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L’amministrazione delle Giustizia nel Regno delle Due Sicilie

Posted by on Mag 16, 2016

L’amministrazione delle Giustizia nel Regno delle Due Sicilie

parli di politica e tutti si lamentano, parli di burocrazia uguale per non parlare di giustizia ma nessuno fa nulla ci si lamenta soltanto, il Dr. Ubaldo Sterlicchio ci permette di leggere un suo lavoro su come veniva amministrata la giustizia veniva amministrata ai tempi nostri, di seguito articolo e alla fine lo stesso in pdf con note storiche.

 

L’amministrazione delle Giustizia nel Regno delle Due Sicilie

 

La storiografia risorgimentalista ha fatto sì che la giustizia borbonica fosse consegnata alla Storia come una fra le peggiori dell’esperienza europea e, più in generale, che il Regno delle Due Sicilie avesse una burocrazia farraginosa ed arretrata.

Invece non era così!

Se volgiamo infatti lo sguardo, con la necessaria attenzione e con onestà intellettuale, alla legislazione penale ed al sistema carcerario borbonici, ci accorgiamo di quanto ciò sia falso e di come, invece, sia purtroppo vero che la storia venga scritta sempre dai vincitori.

Oggi, senza tema di smentita, possiamo affermare che il Regno delle Due Sicilie eccelleva sotto gli aspetti sociale, culturale, industriale, economico, amministrativo, ed aveva delle leggi all’avanguardia in numerosi settori.

In particolare, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da molti studiosi come il più avanzato dell’Italia pre-unitaria, in linea con la grandissima scuola napoletana del diritto. Ed è appena sufficiente consultare, presso l’Archivio di Stato di Napoli – fondo Archivio Borbone la «Collezione delle Leggi e de’ Decreti Reali del Regno delle Due Sicilie», per rendersi conto della modernità e dell’elevato livello di civiltà giuridica che caratterizzavano l’Ordinamento duosiciliano.

 

Legislazione penale

Sin dal 1774, era stato introdotto nell’impianto processuale borbonico l’obbligo della Motivazione delle Sentenze, in linea con le teorie illuministe del giurista napoletano Gaetano Filangieri (1753-1788); ed, allorquando la tortura giudiziaria vigeva ancora con tutta la sua ferocia nel cosiddetto “liberale” Piemonte, le leggi borboniche già da un pezzo l’avevano vietata. Era stabilito, inoltre, che la corrispondenza privata non potesse venire in alcun modo manomessa e che non fosse lecito imprigionare un povero debitore senza un giudizio di merito che ne avesse accertato la frode.

È molto interessante esaminare i seguenti articoli della legge del 29 maggio 1817, titolata: «De’ conciliatori, de’ giudici, de’ tribunali, e delle Gran Corti in generale».

Art. 81: «In parità di voti [fra i magistrati componenti le Corti di Giustizia, n.d.r.], sarà seguita l’opinione più favorevole al reo».

Art. 194: «L’Ordine Giudiziario sarà subordinato solamente alle autorità della propria gerarchia. Niun’altra autorità potrà frapporre ostacolo o ritardo all’esercizio delle funzioni giudiziarie o alla esecuzione dei giudicati».

Art. 196: «Niuno potrà essere privato di una proprietà o di alcuno de’ dritti, che la legge gli accorda, che per effetto di una sentenza o di una decisione passata in giudicato».

Art. 219: «Tutte le sentenze e tutti gli atti dei giudici, de’ tribunali e delle Gran Corti, saranno scritti in italiano; le sentenze saranno motivate nel fatto e nel diritto».

Sarebbero sufficienti solo queste quattro norme per attestare, in maniera incontrovertibile, la modernità e l’elevato livello di civiltà giuridica che, già nei primi decenni del XIX secolo, caratterizzavano il sistema penale borbonico.

Il 21 maggio 1819 fu promulgato da Ferdinando I una sorta di Testo Unico, diviso in 5 parti: leggi civili, leggi penali, leggi della procedura ne’ giudizi civili, penali e per gli affari di commercio, che realizzava una fondamentale unificazione legislativa nel Regno.

Il Codice Penale, in particolare, prevedeva che i magistrati venissero reclutati per concorso e non per nomina regia, come avveniva in altre parti d’Italia; quelli, poi, che componevano le 21 Gran Corti Criminali, presenti nei principali capoluoghi del Regno, dovevano essere in numero pari poiché, in caso di equilibrio nel giudizio, si doveva decidere osservando il già citato principio secondo cui «l’opinione è per il reo». Questa norma sulla composizione paritaria delle Grandi Corti, in merito alla quale si potrebbe scrivere e parlare per ore, scaturiva da un’applicazione talmente evoluta del principio giuridico del favor rei, che con la scomparsa del Regno borbonico non ha più trovato applicazione, perché non è più affiorata in forma compiuta nella retriva coscienza giuridica post-unitaria.

