LACRIME AMARE, CAP. IV di “CUORE … NAPOLITANO”
Tutto questo avveniva nell’anno del Signore 1860, anno in cui, con un comportamento losco, di cui si sarebbero sentiti disonorati perfino i feroci pirati saraceni (e sul disdoro avremo occasione di ritornare spesso), il Piemonte si accingeva ad invadere il Regno delle Due Sicilie. Di questa invasione tracceremo molto brevemente le fasi principali giusto per introdurre gli aspetti più truci che regalò l’invasore alla nostra terra e alle nostre genti.
Partiamo, quindi, sempre succintamente, dagli inizi.
Il “generale” Nino Bixio e il “generalissimo” Giuseppe Garibaldi (che era stato condannato a morte in contumacia dal Regno sardo, e che quindi non avrebbe potuto mettere piede sul suolo natio) nel porto di Genova, costantemente sorvegliato dall’andirivieni delle sentinelle, riescono ad impossessarsi di due piroscafi: il Piemonte e il Lombardo. Le navi, invece, erano state regolarmente acquistate; solo che i veri interessati, il re e il primo ministro del regno, avevano fatto comparire dei prestanome, per non compromettersi nel caso che le cose non fossero andate secondo i calcoli. Per il “furto” Garibaldi, per una storia “addomesticata” già prima di essere scritta , lascia un biglietto di scuse “ai signori Direttori dei vapori nazionali per essersi impadronito dei due vapori” ed uno al re, spiegando che l’azione era stata intrapresa per “motivi puri affatto da egoismi interamente patriottici”. In questo modo, coloro che erano stati gli ispiratori dell’operazione si erano messi con le spalle al sicuro.
Impadronitisi dei due piroscafi, viene imbarcata una massa di volontari: i famosi “Mille”. Alcuni di essi erano idealisti sinceramente convinti nella correttezza dell’ operazione a cui avevano aderito. La maggior parte, come capitava agli spiantati cavalieri medievali che cercavano fortuna partecipando alle crociate, era costituita da spiantati in cerca di un’occasione per modificare le proprie condizioni economiche. Sempre da documenti dei protagonisti si sa di garibaldini che, partiti con le toppe ai pantaloni, si sono ritirati con una considerevole fortuna.
Il giorno 8 maggio, servendosi delle carte geografiche disegnate e pubblicate nel Regno delle Due Sicilie, che il primo ministro del Regno sardo aveva fatto acquistare dal un suo agente, il conte Salvatore Pes di Villamarina, accreditato a Napoli come ambasciatore, le due navi fanno rotta verso la Sicilia. Nessuno a bordo conosceva la rotta o il porto di arrivo, come confesserà nel suo diario il garibaldino Giuseppe Bandi imbarcato sul Piemonte.
Ora, prima di proseguire nella narrazione (senza soffermarci oltre sulla mancata esecuzione della pena comminata a Garibaldi, sulla “distrazione” delle sentinelle nel porto di Genova, sul “furto” e sui biglietti di scuse), vorrei sollecitare una riflessione sulla rotta e sulla destinazione: due piroscafi, con a bordo un migliaio di uomini (limitiamoci a definirli solo così per il momento) stanno entrando nelle acque territoriali di un regno con la chiara intenzione di portarvi colà la rivoluzione che ha come fine quello di scacciarne il legittimo sovrano per imporvene un altro. Come definire i protagonisti di tale azione e l’azione stessa? Secondo il comune modo di ragionare – senza nessuna propensione – l’azione è un atto di pirateria ad litteram e i protagonisti non potrebbero che essere definiti pirati. Perché usiamo il condizionale per definire costoro? Perché essi non possono essere chiamati neanche pirati, in quanto, a differenza di questi ultimi (e qui si tocca di nuovo il tasto della vergogna e del disonore) che facevano garrire orgogliosamente i loro vessilli durante gli abbordaggi, i due piroscafi attraversarono un tratto di mare di circa mille chilometri senza esporre alcuna insegna all’albero maestro.
Peggio dei pirati!
