LA TELA DEL RAGNO e QUALCOSINA SU GIOVANNI AGNELLI
LA PAROLA CRISI
Serve lo studio della Storia? Generazioni di storici hanno lasciato saggi preziosi e profondi, insostituibili per capire il passato; e la molla che spinge uno studioso a capire il passato è dotarsi degli strumenti per interpretare correttamente il presente, e magari presagire qualche accadimento futuro.
Di fronte però al ripetersi ciclico di eventi simili, troppo simili, con conseguenze devastanti, ugualmente devastanti, viene da chiedersi se l’aver studiato quegli avvenimenti sia davvero servito.
O se l’uomo, in definitiva, non sia costretto, ogni volta, a ricominciare da capo, come una tabula rasa, come uno scolaretto di sei anni al suo primo giorno di scuola, senza poter contare sulla esperienza dei padri. Altro che nani sulle spalle dei giganti.
Crisi, è la parola di oggi. Crisi del matrimonio, crisi dei valori, crisi industriale, finanziaria, immobiliare, crisi del consumo, crisi della quarta settimana, magari anche della terza. C’è la crisi, è colpa della crisi: questa è la frase chiamata a descrivere e giustificare le situazioni più diverse, l’arrembaggio ai voli low cost, la denatalità, l’aumento degli immigrati clandestini, la disoccupazione, la lievitazione dei prezzi, le ronde anticriminalità. Magari anche gli stupri, la violenza sulle donne…
La Crisi è una palude in cui l’intera nostra società sta sprofondando più o meno lentamente, vischiosa, appicicaticcia: si attacca a tutto, e tutto confonde. Per capirla, o illudersi di, vale la pena immergersi nelle crisi che il Novecento ha profuso a piene mani. La crisi del ’29 per esempio, richiamata instancabilmente alla memoria, fino a farla diventare un semplice esercizio linguistico anziché un mezzo di investigazione. È stato detto che il peggior risultato della Borsa di Wall Street nel giorno di un giuramento presidenziale è stato quello registrato il giorno trionfale dell’Obama’s day, nel gennaio 2009. Il secondo peggior risultato, quello di Herbert Hoover, Presidente americano di ottant’anni fa, alla vigilia, appunto, del famigerato Black Friday. E cosa c’è alla base della crisi? Sembra di leggere una cronaca dei giorni nostri. C’è un’idea democratica del diritto universale al benessere. C’è la scoperta degli acquisti rateali, l’inizio dell’indebitamento dei consumatori. C’è il diritto di ogni famiglia americana di comprarsi un’auto, il frigorifero, la radio, il fonografo. Ossia c’è quello stesso meccanismo infernale che a distanza di ottant’anni avrebbe portato al mutuo subprime: la promessa della casa per tutti, l’illusione di una Bengodi immobiliare fondata sui debiti. E ancora. Campanello d’allarme della crisi del ’29, che avrà ripercussioni pesantissime non soltanto in America ma in tutto il mondo, era stata a metà degli anni venti la pazza corsa all’acquisto di terreni in Florida, conclusasi con un crollo dei prezzi e uno sgonfiarsi traumatico della bolla immobiliare per tutti quelli che ci erano caduti dentro. Molto, troppo simile alla “bolla della New Economy”, al tracollo del Nasdaq che nel marzo del 2000 ha travolto molti risparmiatori, anticipando (inutilmente) i successivi scandali di Enron, Worldcom, Pan11alat.
Nelle copiose analisi di quei concitati periodi vi sono delle considerazioni che risvegliano echi ulteriori. Gli anni venti sono stati descritti (per esempio, dallo storico Erich Rauchway della Università della California, vedi Repubblica del 26 gennaio 2009, “L’America della crisi”) come un periodo in cui “Un gruppo di investitori con capitali sufficienti poteva creare un “pool” con lo scopo esplicito di manipolare un titolo in Borsa. Succedeva di continuo ed era perfettamente legale. Il Wall Street Journal riportava informazioni quotidiane sulle manovre di questi fondi”. Certo, sembra una considerazione scritta su misura per descrivere i titoli spezzatino dei giorni nostri, i “credit default swaps”, ossia i “titoli tossici”, che hanno avvelenato le nostre economie e, talvolta, le nostre vite. Ma è una considerazione che sembra riferirsi anche alla vera progenitrice delle odierne crisi finanziarie ed industriali: quella del 1907, definita non a caso “la tempesta perfetta”.
Perché “perfetta”? innanzitutto perché fu la prima crisi globale del Novecento. Perché fu la prima a colpire il mondo industriale così come lo conosciamo nell’epoca moderna. Perché nel solo mese di ottobre del 1907 l’indice azionario di Wall Street perse il 37 per cento del suo valore, scatenando il panico di folle di risparmiatori che si precipitarono agli sportelli delle banche. Perché portò al fallimento prestigiose società finanziarie come la Knickerbocker Trust Company, e al suicidio il suo Presidente Charles Tracy Barney. Perché alla sua origine furono elencate cause che ci suonano sinistramente familiari: “L’eccesso di investimenti nel mercato immobiliare; il credito facile; le manipolazioni dell’alta finanza”. Occorre dire di più?
