La Torre di Falero
Napoli giace sul golfo che anticamente fu detto “Cumano”, dalla prossima Cuma, “Cratere”, dall’aver figura di tazza; il quale nella sua ampiezza, dal promontorio della Campanella, già capo Ateneo, a quel di Posillipo, misura circa settanta chilometi.
A levante essa guarda il Vesuvio, di rincontro Capri, e vien bagnata dal Sebeto che, perduta la grandezza di un tempo, lentamente fluisce.
Chi le si accosti per mare, la vedrà sporgere a guisa di anfiteatro, e volgendo l’occhio discopre in un estremo la culla del Tasso, un altro la tomba di Virgilio, e d’intorno Ercolano e Pompei redivive; rupi dove stanno scolpite le origini d’Italia, scogli che ricordano i primi navigatori, le prime favole, la prima poesia.
E questo spettacolo vi carezza la fantasia in un’orgia affascinante di memorie potenti per la grandiosa poesia dei primi tempi, e di colori in una conca che raccoglie le tinte più vive in un clima benigno che ricorda il sereno e fantastico tepore dell’oriente.
Fu tanta la bellezza che fece cantare il poeta:
“Largior hic campos aetker et lumine vetut
Purpureo, llummenque suam, sua sidera norunt”.
Tito Livio, discorrendo sulle origini di Roma, intendeva di esporre quanto fu detto dai più remoti scrittori, senza tenere in conto di vero, o tacciar di falso ciò che gli antichi ne avevano narrato più con la poesia delle favole, che con la sincerità dei monumenti storici. E voleva data loro la venia di mescolar le umane alle divine cose, che i primordii delle città riuscissero più augustici – “riputandosi (come attesta Marco Varrone) utile agli Stati che i lor cittadini si credessero originati dagli Dei, si che gli animi per la fiducia di una stirpe celeste imprendessero grandi cose con ardimento, le proseguissero con forza, ed in tutto con felici speranze si adoperassero”.
Ma a noi che viviamo in un secolo di critica sottile, ci si permetterà di andare indagando qual vero si asconda tra le varie versioni in che ci fu tramandata la fondazione di Napoli.
Fra le tante non v’ha di certo più interessante di quella di Licofrone, dove nel tenebroso vaticinio di Cassandra tiene brevissima parola di Partenope, e del culto di lei, cantando:
D’Itaca il sire, il versipello Ulisse.
Cagione fia di morte alle tre figlie
D’un figliuolo di Ten, emulatrici
Alla melode di canora madre:
Chè da una rupe giù si slanceranno
Là dove il Fato vuol che nel Tirreno
Con tutte l’ali restino sommerse.
Una, poiché del mar l’onda cacciolla,
Ne accoglierà la Torre di Falero;
E il Glani fra la glebe, in cui l’avello
Le innalzeranno i popoli devoti,
Ed annui libamenti spargeranno
Lunghi tirsi agitando ed invocando,
Degl’inni al suon Partenope la Diva,
Donzella solo il volto, il resto augello.
Di Posidonia inoltre al monte estremo
La sbalzata Leucosia darà nome
Per cento lustri e cento a un’isoletta
Vicino a cui spumeggiano dell’Ine
Strepitoso e del Lari le correnti.
E i nocchieri Ligea, come a Terina
Rigetta sarà, seppelliranno
Co’ ciottoli sul lido biancheggianti,
Poco lontan dal vorticoso Ocinaro,
Che, quasi Marte de’ cornuti fiumi,
La toma della Vergine pennuta
Candida e tersa manterrà coll’acque
Indi, al girar de’ tempi, alla primiera
Delle tre suore il capitan di tutte
L’attiche prove, ubbidiente a un vate,
A’ suoi prescriverà che a gara corrono
Nelle mani stringendo accese fiaccole;
Giuoco che liete in maggior pompa un giorno
Rinnoveran di Napoli le genti
Abitatrici de’ lapidei clivi
Al di là di Miseno, che solleva
Le sue spalle sul mar, ed al soggetto
Porto ne fa contro de’ venti scudo.
Or se la “Torre di Falero” fu il primo edificio sorto a memoria d’uomo nella nostra terra, a ragione si potrà domandare che mai importi in quei versi questo Falero.
E qui viene in mio aiuto Isacco Tzetze, a dire essere un tal Falero quel medesimo siciliano tiranno, famoso per il toro di bronzo in cui chiudeva i suoi ospiti per farli bruciare; quel medesimo che fu chiamato Fallaride da altri.
