LA SPEDIZIONE DEI MILLE-STORIA DOCUMENTATA DELLA LIBERAZIONE DELLA BASSA ITALIA DI OSVALDO PERINI ESULE VENETO

Analizzando, leggendo o semplicemente sfogliando decine di testi cartacei o in formato elettronico di pubblico dominio, ho constatato che nei primissimi anni post-unitari brandelli di verità o comunque una serie di informazioni interessanti si trovano anche nei libri scritti da liberali e da oppositori politici dei borboni.
La narrazione di Perini (1) offre una grande quantità di materiale e per questo la sua opera merita attenzione. Non possiamo affermarlo con certezza ma ci pare che le sue pagine inerenti la camorra siano state ampiamente saccheggiate da Monnier.
Dopo la promulgazione della legge Pica le posizioni si radicalizzano e la narrazione dei fatti inerenti le Provincie Napolitane diviene ancor più partigiana di prima. Si va verso quella santificazione del processo risorgimentale, anche la fine di creare un sentimento nazionale, un tentativo che trova il suo culmine in Crispi, un siciliano.
Dans cette entreprise de «nationalisation» des Italiens et d’enracinement du culte de la monarchie, de la nation, de la patrie, l’historiographie commence depuis quelques années seulement à étudier non plus seulement l’opposition au régime (républicains, mazziniens, socialistes etc) mais à tenter d’évaluer le travail mené par la classe dirigeante, accordant à l’œuvre de Crispi et à sa tentative de valoriser une «monarchia nazional-popolare» une importance particulière.
Il apparaît clairement que de nombreux obstacles se sont dressés face à cette entreprise, dont les résultats ne semblent pas concluants. Absence d’intérêt pour les masses, autoreprésentation froide, rhétorique et pédagogique de la classe dirigeante, absence d’enthousiasme et de participation; bref, autant d’élèments qui laissent entr’apercevoir plutôt une religion civile destinée aux élites qu’une pédagogie de masse susceptible de provoquer dévotion et attachement à la patrie. (2)
Il tentativo non riusci. La separazione operata dalla guerra civile (brigantaggio), che per alcuni anni insanguinò le Provincie Napolitane, era divenuta insuperabile e nessuna civil religion avrebbe potuto amalgamare le due Italie che si erano contrapposte armi alla mano.
Buona lettura e tornate a trovarci
Zenone di Elea – 7 gennaio 2025
(1) Alcune notizie sull’autore le abbiamo trovate in: “Osvaldo Perini: l’irriducibile. Della “Gazzetta di Verona”, dell’ “Alleanza e dell’editore Civelli di Claudio Gallo & Giuseppe Bonomi.
(2) B La «religion civile» dans l’Italie libérale (1860-1922). Premières approches [article] Catherine Brice Publications de l’École Française de Rome Année 2000 273 pp. 383-392. Fait partie d’un numéro thématique: Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques).
DICHIARAZIONE PRELIMINARE
É antica sentenza e generalmente adottata che vera storia non possa descriversi laddove la troppa vicinanza, o direm quasi, contemporaneità degli avvenimenti esercita una eccessiva influenza sui giudizii e sulle idee dell’autore. Per certo ella è cosa ben ardua nel bollore delle passioni e nell’agitarsi delle controversie politiche serbare un contegno freddo, dignitoso, imparziale. L’anima umana è così per natura costituita che non le è dato rimanere spettatrice inattiva in presenza d’una lotta qualsiasi, perocché un sentimento involontario di simpatia o d’avversione la trascina sempre e suo malgrado a preferire od a disapprovare l’una o l’altra delle cause in conflitto. Di qui avviene che il giudizio di due o più narratori d’un dato avvenimento giammai non si trova uniforme, essendo gli uomini per natura portati a mostrare le cose nel modo che più si conforma alle idee ed abitudini loro. Ma questo sentimento medesimo di simpatia od antipatia che determina i nostri giudizii sui fatti attuali esercita egli forse un’influenza minore nella disamina degli avvenimenti passati?
Dall’altra parte, se é cosa tanto difficile descrivere con fedeltà ed imparzialità gli avvenimenti, presenti come potremo noi lusingarci di conoscere ciò che accadde gli anni ed i secoli addietro? Egli è pur forza che lo scrittore che s’accinge a narrare una serie qualunque di falli si rapporti al giudizio dei contemporanei, giacché del passato non serberemmo memoria se non ci venisse tramandata dai nostri maggiori. Ora, se nei racconti di cose attuali non ci è dato mantenere quella fedeltà ed esattezza che in una storia precipuamente richieggonsi, come potranno gli autori avvenire, che pure dovranno servirsi delle memorie lasciate da noi, raggiungere il fine che alla storia è proposto? Delle due l’una: od è mestieri rassegnarci a nutrire un po’ di fiducia per gli scrittori de’ fatti attuali o devesi eziandio dubitare dell’autorità degli storici antichi, giacché le difficoltà che per narrare con verità ed esattezza gli avvenimenti vuoi passati o moderni sono comuni, generali ed inesorabili. In ogni caso l’ufficio nostro, vogliasi di cronisti o di storici, è necessario, come quello almeno che deve servire di luce e di guida agli scrittori che verranno. Senza punto decidere della validità delle suesposte teorie intendiamo offerire ai lettori benevoli questo nostro libro lasciandone ad essi libero il giudizio.
Abbiamo intrapreso la storia d’una gloriosa e brillante campagna, dal mondo intiero osservala, conosciuta, applaudita. Oseremo noi sperare che la nostra narrazione combini colle idee che i lettori se ne sono formati? Spingeremo noi la bonarietà fino a lusingarci di avere accontentato tutte le esigenze di quanti v’ebbero parte? Presumeremo noi credere che i nostri giudizii si conformino col criterio altrui, o per lo meno col criterio dei più?
Estraneo egualmente ai due partiti che si attribuiscono il merito delle glorie recenti, l’autore ha l’audacia di credersi giudice competente ed abbastanza imparziale delle pretensioni d’entrambi. Non appartenendo a nessuna consorteria, né mai avendo incensato i semidei del potere né gl’idoli dai piedi di creta che di quando in quando compaiono sulla scena politica, l’autore serberà nel suo racconto la stessa fredda riservatezza ed indipendenza che l’hanno tenuto mai sempre discosto dalle discussioni politiche, e dagli amori e dagli odii di parte. Se l’indipendenza personale basta a conciliar la fiducia dei lettori egli è certo che il suo libro verrà accolto con favorevole aspetto. Frattanto ci conforta il pensiero di non avere ommesso ricerca né fatica per rintracciare la verità e per adempiere il dover nostro di storici, o vogliasi pur di cronisti, fedell’ed esatti. Pure se talvolta siam caduti in errore non fu colpa del nostro volere ma effetto dell’impossibilità nostra o della nostra ignoranza.
Milano, 1.° marzo 1861
LIBRO I
INSURREZIONE DELL’APRILE
I. — Dirò come pochi volontari, usciti da libero porto e dopo una fortunosa navigazione di più giorni traverso le crociere nemiche felicemente approdati alle spiagge Siciliane, sconfissero intieri eserciti, ridonarono a libertà numerose provincie e snidarono dall’antico suo covo un’odiosa tirannide. Descriverò le gesta luminose d’un Eroe il cui nome risveglia in Europa i più vivi sentimenti di simpatia e di ammirazione, e che la patria riconoscente saluta col titolo di padre e ristauratore della libertà italiana. Descriverò le sostenute fatiche e i pericoli corsi, i piani abilmente tracciati, le battaglie ferocemente combattute e le vittorie gloriosamente acquistate. Avvenimenti memorandi e straordinarii a’ quali, se non fossero compiuti a’ nostri tempi e davanti agli occhi nostri, lo storico non oserebbe prestare credenza: avvenimenti al cui paragone s’ecclissano le glorie dell’Età favolosa ed eroica. Se non che la gravitàdella storia mai risponde all’intento di celebrare uomini e fatti a cui appena potrebbe bastare la magniloquenza dell’epopea.
II.— Durante la campagna lombarda la Bassa Italia pareva dormire in profondissimo sonno, in una dolorosa e letale apatia. Mentre il siciliano La Farina trovava nelle valli del Po e dell’Arno migliaia e milioni di adepti alla grande cospirazione unitaria, la sua voce non giungeva a risvegliare un eco su quelle ardenti regioni: e mentre dalla Toscana, dalle Romagne e dal Lombardo-Veneto la gioventù in folla accorreva ad aumentare le file dell’esercito liberatore, da Napoli e dalla Sicilia nessuno veniva o pochissimi. Molti già biasimavano l’incomprensibile indifferenza politica de’ nostri fratelli meridionali, e molti disperavano dell’avvenire di quella eletta parte d’Italia. Ma quello per avventura non era già il sonno della morte, bensì il riposo del leone che raccoglie le forze attendendo l’ora dei vicini cimenti. Le insurrezioni dei popoli presentano un carattere cosi spontaneo ed in pari tempo cosi fatale che a definirlo non valgono né i raziocinii del filosofo, né le previsioni dell’uomo politico: come nessuna forza umana potrebbe impedirle o sospenderle, cosi nessuno varrebbe a determinarne od accelerarne lo scoppio.
III. —Nelle Due Sicilie il liberalismo, trionfante a Magenta e Solferino, dormiva infatti il suo ultimo sonno. Ciò che non potè il La Farina, malgrado la vantata sua cospirazione, lo fece il tempo e la maturità degli eventi. Oggi, dopo alcuni mesi di lotte accanite e dopo mille prove d’incredibile virtù ed audacia, il vessillo nazionale sventola dalle torri di Palermo e di Napoli; e questo è il risultato di vaste complicazioni politiche di cui il La Farina e gli altri settarii invano vorrebbero farsene un merito.
IV. —Già fino dagli ultimi giorni di Ferdinando a manifesti segni appariva che per tardare la rivoluzione non si rendeva che più inevitabile. Il malcontento era generale nel Regno, e il desiderio di farla finita coll’eterno alleato dell’Austria bolliva nel petto di tutti. Non era necessario che i cospiratori all’estero si addossassero il mandato d’insegnare agli oppressi che avevano una patria a redimere e la libertà a conquistare: all’uopo bastava la cieca tirannia d’una corte senza religione né fede. Le Calabrie, antico vivaio di volontari, sordamente fremevano:, gli Abbrnzzi agitatissimi; la Basilicata, la terra di Lavoro e la stessa capitale mostrava un aspetto minaccioso e terribile: e le provincie al di là del Faro, che più di tutte le altre ebbero a soffrire del feroce dispotismo Borbonico, più che tutte l’altre anelavano alla nazionale vendetta. I tentativi di Pisacane e di Bentivegna aveano fallito, colpa de’ tempi piuttosto che del volere dei popoli: ma il sangue loro santificava l’esecrazione generale del nome e del dominio borbonico e preparava in silenzio la redenzione della terra natale.
