L’alleanza tra il Piemonte e l’Inghilterra di Enrico Fagnano
I motivi, che spinsero l’Inghilterra ad appoggiare il Regno di Sardegna nella sua azione contro il Regno delle Due Sicilie, furono diversi.
Il governo britannico innanzi tutto aveva la necessità di mettere il Piemonte in condizione di restituire alla banca londinese dei Rothschild le ingenti somme, che da questa aveva avuto in prestito. In secondo luogo voleva la certezza di poter gestire senza contrasti le risorse minerarie della Sicilia, che forniva addirittura l’ottanta per cento della produzione mondiale di zolfo, preziosissimo perché elemento fondamentale della polvere da sparo, utilizzata all’epoca per la preparazione di tutte le munizioni. In previsione dell’apertura del Canale di Suez (i lavori erano in corso e si sarebbero conclusi nel 1869) l’Inghilterra, però, voleva garantirsi anche il controllo più in generale dell’isola, vista la sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo, che si apprestava a diventare il centro delle principali rotte commerciali. Già da tempo, inoltre, il grande impero intendeva favorire nell’Italia del sud la presenza di uno stato vicino ai propri interessi, essendo più volte entrato in conflitto con il Regno delle Due Sicilie, come era accaduto nel caso della guerra di Crimea, quando Ferdinando II, nonostante le richieste di Londra, non aveva voluto chiudere i suoi porti alle navi russe. L’invasione piemontese del cattolicissimo stato borbonico, infine, era appoggiata anche dal potente capo degli Evangelici, Lord Anthony Shaftesbury, e dagli altri maggiori rappresentanti dei movimenti protestanti d’oltremanica, i quali, insieme ai liberali e alla Massoneria, stavano conducendo un’aspra lotta alla Chiesa di Roma e attraverso il loro alleato speravano di colpirla direttamente in Italia.
Quindi, come abbiamo detto, il motivo principale, ma non il solo, che spinse l’Inghilterra ad intervenire fu la necessità di mettere i Rothschild in condizione di recuperare i loro crediti. Il Regno di Sardegna, infatti, si trovava in una situazione finanziaria disastrosa e non aveva i mezzi per fare fronte agli impegni presi (tra l’altro doveva somme rilevanti anche a un altro istituto londinese, la Banca Hambro & son, e perfino direttamente al governo britannico). I debiti contratti per condurre le guerre e per realizzare opere pubbliche, spesso improduttive, insieme ad una corruzione diffusa in modo capillare, avevano ridotto il passivo completamente fuori controllo e i suoi esecutivi dal 1855 erano stati costretti a procedere con conti provvisori, rinviando continuamente la redazione di un documento ufficiale, che dopo 5 anni nel 1859 ancora non esisteva. La situazione si sanò, in un certo senso, solo nel 1862, quando, dopo due anni, il 1860 e il 1861, di governi transitori in tutti i vecchi territori, vide la luce il primo bilancio italiano, nel quale i debiti dei vari Stati vennero consolidati, ovvero confermati, unificati e rapportati tutti al valore stabilito per la lira introdotta dalla legge Pepoli del 24 agosto 1862. Fu quindi nel documento economico della nazione unita che confluì il passivo del Regno di Sardegna, pari a circa 62 milioni della nuova valuta. Tale importo equivale grosso modo a 300.000.000 di euro e quindi l’attuale debito pubblico del nostro Paese, pari a circa 2.300.000.000 di euro, senza quello iniziale del Piemonte, sarebbe più o meno equivalente a quello attuale della Germania, che è di circa 2.000.000.000 di euro (dati aggiornati al periodo precedente alla pandemia).
Nel bilancio italiano il regno napoletano, invece, conferì un debito di 26 milioni, ma bisogna precisare che parte di tale importo fu dovuto agli incredibili sperperi effettuati dalle amministrazioni provvisorie successive all’annessione (dittatura di Garibaldi dal settembre 1860 al 6 novembre 1860, luogotenenza di Luigi Carlo Farini dal 6 novembre 1860 al 7 gennaio 1861, luogotenenza di Eugenio di Carignano dal 7 gennaio 1861 al 16 maggio 1861, luogotenenza di Gustavo Ponza, conte di San Martino, dal 16 maggio 1861 al 14 luglio 1861 e infine luogotenenza del generale Enrico Cialdini dal 14 luglio 1861 al 9 ottobre 1861). Per quanto riguarda gli altri Stati, la Sicilia conferì un debito di 7 milioni di lire (l’isola aveva una amministrazione autonoma, separata da quella delle province continentali), la Lombardia di 7,5 milioni, il Granducato di Toscana di 8 milioni e i territori dell’Italia centrale (Marche, Romagna, Umbria e ducati di Modena e Parma) di circa un milione e mezzo, ma anche in questi casi parte degli importi fu dovuta alle amministrazioni che precedettero l’unificazione finanziaria.
