Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

La transizione da una monarchia di sudditi a una di cittadini di Giuseppe Gangemi

Posted by on Mag 5, 2025

La transizione da una monarchia di sudditi a una di cittadini di Giuseppe Gangemi

Nell’elenco dei protagonisti italiani che si sono posti la domanda su quanta vicinanza si debba avere alla Seconda Barbarie per sentirsi legittimati all’uso della violenza collettiva e agire di conseguenza per evitare che il proprio Paese finisca nella voragine della Seconda Barbarie, porrei sempre Fabrizio Ruffo, ma mai Giuseppe Garibaldi. Questo perché quest’ultimo non si è mai posto il problema di (ri)costruire il Paese dilaniato che ha conquistato.

Buono, evidentemente, solo per menare le mani, consegna le Due Sicilie appena conquistate al gatto (Vittorio Emanuele II) e alla volpe (Camillo Benso di Cavour). Salvo poi lamentarsi, con Adelaide Cairoli, degli “oltraggi commessi dal più immorale dei governi”. La lettera è datata 7 settembre 1868 e, quindi, il riferimento dovrebbe essere al governo di Luigi Federico Menabrea. Tuttavia, la conclusione cui giunge è quella di dimettersi dal Parlamento, e si scusa con la madre dei fratelli Cairoli perché si vergogna di doversi dimettere da “un Parlamento, dove siedono uomini [eccellenti per virtù e coraggio] come Benedetto Cairoli”. Probabile che il riferimento al “più immorale governo” egli lo rivolga a tutti i governi dell’appena costituito Regno d’Italia. Cosa che è confermata dalla successiva citatissima frase: “Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato”.

Nell’elenco metterei, come già detto, Fabrizio Ruffo che ha compiuto un’impresa simile a quella di Garibaldi, ma con un progetto politico che, se realizzato, avrebbe probabilmente dato vita nuova alle Due Sicilie. La preferenza da me accordata a Ruffo trova conferma nella non fortuita coincidenza che ha portato Benedetto Croce a porsi il problema della transizione dalla Repubblica Napoletana al Regno Borbonico. La transizione del 1799 non mostra lo stesso valore esegetico della transizione dalla dittatura alla democrazia seguita alla sconfitta dei fascismi e non è nemmeno generalizzabile ad altri casi analoghi (un presunto Regno reazionario che diventa una pfresunta Repubblica libertaria), ma è comunque un’esperienza da cui apprendere una lezione per il dopo seconda guerra mondiale.

Scrivendo, per la prima volta, della tradizione del 1799 nel 1897 (Studi sulla rivoluzione napoletana del 1799), Croce esprime un dubbio che manterrà almeno fino all’edizione degli Studi del 1912: “se il Ruffo fosse realmente ingannato dal Nelson, o se non piuttosto si lasciasse ingannare, trascurando le cautele necessarie ad assicurarsi della vera intenzione e della buona fede dell’ammiraglio inglese e contentandosi di dichiarazioni alquanto equivoche, che salvavano le apparenze” (1912, 265). E quasi subito dopo precisa che “dallo spirito morale del Ruffo non bisogna domandare troppo” (1912, 265). In questo primo scritto, Croce condanna Ruffo dal punto di vista morale, e soprattutto i Borbone (“la condanna della reazione borbonica del Novantanove è una delle più fiere condanne morali, che abbia pronunziato la storia” 1912, XIV), mentre esalta i Giacobini che descrive con un’aureola idealizzata e moralistica: “Per fortuna, i patrioti di Napoli erano grandi idealisti e cattivi politici. Nessuno pensò a tradire i francesi, e a entrare in trattative coi [propri] sovrani” (1912, X). Al contrario, i Francesi, con Méjan, tradirono quando lo richiese il loro interesse. La dirittura morale dei Giacobini napoletani permise che la Repubblica, di fatto appena un “esperimento non riuscito … un tentativo fallito”, di cui non sarebbe dovuta restare traccia nella storia, produsse “feconde conseguenze” perché “servi a creare una tradizione rivoluzionaria e l’educazione dell’esempio nell’Italia meridionale” (1912, XI).

Nel 1943, quando intuisce la problematicità della imminente transizione dal fascismo alla democrazia ed è venuto in possesso di tutte le lettere di Ruffo, Croce, ne La riconquista del Regno di Napoli nel 1799, cambia il proprio giudizio e sostiene che quel leader vittorioso non è stato “un cardinale, capo masnade” (1912, XII), bensì un politico “che pensa e opera, e con calma risolutezza, affrontando e superando continue difficoltà e pericoli, giunge al segno che si era prefisso” (1943, V).

Particolarmente interessante questo passo autocritico, in cui l’espressione “è stato detto” si riferisce anche a se stesso che, per un terzo di secolo, ha definito Ruffo “uomo di guerra e di masnade, che non rifuggiva dal versar sangue né da astuzie e metodi poco scrupolosi per procurarsi fautori e per nuocere ai nemici, non è da credere che fosse tanta pietà e tanta dolcezza di cuore quanta si vede in questi suoi propositi” (1943, IX). Croce arriva ad accettare una spiegazione di Ruffo che attribuisce ogni responsabilità della tragedia a: 1) “un popolo immenso, avvezzo all’anarchia” (1943, X); 2) i Giacobini i quali, dentro ai castelli napoletani occupati, ancora resistano e non si arrendono, impedendogli di impiegare la truppa che ancora combatte per ripristinare la calma; 3) una parte della mia truppa, quella meno interessata a combattere per il re e per la religione, che si è rivelata “irregolare, anzi sfrenata” (1943 XI) e al comando “di capi ineducati ed insubordinati” (1943, X).

Croce infine, capisce la rilevanza politica del gesto politico di Ruffo: la negoziazione di “una capitolazione ai Repubblicani” … “contro le indicazioni a lui note dei sovrani” … con l’intento di “porre freno alle masse da lui condotte e alla plebe napoletana che a questa si era unita ammazzando, rapinando e tripudiando”. Invece, arriva Nelson a Napoli e, in concordia con i sovrani, “dichiarò nulla la capitolazione stessa e diè inizio alle disegnate e caldeggiate vendette”  (1943, XI). Il piano che  Nelson, Carolina e Ferdinando IV impedirono a Ruffo di realizzare consisteva nel non associare la vittoria alla vendetta, bensì nell’associarla a “preparare un mondo migliore di quello che prima esisteva, un mondo che sia eguale ai vincitori e ai vinti al quale gli uni e gli altri sentano di avere … discordemente ma parimenti lavorato” (1943, XIV). Un piano che accettasse “il principio che il sentimento e la pratica della vendetta, come sono contrari alla coscienza morale, così anche alla saggezza politica” (1943, XIII) e portasse il popolo ad essere “intelligente e buono” (1943, VIII) come era prima della Rivoluzione Francese.

Ruffo, secondo il Croce del 1943, aveva un piano per la transizione da una monarchia rifiutata dai sudditi a una monarchia almeno accettata, quando non amata, da gran parte dei cittadini.

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.