V. —Francesco II, educato dai Gesuiti alla vecchia scuola della Santa Alleanza, saliva al trono nel momento, per la sua dinastia, più solenne e più critico: perciò era l’uomo men proprio a scongiurare la vicina e fremente procella. La buona stella d’Italia sull’orizzonte spargeva il più vivo splendore: la politica antinazionale e feroce della Santa Alleanza s’avvicinava al suo termine. Bisognava abbandonare i vecchi pregiudizii ed errori, romperla apertamente col passato e gettarsi con fiducia e fermezza in balia dell’avvenire: bisognava rinnegare gli antichi principii e senza esitazione e timore adottare le idee della nazione. Ma per far ciò era mestieri d’un altro uomo e ben altrimenti educato che non è Francesco Borbone. Nell’alta Italia il grido d’indipendenza veniva accolto con universale entusiasmo: nel centro e nel mezzodì della Penisola la tensione degli spiriti da un istante all’altro minacciava venire ad un’aperta sommossa. Al giovane Re non rimaneva che la doppia alternativa o di confederarsi coll’Austria e giuocare il tutto pel tutto, oppure, e stato sarebbe il suo meglio, abbracciare francamente la causa della indipendenza nazionale, accordare ai suoi popoli una moderata libertà e congiungere le sue armi agli eserciti di Francia e Piemonte. Delle due egli non seppe scegliere né l’una né l’altra: preferì le mezze misure, quelle che sempre conducono a rovina i governi ed i Regni. Nella guerra rimase neutrale; e mentre da una parte cercava di blandire i suoi popoli con vane promesse e lusinghe, dall’altra stendeva di soppiatto la mano fraterna ai marescialli dell’Austria, ai cardinali, ai sanfedisti, a tutti i campioni d’una causa perduta. Non seppe essere né francamente reazionario né onestamente liberale, e s’acquistò per tal guisa l”odio e l’avversione delle due parti belligeranti. Ciò nulla meno è d’uopo confessare che la politica da Francesco II adottata, comeché rovinosa ed assurda, era forse la sola che si conveniva alla falsa sua posizione. Chiunque in que’ giorni avrebbe previsto che stringersi in alleanza coll’Austria valeva quanto esporsi ad una certa catastrofe. Né quand’anche si fosse messo a fare il liberale, aveavi probabilità che gl’Italiani prestassero fede alle sue dichiarazioni, ed a’ suoi giuramenti. È troppo viva nel cuore di tutti la memoria del come i Borboni sappiano mantenerle promesse che l’infuriar del pericolo strappa loro dal labbro. Le sue concessioni potevano sembrare ispirate dal terrore più che dal desiderio di soddisfare i legittimi voti de’ popoli. Forse delle concessioni medesime il paese giovato sarebbesi a sottrarsi dal lungo servaggio. Il popolo dovea diffidare del Re come il Re diffidava del popolo: erano due principii, l’uno a fronte dell’altro, fra i quali ogni accordo diveniva impossibile. Singolare sventura di Principi che dopo quasi due secoli di dominio non seppero cattivarsi la simpatia né la fiducia dei sudditi!
VI.— La verità di tali riflessioni risulta dal fatto che sebbene il governo di Napoli si mantenesse durante la guerra lombarda, neutrale, quella neutralità aveva un non so che di involontario e forzato che traspariva allo sguardo di tutti. E come non è a farsi illusione sulle vere tendenze della Corte borbonica, così si può credere che non siasi regolato in tal guisa per solo amore di tranquillità e di pace. Fu il timore d’interne complicazioni che lo distolse dal porsi coi nemici d’Italia: gli avvenimenti posteriori irrefragabilmente lo affermano. Venne diffatti il momento che il re Francesco pareva piegare a sentimenti guerreschi (1):, allarmato in vedere le idee nazionali propagarsi verso il centro ed il sud della penisola, ed invitato dalla Corte di Roma, concentrava negli Abbruzzi un forte nerbo di truppe, senza dubbio allo scopo di congiungersi col generale Lamoricière e tentare la riconquista delle pontificie Legazioni. Pare che animate trattative abbiano avuto luogo su tale oggetto tra le Corti di Roma e di Napoli, forse d’accordo con un’altra Potenza interessata a porre lo scompiglio nelle cose italiane. Ponendosi mente al linguaggio tenuto sul cominciar di quest’anno dai giornali o italiani o stranieri, sembra indubitabile che l’occupazione delle Marche e dell’Umbria fosse l’occulto pensiero del governo siciliano. Eppure, trascorsi appena due mesi, quell’esercito stesso che doveva riacquistare le Legazioni al Pontefice, non bastava a difendere la corona del proprio principe!
VII.— Malgrado però le vociferazioni del giornalismo ignoravasi qual fosse in Napoli il vero stato delle cose. Il primo segno di vita dato dal liberalismo partenopeo fu un’offerta in danaro pel milione di fucili-Garibaldi, alla quale offerta il generale rispose con una lettera (2) che può ritenersi come l’ordine del giorno dell’insurrezione. Sembra che in que’ giorni il malcontento popolare avesse preso delle proporzioni ben gravi, mentre con inusitata insistenza a parlar cominciavasi di riforme e concessioni importanti. Le dicerie dei giornali, comeché contraddittorie talora ed assurde, erano ciò nullameno un manifesto sintomo di politici vicini sconvolgimenti. Il governo poggiava sopra un vulcano e la sua durata si faceva ogni di più precaria e difficile, talmente che la Corte si vide costretta a richiamare le truppe dagli Abbruzzi per averle pronte ad ogni emergenza. In Napoli era tutto confusione e disordine, e la perplessità e firresolulezza della Corte, sollevando le speranze e diminuendo le apprensioni dei liberali, concorreva essa pure a precipitare gli avvenimenti. Con tutto ciò l’insurrezione, sebben pronta a scoppiare, avrebbe forse tardato senza l’intervento di alcuni esuli che volonterosi accorsero a porre il fuoco alla mina di già preparata.
VIII. —Il pensiero d’una spedizione in Sicilia non era già nuovo come potrebbe supporsi. Nei giorni medesimi che a Villafranca segnavasi l’armistizio coll’Austria, alcuni patriotti radunatisi in Lugano formarono il progetto di recarsi in Sicilia a suscitarvi la rivoluzione. Era fra questi Rosolino Pilo dei Conti Capece, siciliano, antico soldato di libertà ed esule dal 1849. In quel convegno molto si parlò e si discusse, ma per allora il piano non ebbe alcun seguito, essendo gli animi troppo preoccupati dei fatti recenti per rivolgere l’attenzione alle cose di Napoli. Ma quel primo pensiero non fu dimenticato: un eroe lo raccolse e riuscì ad attuarlo. Il 22 marzo del 1860 anniversario d’una fra le più memorande glorie italiane, Rosolino Pilo con un solo compagno salpava dal porto di Genova e si recò in Sicilia a cercarvi la libertà ed una morte onorata.
IX. —In Sicilia trovò gli animi già pronti per un movimento rivoluzionario. Il giovine Re di Napoli non era punto migliore de’ ‘suoi predecessori. I suoi Luogotenenti, investiti d’un’autorità senza controllo, malmenavano quelle povere provincie nel modo il più iniquo e più barbaro. A misura che il malcontento generale aumentava la polizia più inferociva èd aggiungeva esca all’incendio che stava per divampare più tremendo che mai. La pazienza del popolo giunta all’estremo, tutti sentivano ch’era forza farla finita con un governo che per libidine di potenza calpestava i diritti, le leggi, e sino la propria sua dignità. Nelle città principali dell’Isola il fiore della popolazione, raccolto in secrete conventicole, divisava i mezzi per sottrarre il paese alla esecranda barbarie borbonica. Pure procrastinavasi sempre, temendo che un movimento troppo precipitoso facesse sventare il piano tracciato e ripiombasse l’Isola negli antichi suoi ceppi. Per buona ventura la polizia medesima sussunse il difficile compito di dare il segnale dell’armi.
X. —La vigile e cupa polizia di Maniscalco stava già in Palermo sulle traccie della vasta congiura, e i cittadini più noti per alto e liberale sentire erano, per ordine d’un cieco ed imprevidente governo, tenuti di vista e spiati co’ modi i più vessatomi ed inurbani. E mentre ad iscongiurare la vicina procella non più facile né miglior via rimaneva che accedere ai legittimi voti delle popolazioni, la Corte di Napoli, accecata nei suoi veri interessi, preferì usare la prepotenza e la forza, e in tal guisa, provocando lo scoppio dell’ira comune, parve cospirare per la propria rovina. Perseguitate ne’ pubblici convegni e tra le pareti domestiche le adunanze patriottiche tenevansi frequenti in luoghi appartati e remoti, per lo più appartenenti alle diverse comunità religiose di cui la Sicilia ha tanta dovizia. All’ombra dell’Altare e del Chiostro, e ne solitari recessi dalla pietà dei fedell’consacrati ai misteri della religione, la libertà proscritta e condannata trovava in tal modo sicurezza ed asilo. Quei luoghi stessi, che altrove costituiscono altrettanti focolari d’arti e maneggi a favore dei governi dispotici, divenivano nella Sicilia quasi nidi di congiurati e rivoluzionarii. E i frati ed i sacerdoti, che scagliano altrove l’anatema sulle idee di patria e nazione, benedicevano in Sicilia agli sforzi dei patriotti, cooperavano al nazionale riscatto e santificavano la rivolta.
XI.— Francesco Riso, giovane dotato d’un’anima generosa ed ardente, concepì il pensiero di riannodare le sparse fila della cospirazione nascente affine d’imprimerle un moto regolare ed uniforme. A tale oggetto prese dai Padri Minori Osservanti del convento della Gancia, situato all’estremità nord-ovest di Palermo, in affitto una casa la quale diventava in appresso l’arsenale ed il seggio dalla rivoluzione. E la gioventù liberale di Palermo e dei paesi circonvicini radunavasi nascostamente alla Gancia ove tenevasi quasi in permanenza a discutere, a stabilire ed apparecchiare i mezzi per una decisiva esplosione. I Padri stessi non rifiutavano far parte della cospirazione e vi si facevano rimarcare per la loro assiduità ed energia. Colà raccoglievansi armi e munizioni, di là si mandavano proclami ed avvisi per tutta l’Isola, cosicché per ogni rapporto il convento della Gancia poteva considerarsi come il quartier generale della insurrezione Siciliana.
