardie ingannandole con falsi indizii, il portare o l’occultare emblemi politici, gli attruppamenti, ecc., dovevano essere puniti coi lavori forzati a vita ed una multa estensibile a 10,000 scudi romani. È inutile osservare che la compilazione degli atti di procedura doveva farsi sul tamburro del consiglio di guerra, declinando ogni ingerenza delle civili autorità giudiziarie. Per tal modo la vita e le sostanze di quegli infelici abitanti dovevano esclusivamente dipendere dall’arbitrio di pochi stranieri ignoranti, bestiali e fanatici (244).

L.— Dal suo quartiere generale di Spoleto Lamoricière guardava con ansietà ed apprensione ai contini meridionali delle provincie occupate, ed alla Cattolica, dove le truppe sarde andavano ad effettuare il loro concentramento. Il generale pontificio si trovava cosi tra due fuochi: dal mezzogiorno stringevate la rivoluzione vincitrice e signora del Regno di Napoli: al nord minacciavate un avversario non meno potente o men desideroso di venire alle mani. Inoltre le popolazioni inasprite ed apparecchiate ad insorgere tumultuavano e gl’impedivano di raccogliere le sue truppe sur un punto qualunque del territorio ch’egli occupava e tiranneggiava. L’esercito papalino (se pur merita un tal nome quell’accozzaglia di gente senza principii né patria) assottigliato dalle diserzioni e dai presidii che non si potevano levare dalle città, ammontava appena a dieciotto mila soldati di tutte le razze e di tutte le lingue d’Europa. Con questi dieciotto mila uomini, sfiduciati ed. abbattuti d’animo e di forze, aveva Lamoricière a lottare contro due nemici ad un tempo, ciascuno dei quali, bastava a schiacciarlo da solo. Le stesse minaccie colle quali studiavasi di atterrire le popolazioni tradiscono la secreta ansietà da cui era il generale animato.

LI.— Dal fondo del Vaticano il Santo Padre frattanto sentiva le angustie de’ suoi e sollecitamente accorreva a rinforzare la loro fede ed il loro coraggio. Roma è una inesauribile sorgente di ricchezze, di cui il lungo abuso ha diminuito il valore nella stima dei popoli ma non in quella dei preti: eglino le spendono o le prodigano a norma del credito antico. Una volta quelle ricchezze si cangiavano in milioni: ora bastano appena a produrre dei franchi. È merce quasi fuori di moda e che rende assai poco, tuttavia egli è sempre meglio prendere il poco che il nulla. Però se i compratori mancano non mancano già gli accettanti: ed in mancanza dei primi Roma si persuade a profonderla agli ultimi. E poi di tal merce v’è dovizia; una benedizione più o meno non toglie od accresce di nulla il tesoro spirituale del Santo Pontefice.

LII.— Il Beatissimo Padre inviava per atto di sua sovrana bontà una lettera all’arcivescovo di Nisibi Cappellano Maggiore delle truppe papali. In essa lettera, dopo una lunga geremiade sulle tristizie dei tempi e sulle supposte calamità della Chiesa, il Santo Pontefice apre i suoi spirituali tesori e li mette a vantaggio de’ suoi valorosi campioni. Conoscendo che i soldati ed i duci stavano per incontrare pericoli gravissimi, per azzuffarsi e combattere con audacissimi nemici, il Santo Padre, per rinforzarli e corroborarli, inviava loro la benedizione, l’indulgenza plenaria e la facoltà di andare in caso di morte, diritti in Paradiso. Non dubitando del trionfo finale della Chiesa, terminala coll’implorare dal cielo una vittoria che il cielo aveva di già condannata (245).

LIII.— Dall’altro lato il governo francese risolveva aumentare i presidii di Civitavecchia e di Roma ad oggetto di proteggere da qualunque eventuale pericolo il trono pontificio e l’unico porto occupalo in Italia dalle truppe imperiali. Nulla aveva Napoleone a temere da parte del conte Cavour, della cui obbedienza e sottomissione viveva affatto securo, ma così non poteva pensare di Garibaldi, il quale, senza velo o mistero proclamava il Campidoglio come la meta delle sue vittorie ed apertamente anelava a cancellare la disfatta subita nel 1819 (246). L’aumento del presidio francese risollevava al tempo stesso le suscettibilità del governo britannico e le speranze del cardinale Antonelli. Questi giunse a credere che l’armata napoleonica sarebbesi opposta alla invasione de’ Sardi nei caso che le truppe del Lamoricière non bastassero a respingerli: quello ne mosse alla Tuilleries, speciali lagnanze. Ma tosto l’uno e l’altro dovettero convincersi di avere assai male collocato una folle fiducia ed un più folle timore. L’Imperatore voleva premunirsi contro la rivoluzione e Garibaldi e validamente proteggere la Sede pontificale da ogni disastro, ma lasciava al tempo stesso che i Piemontesi penetrassero ed invadessero l’Umbria e le Marche. Così aveasi stabilito nel convegno di Chambérv, e cosi fu fatto.

