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LA STORIA della PESTE NERA SU NAPOLI

Posted by on Gen 19, 2025

LA STORIA della PESTE NERA SU NAPOLI

L’ombra minacciosa della peste si manifestò su Napoli nel 1656 qualche giorno dopo l’entrata del nuovo anno. Giuseppe de Blasiis, pubblicò un manoscritto datato 20 giugno 1656 in cui si riferisce che il morbo fu portato a Napoli da alcuni soldati spagnoli, provenienti dalla Sardegna.

Uno di loro ricoverato nell’ospedale dell’Annunziata, gli venne subito diagnosticata la peste dal medico Giuseppe Bozzimo, che diede subito l’allarme, ma fu messo a tacere ed imprigionato perché, a parere del Viceré, aveva diffuso notizie false. Intanto l’ammalato ed alcune persone, che erano state a lui vicine, morirono accusando gli stessi sintomi del male. Il povero medico morì anch’esso di peste in carcere, ed i suoi colleghi, onde evitare di finire imprigionati, non solo non denunciarono la malattia, ma non provvidero nemmeno a distruggere tutto ciò che era appartenuto ai deceduti. Di conseguenza la popolazione fù tenuta all’oscuro, e nessun provvedimento venne preso. Così il contagio iniziò a diffondersi a macchia d’olio in tutta la città sopratutto nei quartieri più affollati e degradati da un punto igienico- sanitario come quelli del Porto, della Vicaria, del Lavinaio e del Mercato. Uno dei primi morti che suscitò una certa notizia fu un certo Masone, un capopopolo al tempo dei moti di Masaniello, e quindi ben conosciuto, che ritornato in quel tempo a Napoli dal suo esilio in Sardegna, morì subito dopo nella sua casa nei pressi di vico Pero e subito dopo di lui, un tale Carlo De Fazio, che avrebbe assistito proprio il Masone durante il suo ricovero all’ospedale dell’Annunziata. Poi, a seguire, sarebbero rimaste vittima la madre di De Fazio, il padrone di casa di costei, che dopo la morte della donna aveva pensato di rifarsi della mancata riscossione del pigione appropriandosi dei suoi materassi infetti. Da quel momento i decessi si susseguono rapidi e fulminei.
La peste trovò nei poco puliti quartieri e nei suoi bassi un terreno fertilissimo e nel maggio del 1656 , l’evento esplose in tutta la sua drammaticità favorito da un sistema fognario inadeguato, numerosi animali in giro per le strade e condizioni igieniche precarie. Intere famiglie cominciarono ad essere sterminate dal morbo. Centinaia di persone incominciarono a morire ogni giorno e le strade cominciarono ad apparire lastricate di cadaveri. Nelle strade venivano bruciati gli oggetti appartenenti agli appestati per distruggere l’infezione e nelle grandi piazze si scavavano grandi fosse comuni per seppellire le troppe vittime, furono addirittura liberati prigionieri dalle carceri per tumulare i morti. La risposta del clero fatta da processioni, e preghiere collettive favorì soltanto la peste aumentando a dismisura le occasioni di contagio. La peste che colpì Napoli è stata oggetto di numerosi studi, in quanto esistono manoscritti, gli atti della Deputazione della salute (ndr: una specie di assessorato alla sanità ante litteram), e quadri che illustrano scene dell’immane tragedia, che hanno fornito agli studiosi abbondante materiale d’indagine. Inestimabile è la documentazione delle scritture degli antichi banchi pubblici napoletani, conservate presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli. Il fondo di uno di questi banchi, contiene la registrazione del conto di « dare ed avere » della Deputazione della salute. «Tra le Deputazioni ordinarie e stabili dipendenti dal Tribunale di San Lorenzo vi era quella della peste, che era esercitata da due sole Piazze, cioè dal Seggio di Porto e dalla Piazza del Popolo. Il loro ufficio consisteva nel riconoscere in tempo di peste il sospetto di essa e di rilasciare le fedi di sanità (ndr: attestati di buona salute) di qualsivoglia nave che venisse di fuori regno o da altri luoghi sospetti: e se non vi erano dubbi, si mandava la nave a far la purga di 40 giorni nel luogo solito, sulla costa occidentale di Posillipo, detto Chiuppino. Questi due Deputati, che erano stipendiati della Città, facevano anche i bollettini e le fedi di sanità di quelle navi che partivano da Napoli. Questa deputazione durò in tal guisa fin al 1656, allorché per la terribile peste che invase la città ed il regno essa divenne Deputazione separata e si chiamò Tribunale della Generale Salute».