XII.— Ma volle fortuna o il perverso destino che fra que’ Padri, cotanto benemeriti della libertà e sì entusiasti amatori del nazionale riscatto, si trovasse un traditore, un Giuda, che dovesse venderli alla polizia del feroce Maniscalco. È voce generale in Palermo che l’autore dell’infame tradimento fosse appunto uno dei frati della Gancia. Per sua ventura il nome del vile è rimasto un secreto, cosicché la storia narrando l’orribile avvenimento non. è obbligata ad arrossire per dover imprimere il marchio del traditore sopra una fronte italiana.
XIII— La notte del 4 al 5 aprile 1860, era memorabile poiché da essa data il principio della emancipazione della Bassa Italia, grosse schiere di soldati e di sgherri capitanate da Maniscalco in persona tacitamente movevano a circondare il convento della Gancia e le abitazioni contigue, mentre appunto i cospiratori sedevano a consiglio e l’adunanza era più che mai numerosa. Assicuratosi che tutte le uscite fossero chiuse e guardate, e persuaso che nessuno oggimai potesse sfuggirli di mano, lo sgherro borbonico intimò ai liberali d’aprire e d’arrendersi. Colti all’improvviso i generosi si vider perduti: nell’interno per un istante fu tutto confusione e disordine, e come spesso avviene ne’ casi più gravi che gli uomini smarriscono la coscienza del sovrastante pericolo, alcuni rassegnati ad una morte che parca inevitabile stavano già per sottoporsi alle intimazioni del feroce sicario, quando il giovane Riso con poche ed energiche parole infuse negli animi l’audacia perduta. Ogni via di salvezza era chiusa: una fitta selva di baionette circondava il vicinato: la congiura era scoperta ed il nemico assetato di vendetta e di strage. Non era a credersi che lo sgherro di Francesco Borbone volesse sotto qualunque pretesto lasciarsi sfuggire di mano le sue vittime. Impossibile era il fuggire e certa la morte: trattavasi solo di scegliere fra i due mali, o di lasciarsi tranquillamente sgozzare dagli sgherri della polizia o di perir combattendo almen vendicati. Di più eransi radunati in quel luogo appartato per deliberare sui mezzi di combattere e di vincere; né aveano essi aderito alla cospirazione se non nell’intento di farsene poscia i soldati. Inoltre, giacche la lotta diveniva di giorno in giorno più certa e vicina e la necessità imponeva che sfaccettasse la battaglia che presentavasi ancorché sotto auspicii non lieti, stata sarebbe inescusabile viltà declinare l’attacco. Forse il remore della zuffa poteva ridestare in Palermo ed in tutta l’Is Ja un incendio che tutte le forze borboniche non avrebbero poi saputo spegnere. Per tutte queste ragioni la difesa diveniva una necessità, e fu ben tosto di comune consenso abbracciata.
XIV.— Per somma ventura la casa, come sopra dicemmo, conteneva in gran copia armi e munizioni da guerra, statevi raccolte per la futura insurrezione di cui andavasi maturando il progetto, e poteva imperiamo porgere. i mezzi per una valida e lunga difesa. Dopo avere con poche ed acconcio parole ridestato il coraggio nelle anime dei compagni che l’improvviso terrore aveva prostrato, il giovane Riso si slanciò alla finestra intuonando con voce stentorea un evviva all’Italia, e spianò il fucile sulle masnade borboniche. Quel grido e lo scoppio della detonazione nel cupo silenzio della notte rimbombò con fracasso oltremodo terribile, ed annunciò ai Palermitani che il momento della pugna era finalmente venuto. Incontanente il grido di Morte ai Borboni eccheggiò nell’interno del vasto edificio e nel vicino convento, confuso colle imprecazioni dei poliziotti e dei soldati. Tutto ad un tratto la casa si trovò quasi involta in un globo di fiamme: un orribile fuoco di moschetteria cominciò egualmente sostenuto da ambe le parti. Le uscite dell’abitazione, già preventivamente chiuse e munite ad oggetto di sottrarsi ai pericolo d’una sorpresa, si rafforzarono in tutta fretta con nuove barricale: grosse travi, spranghe di ferro, casse, mobili ed utensili di casa, tutto fu posto a profitto. Quasi allo stesso punto la bandiera tricolore italiana sormontando la sommità dell’edificio sfidava la rabbia delle palle borboniche e ricolmava di ardire i patriotti. Nell’oscurità della notte il combattimento d’ambe le parti infieriva micidiale e terribile, e l’incertezza dell’esito pareva raddoppiare il furore degli assalitori e degli assaliti, 1 Borbonici però, essendo allo scoperto, erano eziandio più esposti alle offese, onde che dopo aver subite gravi perdite si trovarono costretti a piegare ed a retrocedere; ed i cittadini, fatti più arditi da quel primo vantaggio con inaudito valore li disfidavano. Accantonatisi nelle vicine abitazioni i Regii ricominciarono l’attacco più violento che mai, ed i cittadini dalle finestre e dai tetti con fuoco incessante rispondevano. La zuffa già prolungavasi senza che il nemico potesse ritrarne il benché minimo vantaggio; lo sgherro borboniano si avvide della difficoltà d’espugnare rediticio, di sua natura assai forte, ed inoltre cotanto validamente difeso. Ricorse allora ad altri mezzi per domare l’intrepido valore di quel pugno di patriotti: alcuni cannoni furono quindi puntati contro le porte e le massiccie muraglie della casa e del chiostro. Il cannone tuonò con ispaventevole rombo per alquanti minuti, quando le porte, svelte dai cardini loro e già scheggiale ed infrante, con orrendo fracasso piombarono al suolo. I Regii allora, sbucando da tutte le parti a passo di carica e sotto una grandine di palle, slanciavansi per la breccia già aperta, cercando penetrare nell’interno ed assalire i cittadini entro il recinto de’ loro ripari. Allora cominciò una scena indescrivibile. Il fuoco, anzi che rallentare, crebbe d’intensità e di ferocia, imperciocché gli assaliti, perduta ogni speranza di vittoria, combattevano col coraggio della disperazione. Barricati sulle scale, dietro le porte e per le camere e facendosi schermo di tutto e persino delle macerie delle muraglie cadenti in frantumi, sostenevano l’urto con una intrepidezza degna di migliori destini. Riescirono i Regii a penetrare nell’interno dell’edificio, ma ne furono tosto respinti. Il teatro dell’azione era ingombro di morti e morenti, liberali e reazionarii, cittadini e soldati confusamente caduti in una spaventosa comunanza di ferite e di strage. Se non che l’assalto, come che fatale agli assalitori, lo era assai più agli assaliti: il loro numero, di già sì esiguo, sempre più assottigliavasi: i cittadini erano per la maggior parte caduti, ed il furore e la sete di vendetta che animava i superstiti tenevano soli in sospeso l’esito finale dell immane massacro. Si dovettero espugnare ad una ad una le scale, le porte e le stanze dell’edificio, e quando i Regii se ne resero padroni il numero dei difensori si trovò ridotto a soli tredici. Stanchi e rifiniti dal lungo combattimento ed in maggior parte feriti, quegl’infelici furono facile preda dell’irrompente nemico. Soli e miseri avanzi d’un eroico drappello di prodi scamparono da una morte gloriosa, tanto più infelici poiché il vincitore spietato serbatali ad un fine ancor più miserando. Il giovane Riso era morto: i Borbonici sfogarono sull’esangue sua spoglia la loro brutale vendetta, ma il generoso fu abbastanza fortunato di sfuggire con una morte gloriosa all’ignominia d’una lenta agonia e del supplizio.
XV.— Orribili a dirsi sono le profanazioni a cui si abbandonarono i Regii dopo l’ingloriosa vittoria. La loro vandalica rabbia si sfogò col saccheggio e l’incendio; la casa e il convento furono posti a sacco ed a fuoco. Le impure mani degli sgherri, sotto gli occhi stessi di Maniscalco, s’impadronirono delle munizioni, delle armi, degli effetti dei Padri, degli abiti frateschi e dei sacri arredi custoditi nel chiostro pe’ servigi del culto. Le rovine della Gancia attestano al curioso visitatore qual sia la ferocia delle bande di sgherri che nella Bassa Italia dominavano in nome di Francesco II; Grave e disastroso avvenimento fu questo: ma fu ben anche il principio di una lotta gloriosa e della redenzione dell’Isola, poiché in quella notte fatale la rivoluzione di Sicilia fu cementata col sangue de’ più generosi suoi propugnatoci.
XVI.— L’avvenimento della Gancia, avvenuto cosi all’improvviso, pose nella città sulle prime la costernazione e il terrore. Il fulminare delle artiglierie gettò per un istante l’allarme e lo sgomento nella popolazione, ma ben tosto gli animi si ridestarono alle più vaghe speranze. L’esempio dei forti della Gancia non andò perduto: ché dopo quel primo movimento di sorpresa alla titubanza sottentrò la risolutezza, l’azione all’inerzia, l’audacia al timore. I cittadini affollavansi per le vie e sulle piazze, l’ansietà era estrema; si domandavano notizie e si trasmettevano con una rapidità sorprendente. Com’è natura delle moltitudini, di già invase dalla febbre rivoluzionaria, entusiasmarsi ed accendersi davanti al pericolo, così il rombo del cannone borbonico agiva su quella folla disordinata ispirandole un desiderio universale di guerra. Alcuni fra i capi del movimento (appartenenti essi pure al Comitato della Gancia, ma che per provvidenziale fortuna quella notte non vi si erano recati) scorta la favorevole disposizione degli animi pensarono di trarne profitto e confusi col popolo si studiarono di trascinarlo alle barricate. Le pattuglie nemiche che percorrei vano numerose la città vennero accolte con urli, e con fischi: dalle finestre d’alcune case comparvero bandiere tricolori al grido di Viva l’Italia e mille fiaccole uscirono a rompere le tenebre della notte. In alcuni punti fu tentata l’erezione delle barricate, mentre per tutta Palermo risuonavano voci frementi di guerra. Al sorgere dell’alba la città presentava un aspetto oltremodo minaccioso, e tutto annunciava vicina la grande battaglia del popolo, quando la catastrofe della Gancia narrata co’ sanguinosi suoi particolari e l’annuncio che la guarnigione del forte stava allestendo i cannoni per bombardare Palermo, intiepidì nuovamente il coraggio della folla. lì popolo si ricondusse triste e scorato alle sue abitazioni, ed i pochi generosi che tutto avean fatto per trascinarlo alla mischia, vedutisi abbandonati alla vendetta nemica, uscirono alla campagna ad ordinarvi le bande armate che furono in appresso sì fatali alla dominazione borbonica.
