LA TELA DEL RAGNO e QUALCOSINA SU GIOVANNI AGNELLI (III)
LA SVOLTA
È questo l’anno della svolta, quello in cui Agnelli capisce che, con il ruolo ormai riconosciuto anche a livello statutario di amministratore delegato, potrebbe e dovrebbe dare una vistosa sterzata alla gestione dell’azienda.
Su un fronte gli pare di essere particolarmente impedito nella sua volontà: la questione dei dividendi. Già nel 1903 la richiesta di un modesto prelievo sugli utili era stata osteggiata in Consiglio; nel 1904 l’utile pari al 26,5% del capitale sociale è interamente assorbito dal dividendo, su precisa richiesta dell’Assemblea. Una simile gestione, secondo Agnelli, non può continuare. Bisogna liberarsi dei vecchi azionisti, ancorati ad una visione ottocentesca dell’impresa, ed inadatti alla gestione di un’azienda industriale che vuole proiettarsi in campo internazionale. Con Scarfiotti decide un primo intervento: la riduzione del taglio delle azioni, che viene stabilito il 12 luglio 1904, “per procurare una maggiore commerciabilità a! titolo in un momento…di forte richiamo de! risparmio privato verso La Borsa”. L’azione da 200 lire (peraltro volata in Borsa a 3300 lire) viene spezzettata in otto da 25, frazionando così il capitale sociale in32.000 azioni. Molti azionisti protestano: per esempio, Biscaretti, che capisce benissimo che si tratta di un’operazione a tutto svantaggio dell’azionariato originario e mirante a favorire (divide et impera nuova versione) un ristretto gruppo di potere al vertice. La Borsa dà invece ragione alla decisione: il nuovo titolo, in poco tempo, passa da 25 lire a 425 lire. Seconda mossa: occorre che il mandato di amministratore delegato duri almeno cinque anni, e non debba, come fino a quel momento, essere confermato anno per anno. Detto, fatto: a marzo del 1905 Scarfiotti propone una modifica allo Statuto, e il mandato di Agnelli viene confermato per cinque an111. Adesso 1 c e sua posizione di potere è davvero forte. Adesso sì che si può procedere davvero, e cercarsi l’appoggio delle banche giuste, magari la Commerciale, di Otto Joel, Toeplitz e Federico Weil, che gli sembrano più coraggiosi, più spregiudicati e intraprendenti del vecchio Banco Sconto e Sete.
Ed entra in gioco Michele Ansaldi, inconsapevole pedina su una scacchiera davvero impegnativa. Il 30 novembre del 1904, forte di un’azienda di lavorazioni meccaniche molto affermata, e desideroso anch’egli di lanciarsi sul nuovo settore delle automobili, propone al suo Consiglio di Amministrazione l’opportunità di una combinazione con la casa germanica Daimler, per un avvio di produzione su licenza. Il Consigliere Scarfiotti (lo stesso Scarfiotti al vertice della Fiat) sentita questa possibilità, decide di dimettersi per non incorrere in un palese conflitto di interessi, visto che l’auspicata produzione porrebbe la Ansaldi in concorrenza con l’impresa di cui è Presidente. È un gesto nobile, che non lo esime comunque dall’avvertire la Fiat, o forse soltanto Agnelli. Questi fiuta il pericolo di trovarsi in casa un temibile concorrente; ma intravede anche la possibilità di arrivare a coinvolgere nelle sorti della sua azienda la Banca Commerciale, ossia la Banca di appoggio dell’impresa nata nel 1904 tra Michele Ansaldi e Giovanni Battista Ceirano. La stessa Banca Commerciale é ingolosita dalla prospettiva di sostituirsi al Banco Sconto e Sete, e non esita a premere su Ansaldi per addivenire ad un accordo con Agnelli, sostituendo la Daimler con la Fiat. “Il 17 corrente – recita il verbale della seduta del CdA Ansaldi del 22 febbraio 1905 – ebbe i! gerente la prima contezza di trattative già avviate con La Fabbrica Italiana Automobili, per addivenire ad una nuova combinazione con La medesima… Benchè in massima non troppo favorevole al progetto, che contrastava con L’idea prima della Società di dedicarsi direttamente alla nuova produzione …si formulò un compromesso sommario ….” Compromesso che in realtà è l’anticamera dell’accordo: nel marzo 1905 nasce la Fiat Ansaldi, capitale di 850.000 lire (quanto quello della Fiat). Ecco cosa dice il verbale della seduta del Cda Fiat del 21 febbraio 1905:
“La Ditta Ansaldi è venuta nel fermo proposito di costruire automobili, incoraggiata anche dalla Banca Commerciale, ed ha a quest’uopo già incominciato gli studi, acquistando vetture per modello e macchinari. Specialmente per il forte appoggio che essa ha, la nuova fabbrica di automobili Ansa/di potrebbe fare alla nostra fabbrica una concorrenza dannosa; una combinazione fra noi e la Ditta Ansaldi potrebbe non solo eliminare tale concorrenza ma essere per noi fonte di utile. La Banca Commerciale è disposta ad appoggiare tale combinazione (ecco il punto focale) che avrebbe per base i punti seguenti:
- si farebbe una società anonima ed autonoma Fiat – Ansaldi per la fabbricazione di automobili di tipo diverso da quelli che costruiamo noi, e che non facciano concorrenza alla fabbricazione nostra. Il capitale sociale di tale società sarebbe di i 850.000 diviso in 34mila azioni da lire 25 caduna.
