“La tua invidia è la mia forza” campeggia dietro l’Ape del panzarottaro
Luca De Simone
Solleticato dalla simpatica querelle social tra Massimo Recalcati ed il filosofo Paolo Godani
provo, umilmente visti i due interlocutori citati, a dire la mia. L’ invidia, come ogni altra manifestazione umana, andrebbe accolta, non stigmatizzata.
Se siamo noi a provare invidia:
come una molla per uscire dall’ inerzia, una domanda da rivolgere a se stessi “cosa apprezzo dell’ altro talmente tanto da soffrirne?”
Ed a volte nell’ altro c’è quello che sento di poter essere in potenza, eh ma non ci riesco, dovrò allora trovare il modo di smettere di indietreggiare di fronte al mio desiderio, prendere esempio, accettare che quest’ altro mi è di ispirazione, cominciare a muovermi invece di restare inchiodato.
Se nell’ altro riconosciamo ciò che non potremmo mai essere, allora che sia la spinta a cercare il nostro peculiare modo di essere.
Così come l’ invidiato dovrebbe accettare che qualcuno, o molti, sentono verso di lui un doloroso, inammissibile ,sentimento di stima.
Dovrebbe provare a non goderne troppo, così come a non inquinare il suo operato, di cui le sconfitte sono una parte essenziale, da quel “non voler dare soddisfazione” all’altro .
Eppure c’è un godimento attivo anche nell’ invidiare, nel godere per ogni passo falso, per ogni caduta dell’altro, nell’auspicarla, cavalcarla a volte architettarla, e come tutti i peccati capitali, di cui l’ invidia è il quarto,è un godimento mortifero.
Perché mentre restiamo fermi con lo sguardo fisso sulla vita dell’ altro, la nostra vitalità comincia a stagnare, a diventare insalubre come qualsiasi cosa ferma, come qualsiasi cosa portata troppo in lá.
E c’è del godimento nel sentirsi invidiati, altrettanto paralizzante, al punto da assediare e soffocare l’ espressione creativa, percepita come costantemente sottoposta allo sguardo invidioso dell’ Altro.
Facciamo quindi dell’ invidia, piuttosto, una molla creativa, un movimento vitale, come l’ odio a cui è strettamente imparentata, come la rabbia, come la superbia, come la paura.
Non neghiamola proiettandola soltanto sull’altro.
Come tutto ciò che è umano e con cui dobbiamo imparare ad avere a che fare accettiamo, elaboriamo, sottraiamo fin dove è possibile quote di questi moti al godimento, fino a farne dei veicoli di cambiamento.


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