Ad ogni cliente del banco si accendeva un conto nel “libro maggiore”. È stato così possibile ricostruire le operazioni effettuate dai Deputati e, grazie soprattutto alla causale dei pagamenti, si è giunti a chiarire meglio fatti e figure del triste periodo. La popolazione di Napoli fra il 1600 ed il 1656 cresce da 270.000 a 450.000 abitanti, compresi i casali. La grande metropoli esercitava un fascino notevole specialmente sui contadini che si allontanano dalla campagna, per sfuggire alle insidie dei briganti ed all’oppressivo regime feudale ed al vulcano, perché nel 1631 si verificò un’ importante eruzione del Vesuvio, che investì molti paesi e molti casali fuori dalle mura della città. Questo avvenimento insieme agli altri motivi citati spinse buona parte della popolazione dei paesi a ridosso del Vesuvio, rimasta senza casa e lavoro a trovare rifugio nella capitale. Si è calcolato che a cercare riparo in città furono più di 44.000 senzatetto, che contribuirono ad aumentare la di per se già elevata densità abitativa in città che si concentrò particolarmente in alcuni noti rioni storici. Si giungeva a Napoli con la speranza di trovare lavoro e sistemazione sicura presso la Corte, presso gli uffici, presso qualche artigiano o presso qualche famiglia nobile. Il porto, inoltre, costituisce altra fonte di lavoro per il gran numero di navi che vi giungono. Ma alla rapida crescita demografica non fa riscontro, uno sviluppo edilizio adeguato, sicché, a metà del secolo XVII, la città si addensa ancora entro le mura tracciate dal viceré Pedro di Toledo. Uno spazio sufficiente a contenere 100 mila persone ne accoglie ora un numero quadruplicato, e la città subisce delle trasformazioni. I palazzi, una volta di uno o due piani, si appesantiscono di brutte soprelevazioni e l’antica larghezza stradale appare angusta. La strada diventa un vicolo; ai piani più bassi la luce non arriva e le abitazioni sono molto umide. In questi grossi caseggiati, alla metà del secolo XVII, vivono circa 350.000 persone in condizioni igieniche e sanitarie precarie. Accanto a questi edifici, con stridente contrasto, se ne profilano degli altri ampi, soleggiati, con giardini e chiostri, appartenenti alle classi privilegiate. Questi complessi e le “insule conventuali” occupano buona parte del suolo cittadino. Dall’inizio del secolo XVII, nobili ed ecclesiastici profittano di privilegi e sgravi fiscali e non sottostanno alle prammatiche che proibiscono nuove costruzioni. Di ciò si lagnano i privati che preoccupati del continuo espandersi delle “fabbriche” dei religiosi, chiedono al re di Spagna, invano e a più riprese tra il 1605 ed il 1644, di poter costruire liberamente dentro e fuori le mura. Gli ecclesiastici ed i nobili, invece, ingrandiscono i propri edifici, escono dalle mura e costruiscono grossi complessi fuori città. Le chiese di Santa Maria in Portico, San Giuseppe a Pontecorvo, Santa Maria di Caravaggio, San Domenico Soriano, Santa Maria degli Angeli alle Croci, Santa Maria della Verità, il palazzo Donn’Anna e le ville che sorgono in campagna ne sono la prova.
Questi edifici nascono senza un piano prestabilito e saranno i primi nuclei del disordine urbanistico napoletano. Il popolo era schiacciato dal peso delle tasse e dalla politica coloniale spagnola con autorità sanguinarie che portarono carestie, miserie, sopraffazione e inquisizione. Fu pertanto un periodo storico di grandi fermenti rivoluzionari che finirono per sfociare nel 1647, nella grande rivolta capeggiata da Masaniello che portò la città a vivere momenti molto intensi e drammatici che mandarono al patibolo centinaia e centinaia di presunti ribelli.