- La Società nuova si obbligherebbe a non fabbricare motori di potenzialità superiore a quella di un motore a 4 cilindri 90 x 120 mm
- La Fiat a non costruire motori di potenzialità infèriore a quella di un motore a 4 cilindri 100 x 120;
- …totale capitale alla Fiat 400.500 lire; la Banca commerciale assumerebbe per 49.500 del nuovo capitale sociale;
- g. del primo Consiglio di Amministrazione, costituito di sei membri, farebbero parte tre membri della Fiat, due della ditta Ansa/di, uno della Banca Commerciale. La presidenza sarebbe riservata alla Fiat.
I tre consiglieri che entrano nel consiglio della Fiat Ansaldi sono Scarfiotti (che nel frattempo aveva anche ritirato le dimissioni dalla Ansaldi, anzi, con la trasformazione di questa in anonima ne è diventato Presidente), Agnelli, Ceriana. Scarfiotti gioca perciò su tre tavoli: è Presidente della Fiat, della Fiat Ansaldi, della Ansaldi. Agnelli non è da meno: in un colpo solo ha raggiunto due risultati importanti, si è sbarazzato di un potenziale concorrente, ha trovato una maniera per entrare in combinazione con la Banca Commerciale senza giocarsi il sostegno del Banco Sconto e Sete, e per di più ha ottenuto un rapporto di privilegio nell’utilizzo delle officine meccaniche e della fonderia Ansaldi. Questi due fronti saranno il perno delle mosse successive, miranti sia a favorire l’interesse della Fiat (assicurarsi lavorazioni di alto pregio a prezzi di favore) ma anche la propria posizione di potere (rinnovare l’azionariato Fiat, in modo da avere le mani più libere per seguire quei moderni criteri di gestione che finora non era stato possibile seguire). La strada più semplice sarebbe l’aumento di capitale: mantenere il capitale sociale Fiat ad ottocentomila lire quando quello effettivo, di borsa, sfiora un importo da trenta a cinquanta volte superiore, è infatti anacronistico. Ma una ricapitalizzazione consegna di fatto ai vecchi azionisti il diritto di opzione, e questo, agli occhi di Agnelli, è troppo pericoloso. Occorre arrivare ad una ricapitalizzazione in qualche modo mascherata. Il molo della Banca Commerciale entra prepotentemente in gioco: la Banca dichiara nel giro di pochi mesi (gennaio 1906}01 non essere più disponibile a proseguire nella cogestione della Ansaldi. Una dichiarazione molto “tempestiva”: cade infatti a poche settimane da una richiesta rivolta alla Ansaldi dalla Fiat con la quale quest’ultima “non soddisfatta pienamente degli attuali suoi fornitori di getti bronzo e alluminio, chiede alla Ansa/di se intendesse addivenire entro il primo semestre 1906 all’impianto di una speciale fonderia per assumere la fornitura di tali getti Y alla Fiat, per circa 1000 vetture l’anno, a cominciare dall’ottobre o novembre p.v.”. Da notare che è lo Scarfiotti presidente Fiat a rivolgere alla Ansaldi questa richiesta, ed è lo Scarfiotti presidente Ansaldi che “è di parere che convenga addivenirvi in modo completo e grandioso”. Tutto in famiglia. Ma certo, l’annuncio del ritiro della Commerciale pone grossi problemi. Come si fa, ora, a proseguire sulla strada della progettata nuova fonderia, avendo sottoscritto l’accordo con la Fiat? È sempre Scarfiotti ad indicare una strada: basta sciogliere la Società. Nella seduta del 14 febbraio 1906, “il Presidente (Scarfiotti) spiega al Consiglio le ragioni della proposta di anticipata liquidazione della Società – ragioni che essenzialmente si riassumono nella convenienza di tralasciare affatto la costruzione delle macchine utensili, poco rimunerative, per dedicare l’azienda alla fabbricazione di parti diverse di automobili, lavoro assai più profìcuo e che si potrà fare su vasta scala per la Fabbrica Italiana Automobili e per altre Officine congeneri”. Otto giorni prima, nella seduta del CdA Fiat del 6 febbraio 1906, il Presidente (sì, Scarfiotti), “informa il Consiglio