Il panico che si scatenò fu tale da provocare la cosiddetta “anoressia del credito”: nessuno concedeva né chiedeva più prestiti, il mercato interbancario si prosciugò, la “tempesta perfetta” si propagò dalla borsa all’economia reale, la produzione industriale arretrò dell’undici per cento, con le solite inevitabili conseguenze che vediamo minuziosamente descritte anche oggi su tutti i nostri quotidiani: fallimenti, licenziamenti di massa, disoccupazione in aumento. Dunque tutto si ripete, e se tutto si ripete, allora significa che non impariamo nulla dal passato.
E in Italia?
L’UBRIACATURA AUTOMOBILISTICA
L’Italia visse tra il 1904 e il 1906 due anni di dissennata e feroce ubriacatura. Una nuova era industriale sembrava promettere guadagni facili per tutti, per quelli che decidevano di inventarsi un mestiere dall’oggi al domani e per quelli che ritennero di poter diventare ricchi giocando un po’ con il nuovo “divertissement” della borsa, due azioni qui e quattro là. E si svegliò nel 1907 con qualcosa in più del mal di testa, perché la crisi fu durissima, portò alla luce speculazioni spericolate, titoli di borsa inesistenti, imprese esistenti solo sulla carta…e a pagarne le spese furono i piccoli risparmiatori, quelli chiamati da Einaudi, in una celebre definizione, buoi condotti al macello. Restringiamo il campo d’indagine, sia dal punto di vista cronologico sia da quello “di distretto”. Limitiamoci al 1906, e al solo comparto automobilistico.
Ecco una descrizione (incompleta) del proliferare di iniziative in un settore allora quanto mai avveniristico. Il 7 gennaio 1906 viene costituita in Torino la S.A. Peugeot Croizat per lo sfruttamento dei brevetti Peugeot. Tra il 3 e il 18 febbraio si svolge a Torino il VI Salone Internazionale dell’Automobile, con 146 espositori, tra cui 61 fabbriche di auto (e 35.512 visitatori paganti). Il 26 febbraio viene fondata a Napoli la S.A. Darracq Italiana, da cui avrà origine l’Alfa Romeo. Giovanni Ceirano esce dalla Junior, da lui stesso fondata, e da’ vita a una nuova società, la S.A. Ceirano Giovanni Automobili Torino, ossia la SCAT. Il 27 marzo, a Torino, si costituisce la S.A. Fabbrica Automobili Standard; pochi giorni dopo, a Busto Arsizio, nasce l’accomandita Gaspare Monaco per la costruzione di automobili marca Alma; a questa segue a Milano la costituzione della S.A. Serpollet Italiana, per vetture a vapore. Fiat, Junior, Itala, Rapid aumentano il proprio capitale. Nasce la Bianchi a Brescia. Il 28 aprile, altra società: l’Anonima Aquila Italiana, con Direttore Tecnico Giulio Cesare Cappa. Giovanni Agnelli affianca alla Fiat, a Villar Perosa, vicino a Pinerolo, la prima grande fabbrica di cuscinetti a sfera, la RTV. A Milano, dal 28 aprile al 7 giugno, si svolge una Mostra di Automobili, con 162 espositori, di cui 50 fabbricanti d’auto (17 italiani e 33 esteri). Nasce a Torino la Società Piemontese Automobili, ossia la SPA. Si corre in Sicilia, il 5 maggio, la prima Targa Florio, vinta da Alessandro Cagno alla guida di un’Itala. “Per lo sfruttamento di brevetti recenti e di notevole importanza” nasce a Milano la Società Automobili Lentz. Legnano non é da meno: vi si costituisce infatti la Società Italiana Automobili Legnano. Ma le nuove società fondate nel 1906 non sono finite: dobbiamo ancora aggiungere la S.A. Silva, su iniziativa dell’ing. Silvio Barison, a Milano; la S. A. Ligure Romana (FRAM) a Genova; la S.A. Padus, a Torino; la S.A. Garages Riuniti Fiat, a Torino; la S.A. Hermes Italiana, a Napoli; la Fabbrica Automobili Zena a Genova; sempre a Genova la S.A. Dora; la società Lancia & C., di nuovo a Torino. Tutte a contendersi un mercato interno di poche centinaia di clienti facoltosi che spesso preferivano prodotti esteri. Per finire, a Torino sono ben 300 gli iscritti alla Scuola Conduttori e Meccanici dell’ing. Marenco. Ma se dalla semplice enumerazione di società si passa ai volumi produttivi, i dati sono ancora più impressionanti, perché entrano in gioco le speculazioni di borsa. 1.900 vetture costruite in Italia nel 1906, contro le 300 del 1901. 829 automobili esportate, per un valore di f 11. 847.000, contro le 20 (f 103.000) del 1901; 930 automobili importate, valore f 9.941.000, contro le 294, per un valore di f 2.239.000, del 1901. 9 società per la fabbricazione di automobili risultano fondate nel 1904 o prima; 25 fondate nel 1905; soltanto nel primo semestre 1906 si contano già altre 17 nuove società, per un capitale effettivo globale di 230 milioni. A queste si devono aggiungere 19 società per la costruzione di carrozzerie e altre 30 del cosiddetto “indotto” (fanali, pneumatici, magneti, freni, trasporto ecc.). Nel complesso, il capitale effettivo di queste 100 società ammonta a 277 milioni, contro un capitale nominale di 11O milioni. (“l’Automobile”, luglio 1906)
