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La storia mai raccontata dell’eroica difesa di Civitella

Posted by on Dic 1, 2018

La storia mai raccontata dell’eroica difesa di Civitella

Il 22 marzo 1861 cadeva, dopo sei mesi di strenua ed indomita resistenza la piazzaforte di Civitella del Tronto, dove si erano asserragliate poche centinaia di soldati napoletani, che con l’aiuto dei montanari abruzzesi tennero alta la Bandiera delle Due Sicilie

di Roberto Maria Selvaggi

Nella primavera del 1860 la vita trascorreva serenamente a Civitella del Tronto. Un corpo di spedizione perfettamente organizzato percorreva gli Abruzzi in lungo e in largo, al comando del più giovane generale dell’esercito napoletano: Giuseppe Salvatore Pianell.

Carlo Filangieri, ministro della guerra del primo governo di Francesco II, lo aveva voluto organizzare per sorvegliare la frontiera con lo Stato Pontificio, anche per prevenire una eventuale invasione garibaldina da quella direzione. La vita della Real Piazza di Civitella del Tronto si era così improvvisamente rianimata: reparti di passaggio, buoni affari per le locande, lavori di riparazione e di riassetto della fortezza e delle mura.

Per secoli Civitella fu la sentinella della frontiera napoletana a nord. Nel 1860 la sua importanza era scemata a causa della costruzione della strada litoranea, che la tagliava fuori della comunicazione con il Regno. Proprio a causa della ispezione del generale Pianell il comandante, colonnello Vallese, era stato richiamato e sostituito in tutta fretta dal maggiore Luigi Ascione, come si evince dai ruoli militari del 1860.

Con lui erano il Comandante in seconda Maggiore Salvatore Salinas, il Capitano Aiutante Maggiore Raffaele Tiscar, il Primo Tenente Pasquale Le piane, allontanato per viltà dal 10° Abruzzo e terzo qui al comando della Quattordicesima compagnia di fanteria di riserva, 142 uomini e l’Alfiere Raffaele Giudice, che comandava cento uomini dell’ottava compagnia del primo reggimento veterani. Quaranta uomini al comando dell’aiutante Giuseppe Santomartino componevano il distaccamento di artiglieria.

Il capitano del genio Menzingher era passato al nemico il 7 settembre.

A prima vista dunque una sorta di accozzaglia di anziani soldati e di ufficiali di secondo ordine, mandati nella lontana fortezza di frontiera. Ma un episodio cambiò il volto della guarnigione: il 4 settembre il comandante delle armi in Abruzzo, generale Luigi De Benedictis, già venduto al nemico, decide di compiere alcuni avvicendamenti per agevolare le forze rivoluzionarie nella regione. Questo anziano trombone, nato a Foggia nel 1793, era uscito dalla Nunziatella nel 1814 come sottotenente. Non aveva mai combattuto in vita sua, e si era trovato alla sciagurata battaglia di Antrodoco nel 1821 come ufficiale del genio.

Rimasto miracolosamente in sella con la reazione, fu capace di repentini mutamenti, entrando poi nelle grazie del generale del Carretto, e distinguendosi solo in repressive operazioni di polizia.

Dopo una carriera trascorsa a navigare con qualsiasi mare, fu inviato in Abruzzo alla promozione a Generale.

Quando il generale Pianell giunse nella regione nel luglio 1859, De Benedictis comprese quel che sarebbe accaduto e cambiò di nuovo e circospettamente casacca. A Teramo, nell’estate del 1860, stanziavano alcuni reparti del 3° battaglione della Gendarmeria Reale, un corpo simile agli attuali Carabinieri, compatto e fedele alla dinastia. Per levarseli di torno il De Benedictis ordinò il loro trasferimento nella Piazza di Civitella.

Ebbe poi la sfacciataggine di comunicare a Gaeta le dimissioni sue e dei suoi figli. Il 15 settembre a Gaeta fu condannato a morte in contumacia per diserzione e viltà.

Se di questi provvedimenti si fosse fatto uso dopo Calatafimi, forse oggi racconteremmo un’altra storia.