(sono presenti Agnelli, Ceriana, Weill-Schott, Biscaretti, Damevino, Ferrero) che sono pervenute alla Direzione proposte di combinazioni varie per parte di altre aziende industriali. Per assorbire nuove aziende era però indispensabile fare un aumento di capitale, ed uno scoglio quasi insormontabile si trovava in un articolo del nostro Statuto, che riserva un diritto d’opzione ai soci promotori. Si presenterebbe ora, tra l’altro, l’occasione propizia di rilevare lo Stabilimento Ansaldi (da notare che il CdA Ansaldi non si era ancora tenuto!) ed era opportuno studiare il modo di ottenere lo scopo evitando le difficoltà sopra enunciate”. Ecco il piano, messo a punto insieme agli avvocati Ferraris e Bosio: “porre in liquidazione le Società Ficlf e Ansaldi; costituire una nuova società anonima con capitale di 9 milioni in azioni da 100 lire rappresentanti gli apporti delle due Società, che sarebbero rispettivamente di 8.000.000 e di 1.000.000”. A creare questa nuova società Fiat sarà un gruppo di azionisti che cede 16.000 azioni della vecchia Fiat ritirando 40. 000 azioni della nuova (per un importo di 4 milioni); i restanti 4 milioni dovranno essere sottoscritti dai liquidatori della vecchia Fiat per i poteri “che dovranno loro conferirsi, e saranno versati mediante cessioni della nuova società di attività mobiliari per pari somma”. Di nuovo, tutto in famiglia… perché lo scopo è che “i soci promotori della attuale Ficll (ossia, la vecchia) non hanno nessun diritto sociale nella nuova Società; qualunque minaccia di opposizione da parte Loro non può aver valore”. Ecco: il vecchio azionariato non esiste più. Tutti d’accordo, naturalmente, tranne Biscaretti che si dichiara contrario. Ma capisce che la sua è un’opposizione inutile: già alla seduta successiva, che ratifica la proposta, si fa scusare e non partecipa. Passano sei giorni, arriviamo al 12 febbraio (a due giorni dal CdA Ansaldi). “Il Consiglio conviene nella opinione del Presidente, che l’organismo sociale, quale esso è, non risponda più allo scopo di adattarsi alle iniziative necessarie per portare la nostra industria a quella altezza alla quale si desidererebbe arrivare. Diverse proposte venute ultimamente dall’estero obbligherebbero a combinazioni finanziarie che dallo Statuto non sono permesse senza evidente danno agli azionisti ...e perciò ... delibera unanime di proporre agli azionisti Lo scioglimento della società”. Alla fine della fiera, ecco la conta delle 90.000 azioni: 12.500 ad Agnelli, 12.185 a Damevino, 10.000 a Scarfiotti, 2.000 a Ceriana, 1.600 a Weill-Schott, e 29.850 al milanese Attilio Bossi, probabile prestanome della Banca Commerciale. Capire a questo punto come sono i rapporti di potere all’interno del CdA Fiat non è davvero difficile.
I tempi indubbiamente impongono una direzione fredda e decisa. Ad agosto, da l00 lire, le nuove azioni Fiat sono valutate 2.000 lire; ma passano poche settimane, e in autunno i titoli precipitano a caduta libera: sprofondano a 60 lire, poi addirittura a 17. Nel febbraio del 1907 l’indebitamento con le banche sale a cinque milioni. Ma non basta. Nei mesi successivi alla rifondazione alcuni azionisti sostengono di essere stati fraudolentemente privati del diritto cli partecipare, in proporzione alle quote possedute, alla costruzione della nuova Fiat. L’azione giudiziaria è intentata da Aymonino, Rey e soprattutto dalla Banca della Liguria, ossia da Figari, a cui la Società Bancaria Italiana (il vecchio Banco Sconto e Sete) aveva concesso un pacco di azioni Fiat rafforzandone così la presenza in Assemblea. La vertenza Fiat-Figari assumerà, come verrà spiegato in seguito, i contorni di un vero e proprio giallo.