Come si vede, il passivo del Piemonte, che era di 62 milioni, da solo costituiva più della metà, per l’esattezza il 57%, di quello complessivo, che ammontava a quasi 112 milioni, mentre il passivo del regno borbonico, pari a 33 milioni (i 26 dei territori continentali più i 7 siciliani), ne costituiva soltanto il 29%. In riferimento, poi, al numero degli abitanti, lo Stato meridionale presentava un debito di circa 3,5 lire pro-capite (in particolare era di meno di 4 lire pro-capite quello del regno napoletano, che aveva 6.800.000 di abitanti, e di quasi 3 lire quello della Sicilia, che aveva 2.400.000 di abitanti), mentre lo Stato subalpino, che aveva poco più di 4.200.000 di abitanti, presentava un debito di quasi 15 lire pro-capite, ben 4 volte maggiore. Risulta evidente, quindi, che con l’Unità il Regno di Sardegna abbia scaricato buona parte dei propri obblighi finanziari sul Mezzogiorno e sui suoi abitanti, ma delle vicende economiche successive al 1860 nel loro complesso e delle ripercussioni che ebbero sul Sud, parleremo in altri articoli di questo blog. Abbiamo detto che nel bilancio del 1862 lo Stato napoletano conferì oneri per 26 milioni delle nuove lire e il Piemonte per 62, ma la differenza tra i due dati, di per sé già rilevante, era ancora maggiore nell’anno precedente la capitolazione. Nel 1859, infatti, il primo presentava un passivo di 425 milioni, mentre il secondo di circa 1.120 milioni, come si rileva dallo studio Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1818 al 1860 (Cardamone, 1862) dell’economista partenopeo Giacomo Savarese, che ricavò il dato, in mancanza di conti ufficiali (abbiamo detto che dal 1855 non venivano prodotti), sommando tutti i bollettini del governo torinese relativi alle spese, e nel farlo tra l’altro riscontrò in diversi casi l’assenza di documenti giustificativi collegati (l’ammontare del passivo subalpino nel 1859 viene in linea di massima confermato anche da un articolo sulla situazione economica nella penisola, apparso il 6 agosto 1864 sulla rivista dei Gesuiti La Civiltà Cattolica, nel quale si riporta che prima dell’Unità era pari a 1.128 milioni; d’altro canto nel Gran Libro del Debito Pubblico, istituito il 10 luglio 1861 nell’attesa del primo bilancio ufficiale, il regno dei Savoia iscrisse un debito di 1.292 milioni e questo, considerato che i suoi oneri aumentavano di svariate decine di milioni all’anno, rende verosimile che l’anno precedente la nascita della nuova Italia fosse attorno ai 1.120 milioni). Confrontando, quindi, gli importi riportati, si rileva che il debito piemontese nel 1859 era circa 2,5 volte superiore a quello napoletano
Il Regno di Sardegna non aveva più redatto i propri bilanci perché a fronte di entrate certe, che erano di circa 144 milioni di lire, era invece impossibile contabilizzare le uscite, che erano fuori controllo e crescevano a dismisura. A rendere più precaria e confusa la situazione contribuirono anche le spese per l’ampliamento della rete ferroviaria, iniziato nel 1854 e realizzato interamente ricorrendo a prestiti.
C’era, però, ancora un altro motivo, per cui lo Stato subalpino non produceva più conti ufficiali e cioè perché parte dei suoi oneri erano privi delle relative evidenze contabili, come riscontrato anche da Savarese, il quale al proposito nel suo libro scrive: “Come avviene che dal 1855 al 1859 non siano più stati presentati i conti, né siasi proceduto per legge all’assestamento definitivo dei bilanci? Che cosa si potrebbe rispondere a chi ci venisse a dire: che i conti dal 1855 al 1859 contengono spese ingiustificabili; ovvero spese tali, che un ministro non oserebbe confessare al cospetto del parlamento italiano?” Dirigenti, funzionari e impiegati piemontesi, infatti, sottraevano sistematicamente somme dalle casse delle amministrazioni, nelle quali erano impegnati, e quindi erano sparite e continuavano a sparire ingenti quantità di danaro dello Stato. Il fenomeno assunse proporzioni talmente rilevanti che finì per rappresentare una percentuale significativa del debito generale e gli economisti dell’epoca lo definirono con l’espressione piuttosto colorita di debito pubblico innominabile. Ovviamente con il danaro recuperato dalle casse del Regno delle Due Sicilie, pari a circa 80 milioni di lire, la prima operazione che il Piemonte effettuò fu proprio l’eliminazione di questo particolare tipo di passivo e così sparirono diverse voci da quello complessivo con la sua conseguente diminuzione.