Quando Vittorio Emanuele II entrò in Abruzzo il De Benedictis andò ad accoglierlo, e si sperticò in mielose e stomachevoli manifestazioni di giubilo. Il Re sabaudo, per contro, trattandolo come una pezza da piedi arrivò persino a chiedergli se avesse mai fatto la guerra.

Comunque il nostro riuscì ad ottenere il passaggio nell’esercito italiano, nonostante la proibitiva età.

Il comandante dei gendarmi trasferiti a Civitella insieme ai suoi 380 uomini era Giuseppe Giovane, 60 anni di età e 44 di servizio. Da volontario di cavalleria nel 1817, l’anno successivo passò all’arma di artiglieria, percorrendo tutti i gradi della carriera prima da sottufficiale e poi da ufficiale; nel 1841, da poco promosso, era passato alla Gendarmeria.

Giovane aveva subito preso cognizione della grave situazione di disciplina e di armamento della piazza, e aveva operato con fermezza nei confronti del comandante Ascione, perché la fortezza fosse posta in stato di difesa. Il 7 settembre Garibaldi entrava in Napoli, ed il governo napoletano si trasferiva a Gaeta per preparare l’ultima resistenza.

Il 9 settembre venne affisso nella Piazza abruzzese, a firma del comandante Ascione, un bando militare con cui si comunicava lo stato d’assedio.

Il comandante militare borbonico di Teramo, generale Agostino Veltri, che aveva aderito al nuovo governo degli invasori, ordinò all’Ascione di cedere la Piazza alle forze rivoluzionarie. Anche quest’altro anziano campione di camaleontismo, nato a Forenza in Basilicata nel 1795, si descrive benissimo in varie fotografie dell’epoca: capelli tinti, forse in omaggio a Vittorio Emanuele, e sul petto un’accozzaglia di decorazioni miste borboniche e piemontesi, tanto per non rinunciare a niente e per dare buon esempio del praticissimo adagio “Comunque vada, me la cavo”.

Il consiglio di difesa della Piazza era ormai nelle mani del Capitano Giovane, e l’ordine fu rigettato: i rivoluzionari teramani tentarono di corrompere i soldati, come era uso da parte dei “liberatori”, ed il capo garibaldino Tripodi si recò ad incontrare l’Ascione per “far arrendere col denaro quei miserabili ivi rinchiusi”.

Ascione rifiutò e chiese ordini a Gaeta; questi giunsero immediatamente, con le istruzioni perentorie di prolungare ad oltranza la difesa della Piazza. Intanto iniziava spontanea e feroce la guerriglia: i contadini abruzzesi, realisti da sempre, come nel 1799 e nel 1806 si organizzarono in bande che battevano l’intera regione, opponendosi con tutti i mezzi all’invasione piemontese.

In proposito così scrisse un autore indiscutibilmente liberale come Marc Monnier sulla vicenda abruzzese: “Furono invasi con violenza i villaggi, rovesciate le autorità, assaltate le cose, scannati i liberali: tuttavia sarebbe ingiusto assimilare questi movimenti al brigantaggio. Legalmente parlando i montanari degli Abruzzi usavano del loro diritto”. Nel mese di ottobre insorsero numerosi comuni, dove i contadini impedirono lo svolgimento del plebiscito farsa, e l’episodio di Campli, un piccolo paese limitrofo a Civitella, è sintomatico del clima di quei giorni.

Un plotone di guardie nazionali si scontrò con una colonna di contadini armati, uccidendone il capo, Pietro Diodati. Il consiglio d’assedio della Piazza decise allora di effettuare una sortita armata per punire i rivoluzionari che avevano invaso il Paese.

Al comando del capitano Giovane e dei tenenti Le Piane e Giudice tre colonne di gendarmi e di contadini armati mossero su Campli: i rivoluzionari fuggirono verso Teramo, lasciando un gran numero di fucili e di cavalli.

In pochi giorni tutti i paesi vicini si ribellarono, e la bandiera napoletana tornò a sventolare su Campli, Nereto, Controguerra, Torrano e Corropoli. La repressione però non si fece attendere molto: il 2 novembre giungono in zona le prime truppe di occupazione piemontesi.