” No flags”, cioè, nessuna insegna,: questa l’ annotazione nei libri di bordo di due “amici” di Garibaldi (i comandanti delle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid). Quando, però, i due piroscafi sono in vista del porto di Marsala, solo allora vengono issate le insegne (Sardinian colours) per farsi riconoscere dagli “amici” che già il giorno prima dello sbarco – 10 maggio – avevano ricevuto dall’Ammiragliato inglese l’ordine di lasciare i loro ormeggi e dirigersi a Marsala (Sheep to Marsala). Ora, relativamente alle due navi inglesi, è da dire che una era alla fonda nel porto di Palermo dal mese di marzo ed un’altra faceva servizio tra quest’ultimo porto e Messina.Il fatto che entrambe le navi, il giorno 10 maggio ricevano l’ordine di recarsi a Marsala, e il fatto che Garibaldi, dovendo arrivare a Palermo e poi di qui a Messina, abbia allungato di non poco la durata della campagna militare, visto che anche a Palermo avrebbe potuto contare sull’appoggio delle navi amiche, che assicurarono poi il suo sbarco a Marsala, sono elementi da non sottovalutare. Sbarcare infatti a Marsala dava l’ assoluta certezza di immunità poiché buona parte del territorio godeva dello status di extraterritorialità in quanto “ducea” della famiglia Nelson, donata nel 1799 all’Ammiraglio Horatio dal re Ferdinando IV in premio dell’ aiuto offerto nel soffocare la Repubblica Partenopea. Stando così le cose, anche se la marina borbonica (che già si era venduta al nemico) avesse voluto fare azione di contrasto, l’eventualità che l’intervento potesse dare origine ad un increscioso incidente diplomatico la sconsigliò e quindi i garibaldini potettero sbarcare tranquillamente, favoriti in ciò dai marinai inglesi che, per creare ulteriori difficoltà, sulla banchina si erano mischiati a bella posta ai garibaldini. (E’ il caso di far notare che quello borbonico era l’esercito regolare posto a difesa della propria patria, di cui i garibaldini avevano intrapreso l’invasione). Le azioni “gloriose” di cui si coprirono questi ultimi sono ormai notissime: porte aperte per occupare le città; militari consegnati in caserma dai loro generali traditori e quindi nell’impossibilità di contrastare la “travolgente” avanzata degli invasori; proposte di armistizio, quando c’erano tutte le premesse di aver ragione degli invasori, sia per superiorità numerica che di armamento e disciplina militare.
Tra una strage e l’altra, arriviamo così al 27 ottobre 1860, data della fatidica consegna di quasi tutto il Regno delle Due Sicilie da parte di Garibaldi a Vittorio Emanuele II che, presentato come re di tutti gli italiani, non lo fu mai, rimanendo sempre “secondo” come sovrano del Regno sardo, e disdegnando visceralmente di assumere l’ordinale “primo”, come re di una nuova nazione. Il 28 ottobre, il generale piemontese Ferdinando Pinelli, che aveva varcato i confini il 13 dello stesso mese, saccheggia ed incendia Pizzoli, fucilando gli abitanti, rei di “essersi difesi”. Su questo episodio e su tanti altri anche più raccapriccianti avremo modo di ritornare spesso.
Ora, sempre per sommi capi, vediamo come si svolsero i fatti che diedero origine alla dolorosa storia che insanguinò le nostre terre e portò l’inferno nella vita dei nostri bis o trisavoli.
Nella nostra penisola esistevano, fino all’anno del Signore 1860, sette Stati che ne occupavano tutta l’area da nord a sud. Tre di questi Stati, situati nella parte settentrionale, formavano una specie di cappello che si estendeva da est ad ovest e comprendeva, nella parte orientale l’allora Lombardo-Veneto, da tempo sotto la dominazione austriaca e il Regno di Sardegna sotto i Savoia, che comprendeva il Piemonte, la Liguria e la Sardegna. Nella parte centro-settentrionale c’erano il Ducato di Modena; il Ducato di Parma e Piacenza; il Granducato di Toscana. Nella parte centrale si trovava lo Stato Pontificio con le Legazioni (Romagna, Marche e Umbria) e in quella meridionale il regno che occupava un terzo di tutta la penisola ed era composto dal Regno di Napoli e dal Regno di Sicilia, che dopo il Congresso di Vienna prese il nome di Regno delle Due Sicilie. Tutti i sudditi di quest’ultimo regno che, di generazione in generazione, l’ avevano popolato nel corso di sette secoli erano vissuti sotto una continuità dinastica ed avevano, perciò, in comune parecchie cose, tra cui quello che oggi viene definito dialetto, ma che era a tutti gli effetti la lingua ufficiale, pure se localmente si potevano notare delle varianti tra un gruppo e l’altro. Per rendere l’idea della compattezza di questa parte della penisola, è da dire che mentre oggi, parlando delle persone che abitano le diverse regioni, esse vengono indicate come pugliesi, lucani, calabresi, campani, abruzzesi, siciliani (con qualche distinguo), al tempo di cui ci stiamo occupando essi costituivano il popolo napolitano. In virtù della loro felice posizione geografica le terre del Regno erano inondate di sole per molti mesi all’anno ed erano così amene e feraci che ogni popolo, fin dai tempi più remoti, aveva sempre tentato di tutto per impadronirsene. Infatti le condizioni climatiche e la ricchezza della terra, anche a motivo dei molti minerali di cui le numerose aree vulcaniche arricchivano il suolo, rendevano possibili più raccolti all’anno e la coltivazione delle piante più disparate: motivo per il quale Greci, Romani, Cartaginesi, Arabi non esitarono ad intraprendere o continui flussi migratori o lunghe ed estenuanti guerre pur di impossessarsene.