Il Regno di Sardegna, quindi, era in grande difficoltà e si avviava, letteralmente, alla bancarotta. Sappiamo, infatti, che al momento dell’annessione dei territori borbonici aveva una liquidità sufficiente a pagare gli stipendi dei dipendenti statali per non più di un paio di mesi. Uno dei maggiori esponenti politici piemontesi dell’epoca, Pier Carlo Boggio (un sincero patriota, morto eroicamente nella battaglia di Lissa del 1866), vicino alle posizioni di Cavour, nell’opuscolo Fra un mese!…, pubblicato nell’aprile del 1859 (Tip. Scol. Franco), dichiarava le sue preoccupazioni sulla situazione finanziaria dello Stato sardo e affermava che questo si sarebbe potuto salvare solo continuando le sue guerre e acquisendo nuovi territori, dai quali trarre sostegno per la propria economia. Boggio (come riporta la storica Angela Pelliciari ne L’Altro Risorgimento, Ares, 2000) scriveva: “La pace ora significherebbe per il Piemonte la reazione e la bancarotta.” Ecco come poi spiegava i motivi della sua affermazione: “Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico; falsò le basi normali del suo bilancio passivo … Ogni anno il bilancio del Piemonte si chiude con un aumento del suo passivo. L’esercito assorbe, esso solo, il terzo circa di tutta l’entrata. La sproporzione è flagrante – anomala – eccessiva. Ma pure l’esercito è il palladio delle nostre speranze, è la base delle nostre aspirazioni. Ridurre l’esercito equivarrebbe ad abdicare all’idea italiana. E conservandolo qual è, il Paese viene rapidamente spinto alla bancarotta. Ecco adunque il bivio: o la guerra o la bancarotta.”
In una situazione del genere Lord Lionel Rothschild fece l’unica cosa che probabilmente poteva fare per recuperare i crediti della sua banca e si rivolse alla Massoneria inglese, spingendola ad appoggiare il progetto espansionistico piemontese, il cui successo avrebbe messo lo Stato subalpino in condizione di fare fronte ai propri impegni. E quanto poteva essere determinante l’intervento dell’associazione segreta nella nostra penisola, ma più in generale nel panorama politico occidentale, si può capire, se si pensa che le direttive dei suoi vertici londinesi per gli adepti erano certamente più vincolanti degli ordini ricevuti dai propri sovrani.
Lord Rothschild, quindi, si rivolse alla Massoneria, ma in quegli anni, cioè negli anni Cinquanta dell’Ottocento, in Inghilterra rivolgersi alla Massoneria significava rivolgersi anche al governo. Il numero uno dell’associazione, Lord Henry Palmerston, infatti, era anche primo ministro (lo fu dal 1855 al 1858 e dal 1859 al 1865), mentre il suo numero cinque, il già citato Lord Gladstone, era Cancelliere dello Scacchiere, corrispondente al nostro ministro delle finanze (ricoprì questa carica per quattro volte, dal 1852 al 1855, dal 1859 al 1866, dal 1873 al 1874 e dal 1880 al 1882, ma fu anche per ben quattro volte primo ministro).
Del governo faceva parte anche Lord John Russell (che dal 1854 al 1855 fu Lord President of the Council, dal 1852 al 1853 e dal 1859 al 1865 fu Segretario di Stato per gli affari esteri, mentre dal 1846 al 1852 e dal 1865 al 1866 fu primo ministro), altro nome di punta dell’organizzazione segreta, della quale, però, non si sa se fosse il numero due o il numero quattro.
Il numero tre, Lord Shaftesbury, leader come detto dei Protestanti Evangelici, invece non era membro dell’esecutivo, però aveva una grande influenza sull’opinione pubblica inglese e la orientò a favore della spedizione dei Mille, che venne seguita dai cittadini della Gran Bretagna con enorme partecipazione, mentre Garibaldi per loro divenne una specie di eroe nazionale.
Come si vede, quindi, non è conosciuto solo uno dei cinque principali esponenti della loggia londinese dell’epoca. Potrebbe trattarsi, però, proprio di Lord Rothschild, che a questo punto, in alternativa con Lord Russell, sarebbe stato il numero due o il numero quattro della struttura. Il banchiere aveva rapporti con una pluralità di soggetti, dei quali non tutti vedevano di buon occhio la sua appartenenza ad un’associazione per molti versi addirittura misteriosa e di conseguenza potrebbe aver richiesto un maggiore riserbo. Probabilmente per questo oggi non è noto il posto che occupava in quegli anni nella gerarchia della Massoneria, ma la questione è assolutamente marginale, perché Lord Rothschild ne faceva parte e senza dubbio al suo interno era un personaggio molto autorevole, come lo era in generale nella società del tempo, indipendentemente dal ruolo ufficiale.
Tratto dal capitolo I de LA STORIA DELL’ITALIA UNITA Ciò che è accaduto realmente nel Sud dopo il 1860 (pubblicato e distribuito da Amazon)
di Enrico Fagnano