In questo clima, già di per sé molto difficile, il morbo pestilenziale rappresentò il colpo di grazia. Le precarie condizioni igieniche unite a fattori quali l’elevato numero di animali e il cattivo stato delle strade contribuirono a facilitare la diffusione del contagio portato dalle navi sarde. Nel tessuto cittadino non trascurabile era l’area destinata agli ospedali. Nel secolo XVII, la città di Napoli ne contava cinque principali: gl’Incurabili, Sant’Eligio, i Pellegrini, San Giacomo e l’Annunziata, sorti tutti da importanti istituzioni pie, con proprie leggi e prerogative. L’ospedale degl’Incurabili, fondato nel 1519, si trovava sulla collina di Sant’Agnello a Caponapoli e riceveva ogni specie di ammalati incurabili, compresi quelli di mente ed i tignosi. L’ospedale di Sant’Eligio, fondato nel 1270, era in piazza del Mercato e si occupava dell’assistenza agli infermi poveri, specialmente stranieri. L’ospedale della Trinità dei Pellegrini, sorto nel 1579, era situato presso il luogo detto del “Biancomangiare”, inseguito denominato Pignasecca, e ospitava i vagabondi ammalati. L’ospedale di San Giacomo sorse nel secolo XVI per assistere gli spagnoli poveri ed era contiguo all’omonima chiesa nei pressi di viaToledo. L’ospedale dell’Annunziata, sito presso il quartiere della Duchesca, fondato nel secolo XIV, accoglieva ammalati particolarmente gravi. Questi ospedali si trovavano in origine in spazi ampi e salubri, lontani dalle zone più densamente abitate. Con il passare degli anni, però, furono risucchiati nel centro cittadino e rinchiusi tra enormi fabbricati. Essi, pertanto, non erano più idonei a svolgere il proprio compito e sopravvivevano grazie alle loro colossali amministrazioni che godevano di grande credito nell’economia cittadina. Nel 1789, come afferma il Galanti, gli ospedali di San Giacomo, degli Incurabili e di Sant’Eligio disponevano di 442 posti letto e, con gli altri due ospedali e con le case di cura private della Pace, di Sant’Angelo a Nido e della Pazienza Cesarea, raggiungevano forse i mille posti letto. Sembra inspiegabile che il governo vicereale non avesse provveduto con tempestività ad emanare bandi per fronteggiare il morbo incipiente, specialmente se si pensa che pochi decenni prima erano state adottate misure straordinarie per prevenire un evento simile a quello del ’56. Nel 1619, infatti, gli Eletti della città di Napoli avevano deciso di far costruire un lazzaretto sull’isolotto di Chiuppino, situato nelle prossimità dell’isola di Nisida. La costruzione era stata dettata dalla necessità di avere a disposizione luoghi più ampi ed attrezzati, perché il Mediterraneo era minacciato dalla peste. Il morbo aveva attaccato la Francia e in Italia risultavano contagiate Salerno e la Sicilia. Per la fabbrica del lazzaretto furono stanziati 4.800 ducati e l’opera fu portata a termine in due anni, dal 1626 al 1628. Perciò, nel 1628, gli Eletti lasciarono il fitto di alcune grotte e camere di proprietà del monastero di Santa Maria delle Grazie, situate a Posillipo, dove venivano dirottate le navi per essere ispezionate dai Deputati della salute e, se trovate infette, per essere “purgate”. Ingegnere dei lavori fu Alessandro Ciminiello e «mastro fabbricatore» Giovan Battista Ferraro. Dal 1624, inoltre, si era istituito un cordone sanitario e molti medici, soldati e marinai, oltre ad una nutrita schiera di impiegati, erano stati assunti alle dipendenze della Deputazione della salute per vigilare sull’applicazione del cordone. Nel1630 lo stato di pericolo continuava a persistere, anche se, per effetto delle suddette misure precauzionali, ma si era evitato che il morbo apparisse a Napoli.