XVII.— Abbandonando Palermo gli ordinatori della insurrezione già, come sopra si disse, quasi per prodigio scampati al disastro della Gancia, si ripararono ne’ villaggi che sormontano i colli vicini. Volle fortuna propizia alle sorti italiane che la notte medesima, e prima che il nemico assaltasse la Gancia, fossero dal comitato colà residente diramati proclami ed ordini per sollecitare nell’Isola un pronto armamento. Que’ proclami e quelle esortazioni pervennero al loro destino, malgrado l’oculatezza della polizia. eì ottennero un pieno successo. Ordini consimili erano stati anteriormente comunicati alle città del centro e del litorale dell’Isola, e poich’era appunto fissato per l’universale insurrezione il giorno 5, così gli animi si trovavano di già apparecchiati alla lotta. La rivoluzione scoppiava allo stesso tempo a Caltanisetta, a Caltagirone, a Castrogiovanni, a Siracusa, a Trapani ed a Messina: ma fino al giorno 6 non oltrepassò le proporzioni di una vasta dimostrazione politica. Ma nei dintorni della capitale presentava un aspetto assai diverso: gli indirizzi del Comitato della Gancia misero in ebullizione le terre circostanti, cosicché la stessa notte numerose bande d’insorti s’avanzavano da tutte le parti ed avviluppavano la città da una rete di piccoli accampamenti. Le alture di Bagheria, di Monreale e San Lorenzo, alla distanza di poche miglia dalla città, formicolavano d’armati e costituivano quasi un triplice quartier generale della insurrezione. Colà rifugiaronsi i cittadini scampati dalla reazione che inferocivi a Palermo, e tosto si diedero a tracciare un piano d’attacco contro il vittorioso nemico.
XVIII.— Né i Borboniani in Palermo rimanevano già inoperosi. Il generale Salzano, comandante il presidio, fece incontanente armare i forti ed i pubblici stabilimenti occupati dalle truppe e minacciò la città di bombardamento al primo sintomo di nuove sommosse. Un proclama firmato dallo stesso Salzano comparve alla punta del giorno affisso ai canti di tutti i crocivii, col quale ponevasi la capitale in istato d’assedio. Neli interno della città le barricate erano già state prima di giorno distrutte: all’entusiasmo della notte era un’altra volta sotrentrato il disinganno e lo scoramento, e tutto annunciava che l’insurrezione era stata compressa. Numerose pattuglie coll’armi sul braccio in tutti i sensi la città percorrevano. I cittadini stavano rinchiusi nelle loro abitazioni, e benché il sole sorgesse non vedevasi aprire né una bottega né uno stabilimento pubblico: Palermo pareva un vasto accampamento militare. Tuttavolta i Borboniani nulla aveano di che insuperbire. Nell’interno della capitale dominavano coll’insolenza dei vincitori, ma la campagna era intanto perduta. Da tutte le parti pervenivano al generale novelle sempre più disastrose: gli insorti ingrossavano sino alle porte e minacciavano attaccare le truppe ne’ loro proprii trinceramenti. Avrebbe Salzano voluto uscire dalla città e sbaragliare gli insorti prima che s’afforzassero co’ nuovi vegnenti che dovean sopraggiungere dall’interno dell’Isola, ma temeva che abbandonando la capitale potesse questa dichiararsi per la rivoluzione e chiudergli a tergo le porte, locché sarebbe stata la sua rovina e quella dell’armata. Egli scelse impértanto rimanere in una completa inazione, pazientemente aspettando che gl’insorti venissero ad attaccarlo dietro il recinto delle militari difese di cui Palermo è oltremodo munita. Inoltre il generale, non certo senza ragione, dubitava del contegno che fuor delle mura avrebbero potuto i suoi soldati tenere, e temeva compromettere, avventurandosi in campo, e il proprio onore e la bandiera che aveva giuralo difendere. La Corte Borbonica, guidata dalla sua tradizionale abitudine, non considerava l’armata che come un sistema di polizia, mediante il quale potesse e bell’agio opprimere e frenare i suoi popoli, per cui, piuttosto che a formare dei buoni soldati, a fare mirava degli abili sgherri. Le truppe, non animate da sentimenti d’onore e di patria, non ordinate a difendere la nazione da un estero assalto, ma unicamente destinate a sostenere contro gli interni avversari un potere oppressivo ed ingiusto, appena potevano meritare il nome d’esercito. Di più negli ultimi tempi il governo, affine d’inasprire contro le popolazioni i soldati. ne uvea sguinzaglialo le più feroci passioni a scapito paranco del militare ordinamento. Cosicché all’avvicinarsi del pericolo si trovò per combattere l’insurrezione irrompente, non già un esercito agguerrito ed ordinato, ma una banda di sgherri indisciplinati, avidi solo di saccheggio e di strage, e tale che minacciava sfasciarsi al primo urto nemico. Il dispotismo rimase collo nelle proprie sue reti: avea creduto fondare la sua potenza sulla soppressione completa dei più nobili sentimenti che onorano fumana natura, e vi trovò la propria rovina.
XIX.— Né i direttori dell’insurrezione ignoravano punto questo stato di cose, né si fecero lungamente aspettare alle porte della vinta città. Riparatisi a Bagheria ed a Monreale s’affrettarono a raccogliere le bande di villici che sempre più ingrossavano dirigendole contro Palermo. Al levare del sole del giorno 5 numerose colonne d’insorti, armate alla meglio, ma ripiene di coraggio e baldanza e precedute dalla bandiera italiana s’avanzavano da più parti verso la capitale. Il pensiero dei condottieri non era tanto nello di assalire il nemico quanto di provocare con una dimostrazione armata l’insurrezione la nelle precedente abortita. Ma non per questo i Borboniani osarono uscir dalle porte: e solo una colonna di cittadini, avventuratasi troppo oltre, ebbe a sostenere al Piano dei Porazzi un attacco che durò circa un’ora e fini col ritiro della truppa.
XX.— Frattanto nuovi sciami d’armati discendevano dalle colline e dai vicini villaggi, e d’ogni parte Palermo già n’era investita. l’intiera mattina del 5 regnò nel presidio la massima costernazione. I Borboniani vincitori assediati vedevansi fra quelle mura orrendo teatro delle loro crudeltà, della loro ferocia: il superbo Salzano sentivasi oppresso dal proprio trionfo. Maniscalco aveva perduta la testa: la polizia aveva creduto soffocare l’insurrezione, mentre col fatto della Gancia non fece che accelerarne lo scoppio e renderla più generale e terribile. La campagna all’intorno era in balìa degli insorti, e rotta ogni comunicazione coll’interno dell’isola: la città, sebbene colpita di terrore, mostrava tuttavia un aspetto minaccioso ed altiero, e poteva da un istante all’altro risollevare le appena demolite barricate.
XXI.— Gli insorti frattanto percorrevano la campagna e sollevavano da per tutto lo stendardo della rivolta. Fatti baldanzosi e pel numero e per l’inazione dei Regii si avanzavano da tutte le parti e stringevano la città quasi in una cerchia di ferro: né i Borboniani per ciò si movevano. l’obbietto precipuo delle evoluzioni guerriere dei Siculi visibilmente appariva dei lor movimenti. I condottieri del popolo miravano ad attirare il nemico dan suoi trinceramenti, poiché speravano, troppa forse presumendo del valore delle masse insorgenti, poterlo in campo aperto facilmente sbaragliare e sconfiggere. Ma per quante provocazioni e minaccio tentassero il generale Salzano non ardì cangiare la sua risoluzione. Visti uscir vani tutti gli sforzi i capi del popolo si rivolsero ad altri spedienti: diedero tosto ordine di assaltare i mulini che forniscono alla città le farine, e distruggerli o romperli. Nel medesimo tempo ordinarono di rompere gli acquidotti che dalle vicine colline recano l’acqua a Palermo, affine di costringere col timore della sete e della fame il presidio borbonico ad avventurarsi in aperta campagna. I liberali erano persuasi che Salzano non avrebbe potuto rimaner spettatore tranquillo di quelle operazioni che potevano spargere nei soldati l’allarme e provocare la dissoluzione dell’armata, né in ciò s’ingannarono.
XXII.— Erano circa le tre ore del pomeriggio quando si divulgò per Palermo la voce della perdita dei mulini e degli acquidotti, e vi sparse un vero terrore. I soldati mormoravano contro il lor generale che lasciava in tal modo compiere un attentato che mirava ad affamare la città. Salzano istesso ne rimase colpito e tosto s’avvide essere pur cosa necessaria addivenire ad altre misure. Egli quindi parte delle truppe diresse fuor delle mura, coll’ordine però di non discostarsene, e le schierò nei piani vicini al pomerio in situazione vantaggiosa a difendere da ulteriori attacchi gli acquidotti e i mulini. Mandò al tempo stesso parte del genio, scortato da numerosa schiera, a riparare i guasti fattivi dagli insorgenti. Questi impértanto, ottenuto l’intento di sforzare i Borbonici ad uscir dalle mura, li assalirono con impeto grande, ma furon respinti. Una serie di piccoli combattimenti, senza risultato veruno, cominciò verso le ore 4 pomeridiane e durò fino a sera: le tenebre vennero poscia a dividere la mischia: i Borboniani si ritirarono nella città e gl’insorgenti nei vicini villaggi.
XXIII.— Qualche lieve vantaggio dalle truppe ottenuto la sera del 5 ne’ suddetti piccoli scontri, ne’ quali furono i cittadini, abbenché senza gravi perdite, reiteratamente respinti, rilevò l’ardore dei soldati Borbonici, già abbattuto ed affranto dagli avvenimenti di quella memoranda giornata. Il generale Salzano, volendo approfittar del momento, ordinò la stessa notte la formazione di una colonna mobile, e la diresse alla punta del giorno 6 verso le alture di San Lorenzo, dove per mezzo de’ suoi confidenti sapeva trovarsi accampato il nucleo principale degl’insorti. Questi, come accade sovente in un corpo non disciplinato né ordinato alle operazioni militari, stavano tranquillamente bivaccando nel villaggio, senza punto curarsi di fare una guardia conveniente. I Regii quindi favoriti dall’oscurità della notte e dalla negligenza dei cittadini, tacitamente avanzavansi e penetravano nel recinto delle abitazioni del paese, ed assaltavano all’improviso da tre lati diversi gl’insorti. Al tuonare della moschetteria i cittadini diedero di piglio alle armi e confusamente accorsero al luogo della mischia. Segui un combattimento sanguinoso e terribile, con gravi perdite dell’una parte e dell’altra, ma finalmente, oppressi dal valor personale più che dai movimenti strategici degl’insorti, I Borboniani furono costretti a voltare le spalle ed a fuggire ignominiosamente a Palermo in disordine.