Ma i molti scrittori, senza tener conto di ciò, si rivolsero a Falero argonauta, mentovato da Appollonio di Rodi, da Valerio Flacco e da Pausania; e nella Partenope di Licofrone riscontrarono or la figlia di Anteo de Samia, or una donzella arcade figliuola di Stinfalo, or una figliuola di Aumelo ricordato da Omero, la quale, non poterndo in patria portar la vergogna di grave colpa commessa, persò di uscire di Grecia e ridursi in lontano luogo a piangere l’errore suo; onde, postasi in mare con alcune compagne segretamente raccolte, giunse a questi lidi, dove ebbe di poi sepolcro.
E siffatte cose codesti scrittori con tal fidanza andarono asseverando, da far incidere a basso rilievo sotto un’antica testa, oggi chiamata “Capo di Napoli”, la seguente epigrafe:
“Parthenopes Eumeli Phalerae Thessaliae regis filiae, Pharetis Creteique regum neptis proneptis, quae Eubaea colonia deducta civilati prima fundamenta iecit et dominata est Ordo et Ppulus Neapolitanus memoriam ub orco vindicavit.
MDLXXXXIII”
Per la lice degli studi critici, non si dette più credito a quelle mal fondate opinioni.
E si ritenne che, avendo lo stesso Licofrone parlato di Tebe, appellandola “Torre di Calidno”, e di Roma egli volle intendere per “Torre di Falero”, non la città così nominata da un Falero, ma veramente la “Torre della città” chiamata Falero, giusta il bizantino Stefano il quale dice:
“E’ Falero una città degli Opici, dove naufragò Partenope la Sirena”.
Così chi avesse nominato la “Torre di Miseno”, avrebbe potuto significare tanto la torre della città di Miseno, quanto la torre appartenente a Miseno trombettiere di Enea. Imperocchè nella Storia delle nazioni il talento di magnificare fa che spesso i nomi delle città si trasfigurino in quelli di uomini, specie fra le città la fondazione delle quali è attribuita ad eroi.
“Faleros” poi altro non esprimeva, se non un “luogo marittimo”, un “luogo biancheggiante per il frangersi dei flutti”, chiamati da Omero “falerioonta” quando spumeggiano (Iliade XIII v. 799). Così “Selinunte e Buxento” alla latina, due famose città nostre, non indicavano che il “luogo da’ molti bassi”, e il “luogo dal molto appio”. Di modo che si potrebbe far valere cotesto “Faleros” lo stesso che “Cuman” così chiamata dall’onde che si andavano a rompere al suo lido aspro. E al modo istesso che vi fu una Cuma eolica, un’altra friconitidi, una terza in Italia, una quarta in Elea, una quinta fra gli Euboici, ed una sesta dappresso alla Sicilia, appunto perché tutte della medesima posizione marittima prendevano il nome; così di “Faleros” si trova comune la radice in molti nomi di paesi, comunque lontanissimi tra essi, sol perché situati alle sponde del mare o di una riviera. Tali sarebbero “Falasia” nell’Eubea – “Falasarna” sulla costa di Creta – Falanna nelle Pelasgiotide sulla riva del Peneo, e, ciò che più è, “Falero” l’antichissimo porto d’Atene.
E si può anche trarre che per la “Torre di Falero” l’oscuro Licofrone avesse inteso la “torre del porto” appellato “Falero”, e quello poi determinato col dirlo vicino al fiume Clanio. Il quale fiume, come nasce dalle radici di un monte vicino all’antica Suessola, e passa per Acerra, pure fu nominato da Licofrone, o perché volle con esso designare con poetici colori la terra che seguitava immediatamente dlla Torre di Falero, ed era confinante con quella, o perché veramente il Clanio scambiò col Serbo – come fecero Strabone confondendolo coll’Ocinaro, Plutarco col Volturno, Appiano col Liri.
Che che sia di ciò, se nessuna notizia più antica della Torre di Falero ci fu tramandata intorno alle origini di Napoli, è indispensabile indagare che gente l’avesse edificata.
Nel silenzio di tutti gli scrittori, non è ardito attribuire questo fatto ai Pelasgi venuti fra quegli opici o Ausoni che abitarono fin da tempi più remoti questa parte d’Italia, e perciò furono da Virgilio chiamati “antichi” (Eneide lib. II ver. 340).
Ed invero molti Pelasgi giunsero alle nostre regioni, ed il nome stesso “Falero” si mostra simile a quegli altri parecchi, onde essi, come scrissi dinanzi, i luoghi contrassegnarono.
Ma non si conosce il tempo certo in cui fu alzata la Torre di Falero, e solo si può arguire dalle parole di Licofrone essere stata anterione a Partenope una delle Sirene che n’ebbe la tomba.
Ed ora si presenta acconcia la disamina come e perché la favola delle Sirene si leghi strettamente con la fondazione di Napoli.
da “La Torre di Falero” in “Napoli Antica”
di Matilde Serao
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