Sono 500 uomini, che si aggiungono ad altrettanti garibaldini al comando del maggiore Carrozzi.

Il governo provvisorio garibaldino emana un’ordinanza che fa già prevedere che fine faranno tutti quelli che non si uniformeranno all’occupazione: “Gli attruppamenti saranno dispersi con la forza. I reazionari presi con le armi alla mano saranno fucilati. Gli spargitori di voci allarmanti saranno considerati come reazionari e arrestati e puniti militarmente e con rito sommario”.

Ogni comunicazione con la Piazza di Civitella sarà senza meno punita con la morte. Inizia, prima da parte dei collaborazionisti e in seguito da parte degli invasori, il massacro dei meridionali.

La Piazza viene posta in stato di blocco, ma le bande partigiane molesteranno per lungo tempo gli assedianti, causando loro innumerevoli perdite.

Beniamino Di Pietro da Campli, Vincenzo Palmieri da Canzano, Giuseppe Padre da Cermignano, Giobbe Sbardella da Castellalto, Domenico Di Girolamo da Corropoli, Antonio Cucciola da Nereto, Pasquale Clemente da S. Omero, Bonaventura Di Zopito da S. Egidio, Eugenio Capone da Tortoreto e Generoso Volpi da Valle Castellana. Questi i nomi dei capi delle bande che, nonostante la cancellazione violenta della memoria storica e delle loro vite, ci sono stati tramandati dalla tradizione orale degli abitanti, e dai bandi da cacciatori di taglie dei piemontesi.

Ma il Capitano Giovane non rimane inerte ad aspettare che i nemici ingrossino le loro fila e compie alcune sortite. Il 1° dicembre i soldati della Piazza, di concerto con le bande partigiane attaccano i piemontesi, ma vengono respinti. Di sorpresa due giorni dopo la sortita si ripete, e con l’appoggio del fuoco d’artiglieria della fortezza, i reparti sardi vengono sgominati.

A questo punto entra in campo una sorta di belva senza alcuna pietà umana, degno rappresentante di quella progenie di barbari che ha invaso e martoriato il Regno delle Due Sicilie. Ferdinando Pinelli, piemontese doc, comandante militare negli Abruzzi, che giunge nella zona con tre compagnie di bersaglieri, una di fanteria e dieci cannoni, per “bonificare la zona”, come lui stesso amava dire.

Insieme all’invito ad arrendersi il 6 dicembre 1860 iniziano le minacce da bravaccio di terz’ordine: “se non vi arrendete non vi rimarrà che morire di fame o di essere passati a fil di spada”. Le spie napoletane raccontarono ai soldati della Piazza che il Pinelli avrebbe comunque massacrato la guarnigione anche in caso di resa, e questo costrinse il maggiore Ascona a declinare l’invito.

Per una ventina di giorni la Piazza fu bombardata continuamente, ma seppe rispondere all’assediante danneggiando molti cannoni. Per un errore di presunzione il Pinelli trasferì alcuni reparti ad Ascoli sguarnendo la difesa, e subito, il 21 dicembre il capitano Giovane, con 200 paesani armati e 100 gendarmi, effettuò una sortita che ebbe effetti micidiali sulla truppa piemontese ricoverata nel convento di S. Maria dei Lumi, con due ufficiali e 13 soldati morti.

Fino al 12 gennaio la situazione fu costellata da attacchi giornalieri da parte delle bande partigiane alle spalle dei piemontesi. Fu poi stipulato un armistizio che durò alcuni giorni, per un tentativo piemontese di giungere ancora una volta ad una resa.

Il fatto nuovo fu l’arrivo di un messaggio da Gaeta, anch’essa assediata, da parte di Francesco II. Questo messaggio, datato 17 gennaio, galvanizzò la guarnigione: “Un pugno di bravi, issando l’avito ed immacolato vessillo, combatte l’ira della rivoluzione e la più vile delle nemiche aggressioni. Sia a duratura gloria l’eroico vostro comportamento, modello ed esempio di fede e di valore, mentre, ammirati dall’Europa, compiamo l’opera di liberare dall’oppressione straniera questa bella nostra terra natale”, recitava il messaggio, insieme con la promozione di un grado di tutti i componenti la guarnigione, e la promozione a Colonnello del Capitano Giovane.