XXIV.— Caduto quel primo tentativo Salzano adottò nuovi provvedimenti. Gl’insorti erano di gran lunga più numerosi di quello che dapprima credevasi, ma non sì bene armati e disciplinati da poter tener fronte all’intiero presidio Borbonico. Salzano pensò ad assicurarsi alle spalle la tranquillità di Palermo, per indi procedere con tutte le forze di che, poteva disporre contro i ribelli. Egli, forse non a torlo, credeva pervenir col terrore a conseguire l’intento: per il che nella notte del 6 al 7 aprile fece con grossa mano di soldati e di sgherri perquisire le abitazioni dei primari cittadini di Palermo e questi tradurre in arresto al castello. Quegl’infelici vennero per decine e centinaia sepolti ne’ sotterranei del forte Galita, affatto segregati dai viventi e quali ostaggi, mallevadori inconscii ed innocenti della fede vacillante de’ lor compaesani. Non è a descrivere quale desolazione invadesse l’afflittta Palermo al divulgarsi dell’orribile nuova: i popolani avvidero che privi de’ naturali lor condottieri nulla oggimai poteano tentare e si rassegnarono al loro perverso destino (3). In tal guisa il generale Salzano aveva momentaneamente raggiunto il suo fine.
XXV.— Incontanente, ciò fatto, rivolse il pensiero alla guerra. Ordinale le sue numerose milizie in colonne serrale e munite di artiglierie e di razzi, le scagliò successivamente contro i vicini villaggi ove stavano trincierati gl’insorti. La mattina dell’8 la prima di dette colonne scontrò alla Favorita un grosso distaccamento di volontari, co’ quali appiccò la battaglia. Dapprima i Borboniani ebbero a sostenere gravissime perdite e dovettero ritirarsi davanti all’impelo con cui gli insorti difendevano la lor posizione: ma bentosto soverchiandoli col peso del numero, ed avviluppandoli da tre lati ad un tempo, giunsero a snidameli. I popolani si ritrassero in ordine davanti le preponderanti forze nemiche e ripararonsi sull’erte e selvose pendici dei colli vicini, abbandonando al nemico ben anco il villaggio di San Lorenzo, obbietto principale della spedizione dei Regii. Questi entrati in San Lorenzo, sebbene indifeso il trovassero, lo posero a sacco ed a fuoco. Il furore dei soldati borbonici principalmente volgeasi contro le proprietà del convento dei Minori Osservanti della Gancia, da essi creduto causa efficiente e precipua della insurrezione dell’Isola. Le case appartenenti all’abate furono ridotte ad un mucchio di rottami e di ceneri, e le campagne devastate e distrutte: e quand’essi ritiraronsi il villaggio presentava un aspetto di nudità e desolazione come se non soldati italiani ma orde di vandali vi fosser passate.
XXVI.— Un’altra colonna borbonica spintasi fino ai colli, che dal mezzogiorno al levante cingono la capitale ed il porto, li percorse in gran parte con marcia incruenta, dappoiché i volontari li avevano abbandonati alle rapine nemiche. Ma que’ valorosi eroi del saccheggio non voleano ritirarsi senza vittoria né senza bottino; ondeché, non incontrando nemico veruno, assalirono i cascinali isolati e le ville, siccome già Don Chisciotte il quale appiccava la zuffa co’ mulini a vento imaginando che fosser giganti. Su que1 colli maestosi ed ameni si elevano le splendide villeggiature dei ricchi Palermitani, decorate di superbi edifici, di giardini e di selve, che ne rendono oltremodo gradito e piacevole l’estivo soggiorno. Quanto Parte può aggiunger di pregio alla lussureggiante e spontanea ricchezza del suolo v’era a piene mani profuso: l’amenità naturale del clima, la fertilità dei terreni e gli sforzi incessanti di più generazioni ne avean fatto un Eden di piaceri e delizie. Là i Borboniani sfogarono la feroce lor rabbia: poche ore bastarono a cangiare quell’ameno soggiorno in un deserto coperto di distruzione e rovine. Il guasto recato da quell’orda vandalica fu tale che il segno delle devastazioni borboniche vi rimarrà incancellato per molti e molti anni. Spogliarono le ville degli arredi preziosi e di tutto quello che all’avidità dei soldati poteva sembrare oggetto di lucro, e ciò che non poterono asportare o incendiarono o infransero. Ritornarono quindi in Palermo superbi e trionfanti come se fugata avessero l’intiera oste nemica, e tentarono giustificare i lor ladroneggi dando a credere d’aver dovuto espugnare le ville medesime difese dagli insorti che vi sperano accampati.
Ridicoli pretesti e menzogne che ormai, non ingannavan nessuno (4).
XXVII. Altre spedizioni in diversi punti delle circostanti colline sortirono il giorno dopo il medesimo effetto. Ma l’11 successivo le truppe furono dirette contro la borgata di Misilmeri, posta sulle rive del mare, dove i volontari pretendevansi in gran numero concentrati e muniti. Due vapori napoletani da guerra ricevettero contemporaneamente l’ordine di recarsi, radendo la costa, a tiro di cannone dalla stessa borgata e di appoggiare energicamente le operazioni dell’armata terrestre. Volevasi porre l’avversano cosi tra due fuochi ma i popolani presentirono il colpo e, trovandosi insufficienti a resistere al doppio attacco di terra e di mare, abbandonarono le posizioni occupate ritraendosi a salvamento verso le cime dei monti, ove potea presupporsi il nemico non avrebbe osato, almeno per allora, assalirli. I Regii penetrarono quindi nel villaggio con aria trionfante e proterva, e se ne impadronirono, e come al solito lo posero a sacco e vi appiccarono il fuoco. La sorte medesima toccò pure al cascinale soprannominato la Guadagna, nell’agro palermitano, cui i volontari, dopo una breve quanto generosa difesa, soprafatti dal numero, abbandonarono alla rapacità degli sgherri borbonici.
XXVIII.— Dall’esame dei fatti in que’ giorni avvenuti chiaramente si scorse che intenzione del generale Salzano era appunto di elevare tra cittadini e soldati una barriera d’odio e di sangue, onde ogni accordo, ogni conciliazione divenisse impossibile. Ci consta pur troppo che la carnificine, le spogliazioni e gl’incendii, di cui fu la Sicilia in que’ giorni miserando teatro, furono tollerati non solo, ma eziandio provocati dalle pubbliche autorità che vi dominavano in nome di Francesco II, della legittimità e dell’ordine (5). Il governo unicamente mirava a suscitare fra popolo e truppe un abborrimento profondo, compiuto, implacabile. I soldati trovandosi isolati dai loro fratelli, fra mezzo una popolazione nemica ed infamati agli occhi d’Italia e del mondo per le lor turpitudini, dovevano per necessità farsi sostenitori fedell’della vacillante Corona borbonica. Era l’unica via di salvezza che un governo, più che altri mai corruttore e corrotto, potesse tentare. Coll’amor del saccheggio soltanto lusingavasi trascinare quell’orde brutali a combattere ed a spegnere una insurrezione il cui trionfo dalle circostanze era reso oggimai inevitabile. Strana situazione invero per un generate fu quella di vedersi costretto a confidare unicamente nella indisciplina dell’armata e di dovere ad una militare anarchia domandare il sostegno delle leggi e dell’ordine.
XXIX.— Varie altre fazioni ebbero luogo nei giorni successivi in diversi punti della pianura e dei colli, ma con risultato precario ed incerto. Gli insorti tenevano tuttavia la campagna e, benché talvolta battuti e respinti, ritornavano ognora più arditi e più numerosi all’attacco. Un combattimento di qualche importanza s’impegnò pure intorno al monastero di Baida, sulle prime, con dubbio vantaggio: ma bentosto gl’insorti, sovverchiati dalle preponderanti forze nemiche, furono costretti alla ritirata che venne eseguita con ordine mirabile. Il monastero, prima saccheggiato, fu dato in appresso alle fiamme.
XXX.— Gli insorti frattanto, sia nell’assalire sia nel ritirarsi, serbavano un contegno si ordinato e si fermo che non poco sbilanciava le speranze del generale Salzano. Dalla franchezza dei lor movimenti manifestamente appariva esser eglino guidati, non come i primi giorni, da un entusiasmo irreflessivo e sbrigliato, ma dal genio guerriero di capi avveduti e sagaci. L’ardore rinascente dai soldati borbonici, effetto, come si disse, dei turpi maneggi di una polizia meschina quanto feroce, fece ben tosto comprendere quanto difficile fosse, con truppe raccogliticcio e male armate, resistere a lungo ad un’armata munita ad esuberanza di tutto il necessario di guerra. Avventurarsi ad una decisiva battaglia sarebbe stata, più che errore, follia: valeva quanto giuncare sopra una sola carta la libertà e l’avvenire della. Sicilia e forse anche d’Italia. La vittoria, per lo meno assai dubbia, non poteva, quand’anche ottenuta, apportare vantaggi immediati e sicuri, mentre una rotta avrebbe recato conseguenze fatali, irreparabili. Vinti, i Borboniani possedevano un asilo inespugnabile dietro i bastioni delle loro fortezze, ove il popolo senza artiglierie e munizioni non poteva seriamente attaccarli: vincitori avrebbero gettato lo sgomento nell’Isola e la rivoluzione stata sarebbe irremisibilmente perduta. La prudenza consigliava frattanto a temporeggiare, a condurre le cose più in lungo che fosse possibile, e ad attendere soccorso dalle circostanze e dal tempo. Bisognava dar campo alla rivoluzione di riconoscersi, di calcolare le sue forze, di espandersi e consolidarsi prima di trascinarla a corpo perduto contro le falangi borboniche. Dall’altra parte, se la situazione dei popolani era triste, quella dei Regii non era punto migliore. La disciplina delle truppe nemiche sempre più rilasciavasi a misura che aumentava lo sgomento ne’ lor condottieri, né un’armata indisciplinata poteva a lungo durare senza dissolversi. Era di somma convenienza aspettare che il tarlo della corruzione ed il disordine avesse corroso gli ultimi vincoli che legavano i soldati all’autorità di un fittizio comando. E bene l’istante appressavasi in cui quell’accozzaglia di bande senza pudore né legge doveva disciórsi al primo urto di un picciol drappello di prodi abilmente ordinati e condotti.
