“La Storia de Napole spalefecata a lo popolo vascio” letto da Claudio Saltarelli
Da quando Ferdinando Galiani nel suo “Del dialetto poletano” scritto nel 1783 afferma che il napoletano è un dialetto e non lingua madre nasce un dibattito nel mondo intellettuale prima e successivamente nel mondo civile, molto vivace e apparentemente leggero ma nei fatti di primaria e fondamentale importanza nello scontro tra il modernismo e la tradizione che ancora non vede la sua fine.
Ci sono stati periodi in cui il partito della lingua madre, quello della tradizione, ha avuto la maggioranza mentre in altri accade il contrario come all’alba dell’unità d’Italia quando, partendo proprio da Napoli, c’è la feroce volontà di cancellare il passato considerato arretrato, nocivo e nemico del nuovo mondo e “dell’uomo nuovo” di ispirazione gnostico illuminista e attuato dal giacobinismo. Copione che si continua a leggere nell’era contemporanea per volontà di una classe dirigente liberal progressista che vuole a tutti costi far passare il concetto che il napoletano lo parlano solo i camorristi e il popolo “vascio” mentre se vuoi emangiparti e salire l’ascensore sociale devi parlare solo l’italiano. Mentre nella neonata televisione fu determinante il programma “non è mai troppo tardi” del Prof. Massimo Gallo per diffondere la lingua italiana in tutta la penisola fondamentale per formare una borghesia conformista a cui tutti volevano appartenere (quando volte le nostre madri ci dicevano parla pulito, parla italiano), oggi ci sono libri e prodotti televisivi di enorme successo che diventano il megafono di questo giacobinismo di nuova generazione come la serie “Gomorra” o “L’Amica Geniale” intrisi di positivismo e razzismo a guidare questo concetto nazional popolare. Tuttavia, nonostante la vulgata dominante ha a disposizione un esercito armato e potente, l’insorgenza culturale e linguistica è molto agguerrita, soccorsa dal teatro, dalla musica e dalla poesia che sono stati e continuano ad essere, il contenitore più prezioso messo a disposizione per il mondo che continua ad attingere a piene mani, come anche dalla letteratura che è molto più vasta di quanto si può immaginare. Nella seconda metà dell’ottocento quando Napoli da capitale divenne capoluogo di regione, escludendo la grande produzione musicale attraverso il canto lirico che ha visto in Enrico Caruso il suo massimo esponente, ci fu un’esplosione della letteratura napoletana attraverso giornali, romanzi, poesie e saggi che se con Ferdinando Russo ha raggiunto la sua massima vetta, ha dato vita ad una produzione importante che aveva l’intento di rafforzare la tesi del napoletano lingua dialettale con lo scopo di storicizzarla ma che a distanza di anni ha prodotto l’effetto contrario infatti sono diventati una fervida testimonianza di come il napoletano è un idioma, lingua madre sempre in evoluzione e in continuo cambiamento con le sue sotto lingue come accade in tante altre parti dell’Italia peninsulare gia Regno, come in Sicilia, nelle Calabrie o nelle Puglie.
C’è stata l’epoca d’oro, che va dal dopo guerra fino all’inizio degli anni novanta, con monumenti come Renato De Falco, Angelo Manna, Massimo Troisi e Roberto De Simone, i primi che mi vengono in mente, che con le loro attività intellettuali rimisero il napoletano al centro del mondo, operazione che fu interrotta, ancora in atto in questo ultimo periodo, con pazienza certosina dai Bassolino Boys. Ai giorni nostri in tanti, chi con lealtà e chi con falsità, cercano di interrompere questo stato di cose e chi tra questi fa un lavoro importante nella ricerca di autori e di testi napoletani è Vincenzo D’Amico che con la sua casa editrice “D’Amico Editore” sta pubblicando da anni libri inediti o dimenticati scritti da personaggi quasi sconosciuti cercando di andare oltre Ferdinando Russo riscuotendo riscontri lusinghieri nel mondo accademico, nella critica ma soprattutto nei lettori, come ben si sa i libri appartengono a chi legge e non a chi li scrive. L’ultima pubblicazione, che gli è costata molta fatica, è “La Storia de Napole spalefecata a lo popolo vascio” ovvero la storia di napoli in lingua napoletana che riguarda tutta la vita del Regno scritta nel biennio 1875/76 da Luigi Chiurazzi e curata da Vincenzo Pepe. Essendo scritto in napoletano è un testo colto che nonostante bisogna leggere con la massima concentrazione è adatto a tutti regalando spunti e riflessioni sia sul punto di vista linguistico che storico.