Ma è la situazione di tutto il comparto industriale, e in particolare automobilistico, a sembrare in discesa libera. A febbraio del 1907 il CdA Fiat decide un ulteriore indebitamento per pagare un dividendo agli azionisti (una manovra a dir poco azzardata, come si vedrà, e di fronte alla quale si scateneranno illazioni di ogni tipo). A luglio l’indebitamento è stimabile tra gli otto e i dieci milioni. Urge la messa a punto di un programma di riassetto finanziario, che viene affidato alla Banca Commerciale e al Gruppo Piemontese, di cui la Fiat era al tempo stesso partecipe del capitale e forte debitrice. L’ingegner Dante Ferraris, genero di Giovanni Battista Diatto (a sua volta costruttore di automobili) e direttore delle officine omonime tra le principali fra quante costituivano il Gruppo Piemontese (partecipate dalla stessa Commerciale) mette a punto un progetto che prevede il consolidamento dei debiti, la costituzione di un sindacato di garanzia che assicurasse il collocamento delle azioni, la svalutazione del capitale sociale e il suo immediato reintegro. Il tutto con il consistente sostegno della Commerciale. Si dirà che “L’ingente numero di debiti ha salvato la Fiat”, e il senso è chiaro: se la si fosse portata al fallimento, avrebbe trascinato con sé anche buona parte delle aziende di cui era debitrice. Nell’Assemblea straordinaria del 27 marzo l908 il capitale sociale è svalutato a tre milioni e immediatamente reintegrato a nove, ossia ogni azionista versa 65 lire per ogni azione posseduta. Nello stesso giorno si dimettono Biscaretti, Ferrero di Ventimiglia e Weill-Schott: di tutti i vecchi soci, eccezion fatta per Ceriana, non resta traccia. Il controllo della società è saldamente in mano ad Agnelli, Scarfiotti e Damevino.
IL GRIDO D’ACCUSA
È della Stampa il primo grido di accusa, con un articolo del 6 aprile, a cui fa seguito un altro articolo del 29 aprile che rincara le accuse. Il 23 giugno 1908 Agnelli Scarfiotti e Damevino vengono denunciati per “illecita coalizione, aggiotaggio e alterazione dei bilanci sociali”. Sono accusati di aver provocato enormi rialzi nelle azioni della Fiat, suddividendo le primitive azioni, ponendo in liquidazione la società per ricostituirla subito dopo, con l’assorbimento ingiustificato dello stabilimento Ansaldi. Si sarebbero arricchiti con dolo ottenuto spargendo artificiosamente false notizie di colossali commesse ricevute dall’America, poi rivelatesi inesistenti; rassicurando gli azionisti sulle condizioni della società, tanto da distribuire un dividendo di 35 lire, in realtà ottenuto mediante un prestito; esagerando con bilanci fittizi la prosperità della Fiat; concentrando in Fiat più aziende di cui erano amministratori, mercè scambi di considerevoli quantità di titoli, riuscendo ad intascare essi personalmente, in danno degli azionisti, la differenza sul prezzo delle azioni. Salta fuori anche una misteriosa scrittura privata intercorsa tra Agnelli, Scarfiotti e Figari e che si era sovrapposta alla transazione ufficiale. Il 26 giugno il sostituto procuratore Racca invia le sue conclusioni alla Procura generale. Il 7 luglio 1907 Agnelli e Scarfiotti si dimettono. Ma già arriva un segno dell’importanza di questa vicenda, nel panorama non solo industriale ma anche politico italiano: il Ministro di Grazia e Giustizia, Orlando, il 6 luglio aveva chiesto di essere informato sulle modalità di avvio dell’azione penale e aveva raccomandato rapidità. Comunque, aveva manifestato la sua attenzione.