XXXI.— Fra i principali condottieri, che tenevano in quei giorni il supremo comando de’ varii corpi d’insorti accampati intorno a Palermo, meritano particolare menzione Rosolino Pilo, Francesco Crispi e Corrao. Antichi soldati di libertà combatterono nel 1859 per l’indipendenza della Sicilia, e quando la sorte dell’armi si volse propizia al tiranno di Napoli esularono dalla terra natale, recando seco in un lungo pellegrinaggio di undici anni una fede incorrotta ed una viva speranza di migliori destini. Misconosciuti dagli amici, calunniati dai despoti, perseguitati e reietti dovunque, trassero traverso i due mondi una vita di stenti e dolori, senza che la sventura mai pervenisse a domare ed indebolire la loro costanza. Ramingando fra popoli e genti diverse serbarono vivo nell’anima il culto alla libertà ed alla patria a cui tutto avevano sagri Acato, sempre pronti a ripigliare la spada per la liberazione d’Italia. Educati alle battaglie del popolo recarono fra i volontari del 1860 fusata valentia e la provetta esperienza acquistata in due lustri di stenti e fatiche. All’opera loro ed al loro consiglio deve la Sicilia i successi ottenuti in que’ giorni e l’indipendenza conseguita più tardi.
XXXII.— Dopo gli avvenimenti di Misilmeri, di Monreale e di Baida, i popolani guidati con migliore consiglio si ritrassero alle cime dei colli e ne occuparono i punti più atti alle operazioni strategiche. Quella ritirata parve agli occhi dei Regii una compiuta sconfitta e se ne gloriavano quasi opera fosse del loro valore. Raddoppiarono pertanto in Palermo di baldanza è ferocia, volendo far credere l’insurrezione dell’Isola già pienamente soffocata e compressa. Ma i palermitani erano abbastanza istrutti del vero stato delle cose per lasciarsi illudere e sgomentare dalle manovre nemiche. La città era tuttavia circondata all’intorno dalla rivoluzione irrompente: solamente l’assedio era cangiato in un blocco lontano. Cosi popolo e truppe, agitati da opposti pensieri, stavano gli uni e gli altri in apprensione di nuove complicazioni future.
XXIII.— Dal canto loro i palermitani, benché sotto l’incubo dello stato d’assedio, s adoperavano con ogni possa a sostenere il movimento dei loro fratelli. Danari e munizioni uscivano di Palermo ogni notte, dirette ai condottieri del popolo insorto. Oggetti di vestiario, rapporti ed avvisi continuamente passavano dalla capitale al campo e dal campo alla capitale, né i Regii pervennero quasi mai ad intercettarli e sorprenderli.
XXXIV.— Così saggiamente guidata ne’ suoi movimenti l’insurrezione si faceva di giorno in giorno più minacciosa e più seria, mentre appunto ne’ Borbonici aumentava la speranza di stringerla e debellarla. Già, sebbene la battaglia non fosse ancora impegnata, la rivoluzione signoreggiava l’isola intiera, imperocché nelle città dell’interno e della costa le regie autorità ogni prestigio, ogni forza avevano perduta. A Noto, a Girgenti ed a Trapani avvennero dimostrazioni cotanto imponenti che le truppe non osarono attaccarle e disperderle. A Catania il principe di Fitalia (nipote del venerando Ruggero Settimo ed uno dei capi del movimento del 1848, né per questo meno ligio sicario del governo borbonico) altra via non iscorse a scongiurare l’imminente pericolo se non quella di accedere alle domande del popolo. In conseguenza venne tra popolo e truppe, tra la polizia ed il municipio, firmata una specie di compromesso, col quale le due parti scambievolmente si obbligarono a guardare una stretta neutralità, finché dalla capitale pervenissero ordini ed istruzioni atte a calmare l’effervescenza degli animi.
XXXV.— Messina, la città la più esposta agli assalti ed alle vendette borboniche, sebbene minacciosa e fremente, non osava avventurarsi in una lotta che forse poteva riuscirle fatale. Le atrocità ed i guasti cagionatile dal bombardamento del 1849 erano troppo freschi nella memoria di tutti perché i cittadini un’altra volta s’arrischiassero a dichiararsi apertamente per la rivoluzione. L’antica cittadella che domina la città ed il porto fu sempre il propugnacolo della dominazione borbonica ed il perno di tutte le operazioni militari nell’isola. E i Borboniani che, attesa la situazione inattaccabile della cittadella, ivi teneansi più che altrove sicuri, ivi più che altrove lasciavano libero sfogo alle loro crudeltà e prepotenze. Il general Russo e l’intendente D’Artale gareggiavano di ferocia e perfidia e vilmente si vendicavano dei rovesci ai Regii toccati sugli altri punti del Pisola. Una pacifica dimostrazione avvenuta il giorno 10 fu soffocata nel sangue: i soldati inaspriti dalle disastrose novelle provenienti da Palermo, da Siracusa e Catania, ed attizzati dai loro capi, non si vergognarono di caricare coll’armi una popolazione inerme ed immobile (6). E ai massacri del 10succedettero perquisizioni ed arresti senza numero. Finché la ribalderia poliziesca di D’Artale giunse al punto che il medesimo generale Russo fu costretto a provocare il suo richiamo da Napoli.
XXXVI.— La gioventù di Messina, esasperata dalle vessazioni poliziesche di D’Artale e dalle barbare esecuzioni militari di Russo, abbandonò la città e si ritrasse sui colli vicini, ordinandosi in bande armate e guerriere. Ad esempio del suo confratello, il generale Salzano, Russo tantosto fece ordinare una colonna mobile e la spinse contro gl’insorti: ma dopo alcuni piccoli scontri di nessun risultato assalita dai popolani a Galati ed alla Scaletta venne con gravi perdite battuta e respinta. L’insurrezione così ordinavasi in tutti i comuni limitrofi e poneva trionfante il suo quartier generale sui monti sorgenti dirimpetto a Messina in una situazione strategica pressoché invulnerabile.
XXXVII.— Né in Palermo la popolazione giacca inoperosa o dimentica del debito che in que’ frangenti solenni incombe ai cittadini d’un guerreggiato paese. Le novelle degli ultimi giorni avevano esaltato gli animi e risuscitata la speranza duna finale vittoria. Non valendo ad insorgere, perché oppressi da un numeroso presidio e perché privi dorrai e munizioni, i palermitani provocarono un’imponente dimostrazione pel 13, quasi per protestare nella sola guisa che loro era possibile contro il dispotismo de loro dominatori. La dimostrazione ebbe luogo con grande stupore del generale Salzano, il quale credeva aver già fatto abbastanza per impedire nella città ov’egli risiedeva ogni tentativo consimile. Egli credette pertanto arrivato il momento opportuno per raddoppiare di zelo e ferocia e, come per vendicarsi del mal talento dei palermitani, ordinò pél giorno successivo l’esecuzione dei 13 già presi nel fatto della Gancia. In conseguenza di tali disposizioni la sera del 14 quegli sventurati furono tolti dai sotterranei del forte Galita e trascinati al luogo del supplizio. Eglino caddero senza emettere un lamento, con eroica costanza (7): né già furono soldati ma sgherri della polizia i carnefici destinati dal generale a questa nuova effusione di sangue fraterno. Né pago di ciò Salzano diede ordine che i cadaveri degli uccisi fossero sopra un carro scoperto trascinati per le vie di Palermo, come se con quest’atto di inutile barbarie avesse voluto gettare sul fronte di un popolo mulo ed inerme il guanto di minaccia e di sfida.
XXXVIII.— Indi nuove proscrizioni ed arresti. Ma tanto sfoggio di brutalità nulla valse a domare la costanza dei cittadini come non servì ad allontanare dalla Corona borbonica fatti oggimai divenuti irreparabili. Fu emanato un decreto dì togliere alle campane i battenti e di murare le porle dei campanili. Allo stesso tempo fu tutto disposto perché la numerosa guarnigione si accampasse ne’ punti più importanti di Palermo affine di avvolgerla, quando il caso venisse, in un vortice di fiamme e di stragi. Con tutto ciò il successivo giorno 15 una nuova dimostrazione ebbe luogo, consistente in una processione recantesi alla Piana di Terranova ove il giorno prima erano stati fucilati i tredici della Gancia. Il popolo portavasi colà in atto mesto e solenne siccome ad un santuario, e pubbliche preci in suffragio degli estinti furono udite perfino dai soldati borbonici. Al mattino erasi trovato il sepolcro delle vittime adorno e coperto da ghirlande e da innumerevoli mazzi di fiori.
XXXIX.— La fucilazione del 14 produsse nell’Isola un fermento indicibile. Erasi Salzano lusingato come sempre d’incutere terrore ed altro non fece che provocare un’esplosione di popolare vendetta. Dopo il ritiro dei volontari dai dintorni di Palermo le truppe borboniche posero de’ piccoli distaccamenti ne’ principali villaggi e nelle città vicine ad oggetto di allargare la sfera delle operazioni militari e di riaprire le comunicazioni coi capoluoghi dell’interno e della costa. Uno di codesti distaccamenti occupava la piccola città di Carini, patria anticamente della celebre Laide, situata sopra un colle amenissimo a 15 miglia nord-ovest da Palermo. I volontari, esasperati. dal massacro dei patrioti, la assalirono il mattino del 17 e dopo breve combattimento se ne reser padroni. Ventisei Borboniani furono, in vendetta degli estinti fratelli, appiccati: orribile ma giusta rappresaglia dei vincitori.
XL.— I pochi Borboniani scampali dall’eccidio di Carini si rifugiarono a Palermo, ove col racconto di ciò ch’era avvenuto posero lo sgomento e la costernazione nel presidio. Salzano, a diminuire la sinistra impressione che faceva sugli animi lo scacco subito a Carini, prese le opportune misure per trarne una pronta e severa vendetta. Alla punta del giorno 18, grosse schiere de’ Regii munite di numerosa artiglieria e capitanate da Cataldo e dallo svizzero Wyttenbach si posero in marcia per diverso sentiero alla volta della città il giorno prima perduta. Volevasi circondare la città e ad un tempo assalirla di fronte, dai lati e da tergo: e il piano d’attacco parea sì bene tracciato che il generale già certo si teneva dell’esito. Infatti i Regii marciarono con tanta celerità e diligenza che giunsero a fronte degli inserti prima che questi avessero avuto sentore del loro avvicinarsi.
XLI.— La mischia incominciò sanguinosa e terribile: uguale era l’odio e il furore, ed uguale in ambe le parti la sete di vendetta e di sangue. Benché pochi, circuiti ed attaccati da tre lati ad un tempo, i volontari si difesero con inaudito coraggio: trincierati nelle case, dietro i crocivii e per le contrade opposero una lunga ed audace resistenza ai ripetuti assalti nemici. La lotta durò tutto il rimanente del giorno con incerta fortuna: alla fine il numero e la tattica militare prevalsero. Sul far della sera il recinto esterno del paese fu superato, ed allora la battaglia divenne più micidiale e tremenda. Gli abitanti, che ben conoscevano la sorte che loro serbavasi qualora fossero i Regii rimasti vincenti, si unirono agli insorti e presero al combattimento una parte vivissima. Ogni crocivio, ogni piazza divenne campo di guerra, si cangiarono le case in fortezze: uomini e donne, vecchi fanciulli e ragazze combattevano dalle finestre, dalle strade con quel disperato valore che ispira la presenza d’un imminente pericolo. Dovettero i Borboniani espugnare ad una ad una le abitazioni e le strade sotto una grandine incessante di palle, di tegole, di travi e di sassi, armi che il furore somministrava ai difensori dell’infelice città. Né i volontari sebbene già vinti si diedero a fuggire disordinati ed a sbandarsi: ma con eroico sangue freddo si ritiravan contrastando e cedendo a palmo a palmo il terreno. E quando ogni resistenza era divenuta impossibile abbandonarono la sventurata città dirigendosi per la linea dei monti verso il mezzogiorno alla volta di Monreale.