Un balzo gigantesco, in soli cinque anni. Lo storico Valerio Castronovo, nel suo libro “Agnelli”, (Torino, UTET, 1971) ne indica le cause. Una, l’abbiamo già sentita. E’ la corsa in borsa, da parte di piccoli e medi risparmiatori che finora avevano preferito altre forme d’investimento, per lo più fondiari. Inoltre nel febbraio era stato annunciato un progetto di legge inteso ad assicurare particolari sovvenzioni statali agli “assuntori di pubblici servizi automobilistici”; e si era anche aumentata la protezione doganale, per cui il nostro mercato poteva crescere al riparo dalla concorrenza straniera. In questo scenario divenne prassi comune, soprattutto sulla piazza torinese, l’emissione di azioni di taglio modesto che favorì il fenomeno che Castronovo definisce “l’industrializzazione del piccolo e medio risparmio privato”. Molti titoli, cioè, che sembravano già aver toccato i loro corsi più alti, vennero spezzettati in particelle più “popolari” “che presto – racconta Castronovo – la speculazione avrebbe risospinto a quote ancora più elevate con il favore e il concorso di tanti piccoli risparmiatori”. Per esempio il titolo della Fiat, originariamente del valore nominale di 200 lire, a metà febbraio 1906 era già quotato 3300 lire; fu quindi spezzettato in otto titoli da f, 25 caduno e raggiunse, nel giro di due settimane, il valore di borsa di 425 lire. La differenza tra il valore nominale del capitale azionario Fiat (800.000 lire) e quello di borsa (30.400.000), per restare alla Fiat, era dunque superiore ai 29 milioni di lire. Questa forsennata corsa al rialzo dei titoli automobilistici spiega la creazione di così tante nuove società (l’idea democratica del diritto universale al benessere .. . o alla furbizia). Entrarono nel settore automobilistico industriali tessili, metallurgici, operatori finanziari, banchieri, cotonieri. E non eravamo certamente i soli in Europa: in Francia i valori commerciali delle esportazioni avevano superato i 100 milioni di lire. La corsa alla speculazione si fece dilagante e vertiginosa. E come sempre in questi casi, il “crack” non si fece attendere: già nella seconda metà dell’anno si potevano notare i primi segni della recessione, che fu totale e disastrosa nel 1907. Per fare alcuni esempi: un’azione Fiat si svalutò del 95% in pochi mesi; del 50% una dell’Itala; si ridusse di quattro quinti una della Rapid. Fu la resa dei conti di una crescita artificiosa ed improvvisata. Il mercato interno non poteva assorbire la produzione di così tante aziende, più di venti solo a Torino. Alcune aziende erano addirittura sorte su basi fittizie, prive cioé di un qualsivoglia impianto di produzione; altre si erano rovinate per partecipare alle corse, uno dei sistemi pubblicitari più privilegiati; altre non erano riuscite a superare la fase pionieristica ed artigianale di produzione, finendo perciò schiacciate dalle società in grado di sviluppare una produzione standardizzata ed organizzata, frutto di investimenti anche tecnologici.
Insomma, un disastro, che fece piazza pulita di tante aziende, e che permise ad altre (ben poche: una su tutte, la Fiat) di emergere.
Il disastro ebbe anche ripercussioni giudiziarie: sfociò in un processo, un processo proprio alla Fiat, intentato cioè contro tre dei suoi amministratori più titolati, Giovanni Agnelli, segretario del Consiglio di Amministrazione, Lodovico Scarfiotti, Presidente, Luigi Damevino, agente di cambio e Consigliere, accusati proprio di aggiotaggio, operazioni illecite in borsa, turbativa del mercato finanziario, reati pesanti, che per la prima volta venivano contestati a qualcuno e per di più in forma così clamorosa.
Fu un processo che dal 1907, epoca dei fatti contestati, si trascinò fino al 19 1 2, quando fu emessa la sentenza, e che con il passare degli anni perse progressivamente di eco e di seguito. Non per questo perde il suo valore esemplare nella storia industriale italiana, per capire come si muovevano gli amministratori e gli imprenditori di allora; cos’era il mercato, il risparmio, cosa fece scatenare la crisi, cosa permise di superarla. Insostituibile strumento di indagine, le cronache giudiziarie del quotidiano La Stampa: puntuali, precise, fedeli. Ci permettono di risentire le voci dei protagonisti, ci immergono nel dibattito, ci danno la misura del lecito, e dell’illecito, del morale e dell’immorale. Ci consegnano in mano le chiavi di comprensione della nostra società di oggi. Anche se comprendere non mette al riparo dal ripetersi, come si è visto, degli stessi eventi. continua……..
Donatella Biffignandi
Museo dell’Automobile 2007