Ufficialmente, tutto cambia. Il 23 settembre 1908 viene nominato Marangoni Presidente, e Ferraris vice presidente, e nel nuovo CdA siedono rappresentanti della Commerciale, della Cassa di Risparmio, della Banca d’Italia e della Banca di Torino. Ma ufficiosamente non cambia nulla. Infatti in CdA si argomenta che, in fondo, Agnelli si è dimesso da Consigliere, non da amministratore delegato…e dunque si concorda tacitamente che Agnelli non sia estromesso dalla società. La situazione troverà la sua risoluzione nell’aprile del 1909: una modifica allo Statuto darà facoltà al CdA di nominare l’amministratore delegato anche tra i non consiglieri. In questo modo Agnelli è reintegrato anche formalmente. Il rinvio a giudizio scatta qualche mese dopo, ad agosto 1909: per Agnelli, Scarfiotti e Damevino è per truffa e aggiotaggio; per Ceriana, Broglia e tre sindaci l’accusa è il falso in bilancio. Intanto, si incrociano le perizie. Astuti, professore incaricato dal Tribunale, rileva nell’inventario dell’8 marzo 1906 (quello preliminare allo scioglimento della vecchia Fiat) vizi di una artificiosa situazione contabile; che gli utili del bilancio 1907 non sono stati realmente conseguiti; che le scritture con Figari sono state preordinate al fine di occultare operazioni illecite; che le operazioni in borsa degli imputati si configurano come aggiotaggio. I legali di Agnelli chiedono una controperizia, svolta dal prof. Broglia (Broglia e Astuti, come si vedrà, ricorreranno continuamente nel dibattito in tribunale), e si arriva anche ad una terza perizia collegiale.
Apparentemente, Agnelli sembra davvero solo sfiorato da tutto questo. Il suo lavoro continua senza soste: per affrontare la difficilissima situazione societaria occorre un polso fermo e nessuna distrazione. L’unica strada praticabile per riportare la Fiat in carreggiata è la sensibile riduzione dei tempi e dei costi di produzione, il che porta inevitabilmente a sfrondare la gamma dei modelli, in modo da aumentare i volumi produttivi e ridurre il costo unitario. A questo fine propone ed ottiene l’incorporazione, all’inizio del 1909, della Garages Riuniti, per concentrare i principali canali di vendita e di distribuzione. Risultato di queste misure è il ritorno all’attivo già nel bilancio del 1909, sia pure di un solo milione. Ma è un risultato straordinario. Già nell’aprile del 1910 il capitale sociale sale da 12 a 14 milioni, e la Fiat è impegnata fortemente nella costruzione dei motori d’aviazione, dei grandi motori marini, dei veicoli industriali. Parallelamente, l’azione giudiziaria prosegue, ma con molta più lentezza. Il rinvio al Tribunale di Torino è del 2 giugno 1911; l’apertura del processo (con l’interrogatorio di Scarfiotti) è del 9 aprile 1912. Neanche due mesi dopo, la sentenza: “non luogo a procedere per inesistenza di reato in ordine al! ‘imputazione di falso in bilancio e assoluzione dall’accusa di aggiotaggio”. 400 pagine illustrano la sentenza, da cui emerge che le risultanze del pubblico dibattimento non avevano confermato quelle dell’istruttoria “anche e soprattutto per una deplorata e generale amnesia da cui sembra siano stati colpiti i testimoni, che sconfessarono o non ricordarono buona parte di quanto avevano deposto davanti al Giudice istruttore”. In sostanza, pur stigmatizzando le dichiarazioni ottimistiche a cui gli amr11inistratori della Fiat s’erano lasciati andare, la corte non se la sentì di stabilire se la follia scatenatasi in borsa intorno ai titoli Fiat fosse stata prodotta unicamente da cause naturali e ambientali o provocata ed alimentata anche in parte dagli imputati.
Il ricorso in appello fu inutile. Iniziato ad aprile 1913, il processo venne subito rinviato a giugno e terminò il 5 luglio confermando la precedente sentenza assolutoria.
Come nei titoli di coda dei film americani, ecco cosa succede ai protagonisti. Broglia, il perito, diventa direttore amministrativo. La Fiat Ansaldi, diventata Brevetti Fiat, è liquidata, in quanto ormai tramutatasi in antieconomico doppione. La Fiat si orienta sempre più verso la struttura di un’azienda centralizzata suddivisa in settori, con Fornaca alla direzione tecnica, Rostain alla produzione, Broglia all’amministrazione, come si è visto; Marchesi alla direzione commerciale. E Agnelli… sopra tutto.
fine
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile 2007