XLII.— Non ¡staremo a descrivere la catastrofe della città ricaduta in potere dei vecchi tiranni: sempre la stessa scena, sempre le stesse tragedie. L’animo nostro rifugge dalle eterne narrazioni di continui e ripetuti massacri. La nostra dignità d’uomini si rivolta al cospetto di tali atrocità, la penna ci cade di mano. Basti dire che la città di Carini venne da quell’orda vandalica da capo a fondo saccheggiata, incendiata e distrutta, e gli abitanti rimastivi passati a fil di spada senza distinzione d’età o di sesso. In quella notte fatale il tetro bagliore delle fiamme innalzantisi al cielo rischiarò la ritirata de’ suoi difensori e forgio brutali dei feroci campioni dell’ordine.
XLIII.— Ma Carini non cadde perciò invendicata, né il suo popolo si lasciò impunemente scannare. Moltissimi sono gli aneddoti che si narrano della disperata resistenza da essa opposta al nemico, anche quando ogni resistenza era divenuta già inutile. Tre fanciulle rinchiuse nella propria abitazione ed armate di fucili e di sciabole bravamente si difesero contro un intiero drappello borbonico. Alla fine caddero, come le eroine dell’antichità, combattendo, ma non prima però di aver fatto morder la polvere a cinque aggressori che innanzi agli altri le aveano assalite. Gli otto cadaveri per più giorni insepolti rimasero nella stanza medesima. finché la pietà dei superstiti giunse a dare ai vincitori ed ai vinti una tomba comune.
XLIV.— Il mattino successivo, 19. di Carini oggimai più non esisteva che un mucchio di rovine e macerie: dense ed opache colonne di fumo additavano soltanto da lungi il luogo ove sorgeva un’antica, fiorente e popolosa città. Né le devastazioni dei soldati borbonici v’ebbero termine: presso a poco la sorte medesima toccò ai cascinali ed ai villaggi per cui quegli eroi dell’incendio passarono nel restituirsi a Palermo. E come ciò non bastasse alcuni giorni appresso, all’annuncio del combattimento di Carini, il governo di Napoli dava ordine ai suoi sgherri nell’Isola di distruggere interamente, la ribelle città, quasi l’opera barbara si potesse compire due volte.
XLV.— La vittoria di Carini, benché a caro prezzo comprata, gonfiò la superbia dei Regii: eglino già lusingavansi aver distrutto il centro ed il nerbo dell’insurrezione nell’Isola. Il governo magnificava, ne’ bulletlini ufficiali, i vantaggi dalle truppe ottenuti, e per tutta Europa spargea la notizia che tutto era in Sicilia rientrato nell’ordine. Nel fatto non era questo che un pio desiderio, una mal fondata speranza colla quale la Corte pretendeva trarre in inganno e gli altri e se stessa. Tuttavia il disastro di Carini produsse un’emozione profonda. Le crudeltà dei Regii, esagerate forse a bello studio, se da un lato raddoppiarono il giusto furore dei popoli, misero dall’altro negli animi un sentimento di costernazione e d’orrore. Fu un istante che l’insurrezione si credette perduta; ma quell’istante passò come un lampo. I condottieri del popolo, lungi dal lasciarsi intimorire, tolsero il pensiero ad approfittare del turbamento degli animi, per la recente catastrofe abbattuti e scorati. Da quell’istante i volontari, non più come per lo addietro fidenti nell’entusiasmo e nel loro coraggio, incominciarono a porgere più facile orecchio alle esortazioni ed ai consigli dei capi. Eglino ben tosto s’avvidero della necessità di concentrare le forze disperse e di sottoporsi ad un regolare comando. I direttori del molo siciliano poterono allora adottar le misure più atte ad allontanare i futuri disastri ed a prolungare una ferma e generosa resistenza. Per tal modo le rovine di Carini, che parevano dover esser la tomba della libertà siciliana, segnarono il termine alle glorie ed ai trofei dell’annata nemica.
XLVI.— I difensori della sventurata Carini raggiunsero a Monreale l’altro corpo d’insorti che vi si era accampato, e vi trovarono quell’affettuosa accoglienza che convenivasi alla immeritata loro sciagura. Ma una piccola squadra che copriva la ritirata oppressa dai numero dei nemici aveva nel ritirarsi dovuto abbandonare le armi: né que generosi poteano soffrire di averle irreparabilmente perdute. Per il che, fallasi oscura la notte, ritornarono sui loro passi lino al luogo ove le aveano gettate e nascoste tra le macchie d’una folta boscaglia, e. ricoveratele per la massima parte, retrocedettero gioiosi e trionfanti a Monreale. Così riuniti i due corpi principali dell’armata insurrezionale presentavano una forza imponente, ma non tale però da poter lungamente competere col numero dei Regii, imbaldanziti e resi coraggiosi 7 dai vantaggi ottenuti. In quel supremo frangente l’avvenire della Sicilia unicamente dipendeva dalla linea di condotta che gl’insorti stavano per abbracciare.
XLVII.— La notte medesima si tenne dai capi un consiglio di guerra nel quale vennero proposti, ventilati e discussi diversi progetti: uno fra gli altri (era di Rosolino Pilo) ottenne l’universale sanzione. Consisteva questo in concentrare tutti i piccoli distaccamenti dispersi in un solo esercito, in fortificarsi nelle posizioni più vantaggiose delle montagne elevantesinel centro dell’isola, in tentare ogni mezzo per aumentare il fermento nelle città dell’interno, in rompere le comunicazioni ed impedire le scorrerie del nemico. Secondo il piano medesimo non dovevasi accettar la battaglia quando i Regii l’avessero offerta, né affrontarli all’aperto, ma assalirli all’improvviso dai Iati e da tergo, bersagliarli continuamente, sorprendere i corpi isolati e gli avamposti e ritirarsi quindi colla maggior possibile celerità. Ottimo pensiero strategico che fu, come vedremo in appresso, cagione precipua delle future vittorie e della liberazione finale dell’Isola.
XLVIII.— Nel gruppo centrale delle montagne siciliane, le cui diramazioni da tre lati diversi si spingono alle spiaggie del mare, s’aprono tre vastissime valli, soprannomi nate di Noto, di Mazzara e di Demona. Queste tre valli, di cui la prima si protende a levante, la seconda a ponente, ed a settentrione la terza, abbenché intersecate da monti e colline minori, presentano una superficie eguale ed unita avente la forma di tre vasti triangoli irregolari, donde all’Isola provenne ab antico il nome di Trinacria o Triquetra. La base comune dei detti triangoli è tracciata dal mare che circonda il paese, e sommità ne è l’angolo formato dalla triplice catena, laddove si dirama dal gruppo delle montagne del centro. È quella una posizione di sua natura inaccessibile e, strategicamente parlando, della più alta importanza, come quella che domina l’Isola intera. Da quel punto superbo a piacimento potevasi assalire l’uno o l’altro dei tre sottoposti bacini ed assicurarsi in caso d’impensati rovesci, una ritirata certa e pressoché in vulnerabile. Inoltre, accampandosi nel cuor del paese, l’insurrezione ponevasi nella possibilità di aumentar le sue file coi nuovi fuggiaschi accorrenti da tutte le parti, ed oltremodo rendevasi agevole l’acquisto d’armi, di munizioni e di viveri. L’urgenza di si saggio progetto fu tosto riconosciuta e provvedimenti vennero in conseguenza adottati per porla in esecuzione all’istante. Nel giorno 21 la gran massa degl’insorti prese stanza a cavaliere delle montagne: ed ivi, con essi la salvezza della Sicilia e l’unità dell’Italia posero fin d’allora il loro quartier generale.
XLIX.— I volontari, in tal guisa raccolti ed uniti, si diedero una direzione comune, si sottomisero a regolar disciplina ed obbedirono ad un impulso ordinato, costante, uniforme. Accampati sul triplice versante dei monti, ed apparentemente divisi in tre corpi condotti dai proprii lor capitani, serbarono ciò non per tanto inalterata l’unità di movimento e comando. Un consiglio permanente di guerra, composto dei cittadini più illustri ed idonei, s’insediava tosto a Castrogiovanni, per la sua posizione chiamata l’umbilico della Sicilia e di là frenava e dirigeva le mosse dell’intiera armata insurrezionale.
L.— A Palermo Salzano, ottenuti da Gaeta e da Napoli i domandati soccorsi, a nuove imprese accingevasi. Il movimento strategico degli insorti, abbenché determinato da alte necessità strategiche, ¡sfuggiva all’oculata saviezza del vecchio soldato. Egli consideravate piuttosto siccome un sintomo di defezione, come un principio d’anarchia e di disordine. Persuaso di ciò spediva a Napoli un superbo messaggio nel quale annunciava alla Corte le recenti vittorie conseguite e la compressione del moto rivoluzionario in Sicilia. Francesco II all’annunzio dell’insperato successo gongolò per l’ultima volta di giubilo, e come in attestate della sua soddisfazione ordinò moltissime promozioni nell’esercito di Sicilia e conferì croci e diplomi in gran numero agli ufficiali che aveano avuto parte ne’ recenti conflitti. In quel punto Francesco Borbone non potea sospettare che il tetro bagliore delle fiamme di Carini dovesse essere l’ultimo raggio d’una stella già vicina al tramonto. Cosi la tirannide napoletana s’inorgogliva degl’immani massacri perpetrati da’ suoi vili satelliti, senza presentir la voragine che stava per inghiottirla fra breve.