LIV.— Se non che Napoleone desiderava declinare la propria responsabilità negli avvenimenti che dovevano prossimamente compirsi. Voleva egli apparire in faccia all’Europa siccome in opposizione ai progetti del Gabinetto di Torino, e contrario ad ogni impresa che tendesse alla soppressione del governo papale. Informava per tanto in via diplomatica il conte Cavour che egli non poteva approvare i suoi disegni, che a lui ne lasciava la responsabilità, e che se ad ogni modo avesse voluto agire il governo di Francia sarebbe stato costretto a richiamare il suo ambasciatore da Torino ed a troncare ogni relazione col gabinetto italiano. Cavour, forse sapendo qual conto doveva fare di tali proteste, non se ne diede pensiero, e i preparativi per la guerra continuarono a farsi colla massima celerità.

LV.— Quando il tempo, che tutto trasforma o modifica, avrà spento gli amori e le ire, attutito le gelosie degl’interessi e calmato l’effervescenza e il bollore delle attuali passioni, lo storico, a cui saranno aperti i diplomatici archivi, consultando i dispacci e gli atti verrà a farsi chiara ragione degli avvenimenti che a noi contemporanei paiono poco meno che enigmi. I posteri potranno esaminare e conoscere a fondo le cause e gli effetti che condussero a ciò che a noi sembra contraddizione e sofisma. Posti in troppa vicinanza dei fatti a noi non resta che l’aiuto della nostra ragione, mercé la quale dobbiamo fondare su dati ipotetici il nostro giudizio ed indovinare, per così dire, la verità traverso errori infiniti. L’intima ragione delle cose si rivela egli è vero dal complesso dei medesimi fatti ed offre circostanze e dati sufficienti a formulare e a stabilire un giudizio spassionato e sincero: ma è necessario che fautore e il lettore adoperino del pari tutto l’acume ad intravederla e a comprenderla. Se a noi fosse dato consultare i documenti secreti della diplomazia diverrebbe realtà ciò che per noi è soltanto un sospetto $ che cioè Napoleone e Cavour, malgrado la forza delle proteste, operarono di pieno concerto ed accordo.

LVI.— I tempi difetti ingrossavano, e stata sarebbe suprema follia differire per vani rispetti 0 paure, o titubare più oltre: l’interesse del governo e quello del principio monarchico esigevano si prendesse al più presto una decisiva risoluzione. Avesse il conte Cavour protratto di pochi giorni l’apertura delle ostilità, le squadre rivoluzionarie, valicando il confine napoletano, avrebbero posta l’intiera penisola in fiamme. E l’Inghilterra, a cui sopratutto premeva di rimandare ad altro tempo la guerra coll’Austria, si dava la massima briga a persuadere il gabinetto italiano della necessità di prevenirla sotto le mura di Perugia e Spoleto. Discusse impertanto in Consiglio dei ministri e stabilite le basi della nuova campagna, Fanti lasciava Torino recandosi alla Cattolica a porsi alla testa dell’armata d’operazione.

LVII.— Le truppe scaglionate lungo la linea del Po e nelle città dell’Emilia andavansi frattanto concentrando verso il confine delle Marche. Verso il principiar di settembre il quarto e il quinto corpo d’armata rinforzati da alcuni distaccamenti schieravansi lungo il confine da Arezzo alla Cattolica. Contemporaneamente parte della flotta salpava da Genova sotto gli ordini del contr’ ammiraglio Persano, seco portando un piccolo parco d’assedio alla volta d’Ancona. In tutto le forze di terra e di mare impiegate nell’Italia centrale sommavano a non meno di quarantamila soldati.

LVIII.— Il 9 settembre il ministro Fanti inviava al generale pontificio una lettera del seguente tenore: aver egli assunto per ordine di Sua Maestà il comando dell’esercito concentrato sulle frontiere italiane ad oggetto di proteggere le popolazioni dalle insolenze dei mercenarii papali. In conseguenza avrebb’egli militarmente occupato l’Umbria e le Marche ogni qual volta le truppe pontificie usassero della forza per comprimere i sentimenti nazionali dei popoli, odavvenendo una manifestazione in senso nazionale, i soldati papali non si ritirassero e non lasciassero gli abitanti liberamente pronunziare ed esprimere i loro voti. La presenza de’ soldati stranieri essere continuo fomite di malcontento e disordine, nonr solo nelle provincie in tal guisa compresse, ma eziandio nei paesi soggetti al governo italiano. Accettasse il generale Lamoricière le sue proposizioni e risparmiasse ali Umbria e alle Marche la protezione delle armi piemontesi e i disastri che potean derivarne.