Misure immediate, invece, non furono adottate nel 1656, anzi si tentò, in un primo momento, di nascondere l’apparizione del morbo, mentre c’era chi propagava la notizia che erano stati gli spagnoli a diffondere la peste in città, per punire i napoletani della sommossa del 1647. Il vicerè conte Castrillo, non voleva riconoscere la peste, poiché avrebbe dovuto sospendere gli aiuti militari ai suoi compatrioti, impegnati a Milano contro i Francesi. La rivoluzione del 1647 aveva, danneggiato non poco l’economia del Regno, che solo allora andava riprendendosi, come risulta anche dalla circolazione dei banchi pubblici napoletani, aumentata da 1.631.485 ducati del 1649 ai 4.022.074 ducati del 1655. La notizia della peste avrebbe certamente provocato nuove difficoltà economiche. È improbabile, del resto, che le autorità non avessero compreso la gravità del momento, se già nel mese di marzo gli Eletti della città disposero di riattare i “purgaturi” di Nisida a Chiuppino, che, però, non furono utilizzati per la bisogna, perché troppo lontani e quindi difficilmente raggiungibili in breve tempo. È quasi certo, che non ci si rese bene conto della gravità e delle conseguenze della pestilenza, ma la grave colpa dell’autorità fu quella di permettere che da gennaio a maggio ci fosse un enorme esodo da Napoli verso le province. Andrea Rubino rileva che almeno la terza parte della popolazione era fuggita, contribuendo, in tal modo, a diffondere la peste in ogni terra del Regno. Un collegio di medici, nominato dal Viceré, non trovò di meglio che far bruciare tutti i «baccalà» e le «sarache», quali veicoli della terribile malattia. La città scarseggiava di tutto perché, temendosi tumulti, ogni cosa era stata incettata ed anche ciò preoccupava non poco gli Eletti, che già da tempo avevano chiesto al Viceré il permesso di eleggere una deputazione particolare. Tornarono a richiederla, aiutati in questo anche dal nunzio apostolico, Giulio Spinola. Il governo aveva proibito la riunione nelle piazze a causa della rivolta del 1647 e della venuta della flotta francese, per cui era impossibile formare una deputazione che prendesse provvedimenti necessari per frenare il morbo. Ma, finalmente, nell’ultima decade di maggio, l’epidemia fu ufficialmente riconosciuta e si elesse una Deputazione della salute che subito si mise al lavoro. Fu istituito un cordone sanitario, con la proibizione per chiunque di entrare ed uscire dalla città senza bollettini di sanità firmati dai Deputati della salute. Fu utilizzato come lazzaretto l’ospedale di San Gennaro ubicato nelle vicinanze della chiesa della Sanità e, perciò, accessibile facilmente da ogni quartiere. Inoltre, esso aveva nelle vicinanze grandi caverne dove potevano essere seppelliti i morti. Governatore dell’ospedale con poteri straordinari fu Filippo De Dura; si ristrutturarono alla buona i vecchi ambienti e fu assunto nuovo personale per assistere gli ammalati. «Spenditori» furono Raimo Bello, Tellurio Sparano, Giovan Battista Iovene, Giuseppe Galdiero e lo stesso De Dura, che si successero a mano a mano che cambiavano incarico o decedevano. In seguito ad altri provvedimenti poi emanati vennero sigillate le abitazioni dei morti appestati , e ai parenti fatto obbligo di restar chiusi nelle case, mantenuti a spese del governo. I mobili e gli abiti dei defunti vennero bruciati, venne fatto divieto di seppellire i cadaveri nelle chiese, e venne vietato abbracciare infetti o morti, mentre coloro che erano ammalati vennero condotti, anche contro la loro volontà, nei lazzaretti o negli ospedali. Gli ammalati venivano portati nel lazzaretto con carri tinti di rosso e provvisti di campanello. Somme considerevoli furono spese per comprare medicinali; aceto e verderame per disinfettare tutto ciò che si toccava; tela per far vestiti, cappucci e lenzuola; sedie per trasportare gli infermi; tavolette per poggiarvi il cibo; letti e materassi; calce per coprire i morti. Al lazzaretto furono assegnati medici, barbieri ed ecclesiastici, continuamente sostituiti per il loro decesso. Si dettarono disposizioni molto drastiche per il buon andamento del lazzaretto, comminando la pena capitale per i trasgressori. Si ordinò anche di tenere un registro per annotarvi gli ammalati che entravano, quelli che uscivano ed i decessi. Queste norme, però, difficilmente erano rispettate, e solo quando i Cappuccini entrarono nel lazzaretto a portare il proprio aiuto, fu possibile ottenere un poco d’ordine. Si rinforzò il servizio delle feluche per la sorveglianza della costa, mentre a terra squadre di