Il 3 febbraio il Pinelli getta la maschera, ed emana un proclama molto esplicativo, citiamo solo i passi più significativi: “Ufficiali e soldati! Voi molto operaste, ma nulla è fatto quando rimane qualcosa da fare. Un branco di questa progenie di ladroni ancora si annida fra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Noi li annienteremo, e schiacceremo il sacerdotal vampiro che con le sozze labbra succhia da secoli il sangue dell’Italia nostra, purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infettate dall’immonda sua bava…”. E’ superfluo ogni commento su questa che doveva essere una “liberazione”!

Il proclama del generale Pinelli suscita orrore ed indignazione in tutta Europa, al punto da costringere il governo piemontese ad allontanarlo, anche se per poco, dal comando. Verrà sostituito, ironia della cattiva sorte, da Luigi Mezzacapo, disertore napoletano nel 1848, considerato, a torto, meno feroce e più disponibile a trattare la resa.

Mezzacapo rafforzò con uomini e mezzi la forza assediante, munendola di cannoni di grosso calibro poi, per l’ultima volta propose la resa al comandante, annunciando che Francesco II aveva lasciato il paese.

Il colonnello Giovane a questo punto aderì, ma non furono dello stesso avviso i sottufficiali ed i soldati, che pretesero di inviare dei messi a Gaeta per sincerarsi della resa della Piazza e della partenza del Sovrano.

Il Giovane, con il maggiore Salinas e pochi altri uomini fuggì la mattina del 16 febbraio e si consegnò ai piemontesi; la mattina seguente inviò una lettera al comandante Ascione in cui lo esortava a cedere. Questo atto provocò una sorta di ammutinamento degli uomini, che in pratica esautorarono gli ufficiali e si posero sotto il comando del tenente Santomartino e del sergente Messinelli.

Da quel momento un inferno di fuoco fu lanciato ogni giorno sulla infelice cittadina; il 14 marzo si arrende anche Messina, e da Roma Francesco II, pressato dalla diplomazia francese, decide di inviare il generale Giambattista della Rocca per convincere i difensori a rendere la piazza ed a cessare le ostilità. Questi giunge ad Ascoli accompagnato da un tenente di gendarmeria e da un capitano francese. Gli viene subito promesso di raggiungere Civitella ma, non essendo conosciuto dai soldati, la cui maggioranza sospetta essere tutto uno stratagemma nemico e respinge la proposta, chiedendo ancora l’invio di due staffette a Roma per conoscere direttamente la volontà del Re.

Ripartito per Roma il della Rocca gli assedianti ripresero il bombardamento, che fu eseguito senza sosta fino al 20 marzo, quando il comandante Ascione chiese la resa a qualunque condizione, e sul pennone della fortezza fu issata la bandiera bianca.

Alle 4 del pomeriggio Luigi Mezzacapo entrava trionfante nella cittadina, e provvedeva a far arrestare e fucilare immediatamente il sergente Messinelli ed il capo partigiano Bonaventura del Zopito. Nessun processo, ma solo questa frase su un telegramma inviato a Cavour: “Ho creduto di dover dare un pronto esempio facendoli fucilare”.

Volgari assassini, che continuarono a fucilare senza pietà anche nei giorni successivi. Giuseppe Santomartino sfuggì alla fucilazione per intercessione dei francesi, e fu incatenato e condannato all’ergastolo nelle orrende carceri di Savona, dalle quali tentò poco dopo di fuggire, tentativo che gli costò la vita. Padre Leonardo Zilli, frate cappuccino, anche lui una delle anime della resistenza, fu scovato nascosto in un pozzo ed immediatamente fucilato, negandogli anche l’Eucarestia.

Per maggior scherno e mortificazione il 25 marzo furono fatte saltare in aria tutte le mura di cinta e buona parte dell’antico forte, perché ancora una volta la memoria potesse essere cancellata, e a suon di bombe e di fucilazioni anche l’eroico popolo di Civitella dimenticasse le sue origini per diventare a pieno titolo degno di essere italiano.

fonte

“Il SUD Quotidiano” del 21/3/98

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