Nel leggerlo emerge chiaramente che il napoletano è la lingua ufficiale del mediterraneo perché nessuna lingua è il condensato di tante realtà territoriali che per millenni si sono incontrate e incrociate nell’antica capitale poggiandosi sul piedistallo greco e latino. Emerge l’antropologia delle genti napolitane e siciliane che con poche parole o qualche riga, riesce a far comprendere un fatto o un periodo storico che in italiano occuperebbe una o più pagine. Emerge altresì l’ironia, il distacco e il disincanto di un popolo che in tanti secoli di vita ne ha viste e vissute tante e grazie all’impostazione, domanda e risposta, si rende accattivante senza essere “ruffiano” con il lettore a cui mai pesa avere un’attenzione al di sopra della soglia minima. Analizzandolo dal punta di vista storico il testo è molto interessante con l’autore, Luigi Chiurazzi, che ha dimostrato di avere una grande preparazione e di essere un fine conoscitore della storia, anche se appare chiaramente la sua anima liberale e anti borbonica non sconfina mai nella faziosità rimanendo sempre imparziale. Sorprendente la sua analisi sul periodo dell’Impero delle Spagne che descrive con onestà intellettuale e oggettività storica che ci appare, nei due secoli della sua esistenza, molto meglio di quanto viene descritto dalla vulgata dominante manzoniana e anticattolica. Interessante conoscere la tirannia crudele dell’Imperatore Arrico VI figlio del Barbarossa, come conoscere alcuni aspetti poco conosciuti di Tommaso Campanella o leggere la corposa descrizione delle vicende di Masaniello, del breve periodo austriaco di inizio ‘700 e c’è conferma che nei fatti del ’48 non c’era la volontà nella componente politica mazziniana di far nascere una Monarchia Costituzionale. In sintesi l’autore non trascura nessun periodo storico del Regno e in poche pagine offre al lettore una mappa dove potersi muovere in tutti i 7 secoli e mezzo di vita avendo anche la saggezza di trattare il fondamentale e importante periodo longobardo. Due parole per il curatore Vincenzo Pepe che ha fatto un ottimo lavoro di ricerca e un’analisi che sarebbe stata perfetta se non si fosse fatto catturare dalla tentazione ideologica che lo ha portato a parlare, a mio avviso inopportunamente, della Repubblica Napoletana e della sua “eroina”, si fa per dire, Eleonora Pimentel Fonseca a cui, come fanno anche altri studiosi, viene data la paternità di voler educare il “popolaccio” utilizzando il napoletano quando invece storicamente fu prima Carlo III che volle lui stesso imparare il napoletano e successivamente Ferdinando IV, che addirittura lo conosceva a menadito, ad inaugurare questo metodo di comunicazione.
Nonostante il suddetto Prof. Massimo Gallo che con la sua trasmissione 60 anni fa ha portato la lingua italiana nella casa degli italiani e oggi si vuole far passare il napoletano come la lingua dei camorristi, come già detto, per ridurlo alla stregua dei dialetti tosco-padani la sua diffusione non dimostra cedimenti soprattutto nei più giovani delle scuole elementari e delle medie, dalle mie parti i bambini tifano napoletano e cantano perfettamente i pezzi dei cantanti napoletani che oggi vanno per la maggiore con una dizione quasi perfetta.
In conclusione questo testo certifica che il napoletano è un idioma, che ha un innumerevole numero di sotto lingue, che è una lingua universale, che è una lingua colta, che continua a produrre un oceano di lavori culturali, artistici e letterali e che soprattutto è una lingua viva che si rinnova con enorme velocità partendo dal basso e non imposto dall’alto come accade con l’italiano, quindi il napoletano è una lingua non un dialetto.
Claudio Saltarelli