soldati facevano la guardia ai vari accessi alla città ed al porto e controllavano il seppellimento dei cadaveri, per evitare che fossero lasciati per le strade. Il 30 maggio venne emanato un bando della Deputazione della salute con il quale si ordinava che ognuna delle 29 ottime eleggesse un proprio deputato che, con il capitano dell’ottima, visitasse continuamente le abitazioni del quartiere, alla ricerca di ammalati. Questi ultimi, dopo la visita del medico, dovevano allontanarsi dalla propria abitazione, che veniva chiusa con un catenaccio e segnata con una croce bianca, dopo aver bruciato ogni cosa appartenuta ai contagiati. Con lo stesso bando furono precettati medici, chirurghi e barbieri e venne ordinato che i cani fossero trattenuti in casa dai padroni; a distanza di 24 ore dall’emanazione del bando si sarebbero uccisi tutti i cani trovati nelle strade. Si vietava anche il ricovero di ammalati nel lazzaretto senza fede del medico o del deputato dell’ottima. Un altro bando del 12 giugno, richiamandosi al precedente, ribadiva le disposizioni sui cani, anzi metteva una taglia sul loro collo e annunziava, inoltre, che tutti i maiali trovati per le strade della città sarebbero stati presi e venduti, compresi quelli appartenenti all’abbazia di S. Antonio Abate. Ma queste misure arrivarono troppo tardi quando oramai si contavano duemila, tremila, e talvolta anche cinquemila vittime al giorno! Via Toledo, Largo Mercatello ( l’attuale piazza Dante) e le strade del centro erano piene di cadaveri e moribondi, ammucchiati l’uno sull’altro, al punto che le carrozze vi passavano sopra. In vari punti della città bruciavano roghi di carne umana. La terribile peste ovviamente non risparmiava nemmeno le alte autorità civili ed ecclesiastiche e nemmeno gli aristocratici che potevano permettersi di rintanarsi nelle loro ville in collina al Vomero o nei dintorni della città. Per scampare alla morte l’arcivescovo Filomarino, dopo aver visto morire il ministro dell’inquisizione, alcuni amici gesuiti, un centinaio di cortigiani e tutti i capitani delle milizie decise di rifugiarsi nella Certosa di San Martino. Tutti gli uomini di chiesa in seguito a questo poco edificante esempio si diedero alla macchia nei confronti dei poveri ammalati venendo meno alla loro missione caritatevole nei confronti dei poveri e dei sofferenti. Il Papa sollecitò ripetutamente chiarimenti ai responsabili napoletani di tutti gli ordini religiosi sul loro scarso impegno accanto agli appestati e sull’ effettivo numero di religiosi morti per averli assistiti. Il governo spagnolo, fece credere al popolo che erano stati francesi a spargere il contagio diffondendo strane polveri ( in quel tempo il conte Guisa assediava Napoli per conto del re di Francia) e ciò provocò una reazione feroce nei confronti di chiunque fosse straniero. Vari sparsi gruppi di persone organizzarono servizi armati di ronda alla ricerca di untori o stranieri francesi su cui sfogare la loro rabbia e rancore. Le vittime furono centinaia, e non venivano solo uccise, ma i loro corpi dilaniati e fatti a pezzi. I pochi addetti che dovevano raccogliere i cadaveri, e poi seppellirli si rifiutavano a questo ingrato compito e nel panico collettivo si utilizzarono i forzati delle galere, ma quando la peste li ebbe decimati, si cominciarono a precettare anche i passanti. Si ottenne così l’effetto paradossale di far chiudere in casa molti dei sopravvissuti, mentre l’orrore e la puzza del tanfo emanato dai corpi in putrefazione campeggiarono per le strade sotto il sole ed il caldo asfissiante del mese di luglio. La gente vagava senza meta per quella era ormai una città fantasma. I lattanti infettati dal morbo lasciati per strada, i bambini, rimasti orfani e senza assistenza, abbandonati al loro destino fatto di poche speranze di sopravvivenza. Molti, per porre fine alle loro sofferenze, si gettavano dalle alture, nei pozzi, e dai tetti dei palazzi. La gente era terrorizzata dal morbo e molti presi dalla pazzia si calavano nelle cisterne credendo che l’acqua fresca li preservasse dal male. Coloro che avevano ancora la forza abbandonavano la capitale nell’illusione di trovare ricovero nelle altre città del regno, per vedersi però respinti alle porte dalla sorveglianza imposta dalle disposizioni vicereali. Quattrocentosessantamila vittime della epidemia, secondo la stima dei Bianchi, furono seppelliti nelle cave sotterranee: la più famosa indicata con il nome del cimitero del Pianto e della Pietà, e l’altra sottostante il “Rione Mater Dei”, detta Grotta delle Fontanelle.