LI.— Ed invero l’aspetto delle cose a Salzano propizio volgevasi. L’agro palermitano era libero ed i prossimi colli sgombrati: entro un raggio di venti miglia non una banda d’insorti ardiva mostrarsi; la tranquillità era o pareva perfetta. Dall’altro canto le novelle più rassicuranti pervenivangli dal resto dell’Isola. Il presidio di Messina si trovò all’improvviso liberato dalle squadre insorgenti che ne infestavano già il territorio Bronte, Catania, Siracusa, Trapani, Marsala e tutte le città della costa erano rientrate nell’ordine. I volontari avevano obbedito all’appello del consiglio di guerra residente a Castrogiovanni e s’erano affrettati a raggiungere i loro compagni. Dalle città marittime, ove i liberali si vedeano in numero insufficiente a lottare contro i presidii borbonici, la generosa gioventù, secretamente emigrando, accorreva ad ingrossare l’armata degli insorti. E le città, abbandonate in tal modo dai loro tigli più ardenti ed intrepidi, ricaddero ben tosto in balìa dell’antico servaggio. E la polizia e l’esercito, più non incontrando né opposizioni né ostacoli, ripigliarono il sopravento, e di nuovo colla riacquistata baldanza ripresero coraggio a mal fare.
LII.— Le novelle della Sicilia, divulgate ad arte per tutta Europa dal governo di Napoli produssero ovunque effetti ed emozioni diverse, a seconda delle varie ed opposte simpatie dei liberali e dei despoti. Questi ultimi innalzavano già un inno di trionfo per le supposte vittorie borboniche e con entusiasmo salutavano il ripristinamento dell’ordine nell’Isola: quelli già lamentavano la fatale catastrofe che potea avere, per l’avvenire d’Italia, le conseguenze più funeste e più gravi. Se non che gli uni e gli altri, mossi da opposti principii, si lasciavano egualmente illudere da mendaci apparenze. I retrogradi amplificavano un imaginario trionfo, proprio alla vigilia d’una solenne sconfitta: i liberali per contro piangevano all’annunzio di un supposto disastro che doveva essere foriero d’immensi successi. Nell’alta Italia scoppiò un fermento indicibile e si senti la necessità di accorrere in aiuto alla rivoluzione perdente. Del resto, come si disse, la Sicilia non era per anco caduta: concentratasi in un piccolo spazio sentì crescere a mille doppii la sua forza d’espansione e d’impulso. Restringendo la sua sfera d’azione dilatò la propria popolarità ed importanza.
LIII.— Tuttavolta la calma a Palermo ed a Messina non era quale Russo e Salzano potevano meglio desiderare. I cittadini non lasciavano passare pretesto veruno per provocare nuove dimostrazioni, quindi nuovi tumulti e nuove effusioni di sangue. Il 23 aprile nel porto di Palermo gettavano l’ancora diversi legni mercantili inglesi, francesi, americani e sardi sormontati dalla lor bandiera, la bandiera di popoli liberi e grandi. La popolazione di Palermo alla vista del tricolore italiano proruppe in fragorosi evviva alla presenza dello stesso Salzano, di Maniscalco e dei loro satelliti. Un’immensa moltitudine percorse sino a sera la via di Toledo recandosi alla spiaggia del mare quasi per fare una visita di convenienza a quel sacro segno di redenzione che fra poco doveva pur essere il loro vessillo. Furono senza fine i battimani, gli applausi e gli evviva all’Italia né le truppe, trasecolate ài cospetto di tanta unanimità, osarono opporsi a quello slancio d’entusiasmo cittadino. Altrettanto accadde il 23 a Messina all’arrivo in quel porto del vapore sardo l’Authion. La comparsa del tricolore italiano in quelle acque fu salutata da vive ed universali dimostrazioni di gioia. Il capitano del legno fu il solo che scese da bordo: egli si recò a visitare nella cittadella il generale Russo che apparentemente gli fece assai buona accoglienza; ma nel frattempo una fregata napoletana prendeva il largo senza dubbio ad oggetto d’osservar da vicino i movimenti dell’Authion. I luogotenenti di Francesco Borbone non si fidavano d’alcuno: sentendosi universalmente abborriti di tutto temevano.
LIV.— Intanto a Palermo le dimostrazioni succedevansi con perseveranza ed audacia incessante. Il 24 alle ore 16 ed un quarto italiane, corrispondenti in quella stagione al meriggio, la folla nuovamente percorse la via di Toledo gridando evviva all’Italia ed alla rigenerazione dell’Isola. Il 25 ed il 26 ad un’ora pomeridiana altre dimostrazioni e non meno imponenti ebber luogo, malgrado le numerose milizie che occupavano quasi l’intiera città. Il giorno 28 sul far della sera tutta la popolazione di Palermo pareva accalcata nelle larghe contrade Toledo e Maqueda e nelle piazze adiacenti e si prolungò la dimostrazione sino a notte assai tarda. In tal guisa i capi del popolo miravano ad avvezzarlo al pericolo pel giorno in cui l’insurrezione già matura dovesse scoppiare.
LV.— Era in quel mentre da Napoli ritornato a Palermo con poteri discrezionarii il principe di Castel Cicala, luogotenente del Re nelle provincie al di là del Faro, conducendo seco cinque mila uomini di rinforzo all’armata dell’isola. Ciò non impedì tuttavolta che il 2 del successivo maggio due imponenti dimostrazioni simultaneamente sì facessero alle due estremità di Palermo, sulla piazza Vigliena cioè e nelle vicinanze del marci Ma questa volta la presenza del principe parve aver risvegliato nelle truppe la solita sete di sangue e saccheggio: il popolo inerme fu caricato alla baionetta, disperso dalla cavalleria e massacrato per le vie, per le piazze e per le case. Due giorni dopo un proclama firmato dal principe metteva in vigore la legge stataria e minacciava la fucilazione immediata contro i detentori od asporitatori di qualunque specie di armi. Il giorno medesimo la colonna mobile, già da Salzano spedita alla Piana dei Greci per ¡sgombrarla dalle bande insorgenti, rientrò con aria trionfante a Palermo come avesse vinto strepitose battaglie, mentre da tutti sapevasi che non aveva incontrato nemico veruno.
LVI.— In Sicilia le truppe borboniche, compresi i numerosi presidii ed i rinforzi speditivi a piccole squadre da Napoli, sommavano in que’ giorni a non meno di 50,000 soldati bene istrutti e forniti di tutto il necessario per una lunga campagna. Disponevano inoltre di un complicatissimo sistema di fortificazioni innalzate ad oggetto di frenare e reprimere i popoli e munite di artiglierie formidabili. L’insurrezione mancava di mezzi, di ordinamento militare e di armi, né ardiva in apparenza staccarsi dal centro dell’isola ove sembrava condannata a perire d’inedia. Contuttociò né Castel Cicala, né Salzano, né Russo, benché ne’ loro pomposi rapporti annunziassero la completa dispersione delle bande ribelli, osavano credere quello stesso che con tanta asseveranza affermavano. Nuovi rinforzi si chiedevano a Napoli e nuove misure militari prendevansi in vista di futuri e non improbabili eventi. Fu stabilito di formare a Messina ed a Palermo due vasti campi trincierati e munirli di terrapieni e bastioni, ove in ogni caso le truppe potessero raccogliersi e trovarvi salvo e sicuro ricovero. Il principe di Castel Cicala fece ancora di più: egli chiese al governo un vapore per sé onde poter con onore svignarsela qualora le vicende della lotta lo avessero costretto a fuggire. Atto di prudenza sommamente lodevole, e di cui ebbe ben presto ed in fretta a servirsi.
LVII.— Nel frattempo Francesco Borbone amoreggiava colla diplomazia ed anelava ali acquisto delle Marche e dell’Umbria. La Francia, già stanca della occupazione di Roma, ove sapeva essere oltremodo abbonita, sollecitava Francesco II ad assumere la difesa e la guardia del potere papale ed a surrogare colle proprie sue truppe le squadre francesi nel presidio dell’eterna città. Tale proposizione diede nascimento alle più alte pretese per parte della Corte di Napoli mille dubbii e difficoltà sollevaronsi: si moltiplicarono le proposte e le risposte senza poter mai pervenire ad una conclusione attuabile. Il re Francesco avrebbe voluto aderire alle sollecitazioni della Francia ed accordare al Pontefice i domandati soccorsi, ma non senza stabilirne anticipatamente il compenso. Invano il ministro Brenier affrettava per ordine del governo francese la conclusione dell’affare: le cose furono con varii pretesti tirate in lungo finché il precipitare degli avvenimenti rese le trattative impossibili. Più tardi vedremo qual fosse inverso il Pontefice la cristiana pietà del Borbone e come da questi s’intendesse la integrità del poter temporale.
LVIII.— Negli ultimi giorni d’aprile un avvenimento, che militarmente considerato aveva ben poca importanza, ma che per le sue conseguenze fu sommamente utile alla libertà, ebbe luogo in Sicilia. Al generale Russo era caduto in pensiero di poter colle sue genti attaccare ed intieramente disperdere i popolani cui la publica voce voleva accampati in gran numero nell’interno dell’Isola, il che, come narrammo, era vero. Egli pertanto allestì una colonna mobile composta delle truppe che avea disponibili e la spinse per la linea dei monti verso l’interno. Ma incontrata la colonna medesima nella forte posizione di Adernò da un grosso distaccamento d’insorti fu dopo breve conflitto completamente sbaragliata e distrutta. In quel fatto i Regii perdettero tutta l’artiglieria di campagna che avevano seco recato oltre a gran copia di armi, di munizioni e di viveri. La vittoria di Adernò ottenne un insperato successo: la Sicilia intiera ne senti il contraccolpo. Gli animi già prostrati dalle passate sventure ripigliarono quel vigore e quel coraggio che rendono invincibili i popoli siccome gli eserciti. Quel giorno la perdita di Carini fu riparata.
LIX.— Da quel giorno l’insurrezione si stabili fortemente nelle sue posizioni. Essa teneva Alcamo nella valle di Noto, Castrogiovanni, Caltanisetta ed altri punti importanti delle valli di Mazzara e di Demona. I Regii dal canto loro tenevano le principali città e le coste ed inoltre circondavano risola di una crociera di vapori e di altri legni da guerra.
LX.— Così terminava il mese d’aprile del 1860: e terminava con ottimi auspicii siccome aveva cominciato. Una rivoluzione imponente scoppiò a fronte d’un’armata regolare, l’assali sulle barricate ed in campo aperto, vinse e fu vinta, e pur si mantenne e crebbe d’ardire e di forze. Iniziata in una piccola casa situata nelle parti più rimote di Palermo, s’allargò a mano a mano e si stese per tutta la Sicilia. Migliaia e migliaia di popolani di tutte le classi accorsero al grido di guerra, si raccolsero intorno al tricolore italiano, si ordinarono a guisa d’esercito e tennero in iscacco pel volger d’un intiero mese gli sforzi di cinquanta mila napoletani (8). Fra poco vedremo quest’esercito così numeroso cadere e disperdersi davanti un branco di prodi che la redenta Italia spediva in soccorso ai fratelli in pericolo.
continua……
fonte
https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-PERINI-La-spedizione-dei-Mille-storia-documentata-2025.html