LIX.— Lamoricière rispondeva con un aperto rifiuto e dichiaravasi pronto a difendere le provincie al cui comando era stato elevato. Per vero egli non poteva altrimenti rispondere: l’onor militare, la fama delle antiche sue gesta, gli vietavano di accondiscendere a proposizioni che nessun generale o ministro avrebbe potuto senz’onta accettare. La lotta alla quale accingevasi doveva essere senza dubbio fatale per lui: ma in ogni modo era mestieri combattere e tentare la sorte delle armi. La politica ostinata della Corte Romana aveva così stabilito: ed il suo generale, esponendosi a certa sconfitta, ne seguiva fedelmente le traccie e le massime.

LX.— Del resto, malgrado le vociferazioni del volgo, nulla ancora sapevasi del come si sarebbe comportata l’armata francese qualora i piemontesi od i garibaldini avessero violato i confini delle pontificali provincie. Un dispaccio del cardinale Antonelli mostrava credere che il presidio risiedente in Roma avrebbe preso le armi e respinto gli aggressori: e a tal uopo supponevasi l’esercito di occupazione ultimamente aumentato di forze. Il prospetto di si valido aiuto contribuiva senza dubbio ad elevare l’ardore guerriero del Lamoricière ed a predisporlo a valida e disperata resistenza. Dall’altro canto, malgrado le minaccio, non egli poteva persuadersi che le truppe del governo italiano, sottoposte alle tergiversazioni della diplomazia, avrebbero osato uscire dai loro confini. Lamoricière calcolava sulla prudenza o sulle vane paure del conte Cavour, il quale nulla avrebbe intrapreso senza il beneplacito o contro l’espresso volere dell’augusto allealo. Non era presumibile che ove la diplomazia della Francia avesse apertamente vietato ai Sardi d’invadere l’Umbria, il conte Cavour si fosse lasciato indurre ad infrangere il temuto comando.

LXI.— Pochi giorni bastarono a troncare siffatte illusioni: e il Lamoricière, benché tardi, s’accorse che la Francia non intendeva per nulla impedire, né il governo italiano abbandonare, l’impresa. L’esercito sardo diviso in due corpi occupava a sinistra la Cattolica ed a destra la città importante d’Arezzo, ove Fanti teneva il suo quartier generale. L’Umbria e le Marchesi trovavano’ impértanto investite da due lati ad un tempo, ed in pericolo d’essere invase e percorse prima ancora che il generale pontificio potesse pensare a difenderle. Le truppe italiane stendevansi in semicerchio lungo il confine dalle frontiere toscane alle spiaggie del mare Adriatico, dalle vicinanze di Fiori alle colline di Pesaro.

LXII.— Il 9 settembre Fanti accingevasi a passare il confine, e con suo ordine del giorno annunciava ai soldati l’intenzione d’intervenire nelle provincie papali all’ine di ricondurvi la pace e la tranquillità. Il giorno seguente, mentre stava per mettersi in marcia, dichiarava sul piede di guerra lo; truppe dell’esercito attivo concentrate intorno alle frontiere papali. Simultaneamente il comandante il quarto corpo d’armata generale Enrico Cialdini emanava dalla sua residenza di Rimini un ordine del giorno che potea considerarsi il manifesto della insurrezione e della guerra. Quell’ordine del giorno appare mirabilmente ispirato all’eloquenza del campo e deve aver suscitato la più viva impressione nel cuor dei soldati. In esso è detto senz’ambagi o reticenze com’egli intendeva condurli contro una masnada di prepotenti sicarii, cui sete d’oro e saccheggio avea tratto nelle belle provincie italiane. In tal modo disposte le cose ed apparecchiato l’animo dei militi alla prossima lotta i generali Fanti e Cialdini contemporaneamente lasciarono i loro quartieri di Arezzo e di Rimini, dirigendosi questi su Urbino e su Pesaro e quegli sulla Fratta e Perugia (247). Quello che stato non era concesso di fare a Zambianchi, a Pianciani e a Nicotera e che s’aveva attirato il biasimo e la condanna della consorteria moderata veniva in tal modo intrapreso dal conte Cavour ed approvato o tollerato dallo stesso Napoleone: a tale condussero le recenti vittorie dei Mille ed i fatti di Napoli.

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