Terribile la scritta posta sulla lapide che faceva da sigillo Tempore pestis 1656 – Non aperietur .
Molti corpi finivano in mare e molti riemergevano portandosi sulle spiaggia di Chiaia producendo per i processi putrefattivi un terribile tanfo sotto il cocente sole estivo.
In città le botteghe restarono chiuse per mesi, gli alimenti scarseggiarono, il porto isolato e le campagne abbandonate. Poi accade un miracolo. In piena estate, il 14 agosto, quando sembrava non esserci più speranza, una forte pioggia si abbatte su Napoli: un nubifragio fuori stagione che si rivelò decisivo per le sorti della città. L’acqua spazzò via gli umori pestilenziali e purificò l’atmosfera. Sotto l’impeto del temporale e del tremendo acquazzone la fogna di via Toledo, e la zona dei Vergini nel quartiere sanità, si riemprono dei corpi degli appestati, e straripando divenne un torrente di cadaveri, corrose le fondamenta dei palazzi e provocò il crollo di centinaia di abitazioni. Ma la peste, iniziò a rallentare la sua corsa, i decessi diminuirono di intensità, i lazzaretti e gli ospedali a poco a poco si svuotarono fino a che, nel dicembre di quello stesso anno, Napoli viene finalmente dichiarata libera di ogni sospetto.
Il bilancio finale, fu raccapricciante: 250.000 morti su un totale di 450.000 abitanti rappresentando senza ombra di dubbio, la più grande tragedia nella storia della nostra città. Alla fine dell’epidemia la città appariva quasi spopolata; molte generazioni di intellettuali, politici,
artisti, furono del tutto cancellate, la metà delle famiglie distrutte, e interi piccoli rioni estinti. Anche nel resto del regno l’evoluzione dell’epidemia non fu molto diversa (si contarono circa 600.000 perdite umane) con un tasso di mortalità oscillante fra il 50 e il 60% della popolazione.
Città vescovili come Aversa, Teano, Pozzuoli, furono svuotate e piccoli centri quasi estinti.

Micco Spadaro 
Largo Mercatello (attuale Piazza Dante) durante la Peste del 1656


Centinaia di persone incominciarono a morire ogni giorno e le strade cominciarono ad apparire lastricate di cadaveri.
Centinaia di persone incominciarono a morire ogni giorno e le strade cominciarono ad apparire lastricate di cadaveri.

Cimitero delle Fontanelle
Lo spazio delle cave di tufo fu usato a partire dal 1656, per tumulare i morti di peste. Uno studioso avrebbe contato, alla fine dell’Ottocento, circa otto milioni di ossa di cadaveri rigorosamente anonimi. Oggi si possono contare 40.000 resti, ma si dice che sotto l’attuale piano di calpestio vi siano compresse ossa per almeno quattro metri di profondità, ordinatamente disposte, all’epoca, da becchini specializzati.I resti anonimi quindi si moltiplicarono col passare degli anni ed è qui che confluirono, oltre alle ossa trasferite dalle terresante, anche i corpi dei morti nelle epidemie. Alla fine dell’Ottocento alcuni devoti, guidati da padre Gaetano Barbati, disposero in ordinate cataste le migliaia di ossa umane ritrovate nel cimitero. Per lunghi anni, il cimitero è stato teatro di questa religiosità popolare fatta di riti e pratiche del tutto particolari. In esso furono collocate le ossa ritrovate nel corso della sistemazione di via Toledo degli anni 1852-1853, risalenti alla peste del 1656. Ed ancora, nel 1934, vi furono collocate le ossa ritrovate ai piedi del Maschio Angioino durante i lavori di sistemazione di via Acton e quelle provenienti dalla cripta della chiesa di San Giuseppe Maggiore demolita nello stesso anno,

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