Al tempo in cui è ambientata la narrazione dei fatti, il nostro Regno si estendeva per 111.900 kmq ed era popolato da oltre nove milioni di persone. Il re che sedeva sul trono discendeva da un’antica dinastia, che gli aveva lasciato in eredità un regno che aveva conservato gli stessi confini per più di sette secoli, rappresentando nella Penisola l’entità più omogenea dal punto di vista etnico, geografico, economico, politico e linguistico. I sovrani che si erano avvicendati nella sua storia si erano preoccupati di arricchirlo di molte opere che gli altri Stati non avevano ancora: una sorta di stato ideale (San Leucio), dove i cittadini godevano di uno status sociale all’ avanguardia, che il resto del mondo – e solo dopo lunghe e dure lotte sociali – avrebbe conosciuto centinaia di anni più tardi. Per primo al mondo il Regno delle Due Sicilie si era dotato di un prestigioso teatro, di una ferrovia, di un transatlantico, di grandiose opere di ingegneria civile, di una grandissima costruzione, ancora esistente (il Real Albergo dei poveri), dove venivano ospitati i sudditi più poveri, ai quali gratuitamente veniva dato da mangiare, da dormire e a cui veniva insegnato a leggere, scrivere, far di conto e perfino un’arte o un mestiere, per evitare che, privi di ogni qualifica, questi sventurati potessero essere indotti dalla necessità a delinquere.
Per quanto riguarda il teatro e il primo breve tratto di rete ferroviaria, molti, per sminuirne l’importanza e ridicolizzare specialmente il secondo, hanno voluto vedere in essi una concessione del sovrano al proprio capriccio, nel senso che tali opere non furono certamente realizzate a beneficio del popolo. Nessuno però dice che, capriccio reale o no, quel tratto ferroviario fu, comunque, il primo costruito in quella che sarebbe diventata la patria di tutti. Dopo che il Nord cominciò ad ampliare a ritmo crescente le ferrovie, e il Sud devastato, depauperato, derubato fu lasciato sempre indietro, si continuò a presentare il Meridione della nazione, già Regno delle Due Sicilie, come uno Stato retto da una dinastia incapace che non era stata in grado di dotare il proprio regno di strade carrabili e di ferrovie. Nessuno, però, fa notare che, essendo il Regno in questione circondato per tre dei suoi lati dal mare, si era preferito potenziare il traffico marittimo. E se la storia dei diversi Stati presenti sulla Penisola fosse stata acquisita da quelli che ne decretarono la fine, tutti i primati che il Regno delle Due Sicilie deteneva sui mari avrebbe potuto costituire motivo di vanto per gli invasori ed una ricchezza nella memoria nazionale. Invece di questo non si parla e alcuni altri primati, molto o poco importanti, vengono ancora presentati come un peccato di superbia e di malgoverno di un re che, nei riguardi dei propri sudditi, si è comportato né più né meno come i suoi pari in tutte le altre parti del mondo. Piuttosto, perché non chiedersi come mai gli altri sovrani che i libri di storia ritengono migliori di quelli che si erano succeduti sul trono di Napoli, non avessero arricchito i propri domini di costruzioni analoghe a quella dei Borbone per i poveri e i diseredati dei loro regni?
© Castrese Lucio Schiano 2021
È la triste Storia che non ha cancellato solo uno Stato florido ed invidiato, ma che ha cancellato anche l’anima di quel popolo che lo abitava! Ricostruire ora l’anima di questo popolo è cosa difficile e lunga ma indispensabile. Milioni di individui se non si riprendono la loro anima non diventano mai un popolo, rimangono milioni di singoli sulla cui testa viene fatta calare impunemente ogni nefandezza!
La storia vera qui raccontata non si e’ trovata da nessuna parte sui libri che sono stati alla base delle conoscenze fornite dalle scuole… e scoprire quanto e’ stato subdolo l’inganno perche’ “fatta l’Italia si dovevano fare gl’italiani”, si prova tanta amarezza e il rimpianto di quello che invece si sarebbe potuto fare… ma dobbiamo riemergere tutti! Non e’ mai troppo tardi per raddrizzare il tiro…caterina ossi