È interessante poi notare come, nella parte dello stesso Codice dedicata alle pene, non si facesse alcun cenno a reati d’indole sessuale; ciò in difformità da quanto avveniva in altre legislazioni contemporanee. Nel libro II, tit. VII, cap. II, concernente «Dei reati che attaccano la pace e l’onore della famiglia», l’art. 345 puniva genericamente «ogni altro atto turpe o sregolato d’incontinenza che offenda il pudore pubblico», perseguendo nella stessa misura sia gli eterosessuali che gli omosessuali. Al contrario, 20 anni dopo, nel 1839, con l’introduzione in pompa magna del Codice Penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna, in vigore in Piemonte, Liguria, Sardegna e Savoia, l’art. 439 contemplerà la punizione della «libidine contro natura», anche se avvenuta senza violenza e fra adulti consenzienti, sanzionando così l’omosessualità. L’art. 425 del successivo Codice penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859 riprenderà le disposizioni del codice del 1839; e sarà quest’ultimo Codice ad essere esteso a buona parte del neonato Regno d’Italia, dal 1860 in poi, fino alla sua sostituzione con il primo codice penale veramente italiano, il Codice Zanardelli, nel 1889. In questo modo, la criminalizzazione dell’omosessualità fu estesa a gran parte del nuovo Regno.

Con un decreto del gennaio 1824, ai fini di una più rapida definizione dei procedimenti giacenti, fu introdotto l’istituto della «transazione», molto simile all’odierno «patteggiamento», tra il pubblico ministero ed il reo, nel contesto di un procedimento abbreviato; si pensi che entrambi questi istituti (patteggiamento e rito abbreviato) saranno introdotti nel diritto processuale italiano solamente il 24 ottobre 1989, vale a dire ben 165 anni dopo!

Soprattutto Ferdinando II di Borbone legiferò e si adoperò ai fini della più corretta amministrazione della Giustizia, garantendo in primis l’assoluta indipendenza della Magistratura dagli altri poteri dello Stato. Inoltre, ben sapendo «che nella pubblicità dei giudizi è riposta la più solenne guarentigia della loro rettitudine, e che codesta pubblicità è la scuola migliore che aver possa un popolo… ordinò e richiamò essenzialmente in osservanza la discussione pubblica di tutte le cause, mirando anche al motivo della gloria del foro, affinché non scemasse il pregio dell’eloquenza degli avvocati con lasciar trasandata la perorazione delle cause».

Con l’ordinanza del 18 novembre 1833, lo stesso re prescrisse poi ai Procuratori Generali del Regno di segnalare al Ministro della Giustizia, con rapporto circostanziato, i pronunziati delle Corti a pene capitali, affinché il Re fosse messo in condizioni di provvedere – motu proprio – per l’eventuale grazia o commutazione di pena.

Durante tutto il Regno di Ferdinando II, infatti, nessuna sentenza capitale, pronunciata per motivi politici, fu mai eseguita: furono tutte tramutate in carcere, quando i condannati non furono addirittura graziati, fatto unico nell’Europa di quei tempi! Pertanto, alla luce di quanto appena detto, si può ben affermare che, nel Regno borbonico, al momento dell’unità d’Italia, la pena di morte risultava essere stata, di fatto, abolita, tanto che lo storico Paolo Mencacci osservò: «a giudicare coi criteri odierni, che ritengono la pena di morte una barbarie, il Regno delle Due Sicilie, nel decennio che precede l’unificazione, è senz’ombra di dubbio uno Stato modello».

Il 25 febbraio 1836, Ferdinando II abolì anche la pena dei lavori forzati perpetui che, invece, nei decenni post-unitari, fu largamente inflitta dal Governo italiano ai cosiddetti «briganti» meridionali.

Per tutelare infine la privacy degli imputati, con un decreto del 1849, lo stesso Ferdinando II vietò che i giornali ed i periodici pubblicassero gli atti istruttori delle cause penali in pendenza di giudizio. La trasgressione comportava la reclusione, oltre ad un’ammenda.

 

Sistema carcerario

 

Con una circolare del 24 ottobre 1800, Ferdinando IV (poi I), promulgò norme innovative in favore dei carcerati, ordinando che per i detenuti poveri il Fisco, e cioè lo Stato, sostenesse le spese per il loro vitto. Questo avveniva mentre, nelle restanti carceri europee del tempo, i familiari dovevano provvedere a fornire il companatico per i congiunti chiusi in prigione.

Nel 1817 Ferdinando I di Borbone emise un decreto assolutamente all’avanguardia per i tempi. Il provvedimento prevedeva, in primis, la costituzione di una speciale Commissione per ogni valle, che vigilasse sul regolare funzionamento delle carceri, sulla salubrità e sicurezza dei locali e sulla qualità del cibo somministrato ai reclusi. Il provvedimento regio conteneva, inoltre, le norme relative alla concessione di quegli appalti che provvedessero, all’interno delle strutture carcerarie, alle più elementari necessità dei detenuti, come la pulizia, la rasatura, il lavaggio della biancheria sporca, il ricovero dei malati in apposite strutture sanitarie. Ogni prigione doveva essere fornita di un cappellano, di un medico e di un cerusico.

Nel Codice del 1819 si legge anche che: «…il pavimento del carcere si laverà ogni 15 giorni… il carcere si imbiancherà ogni sei mesi, sarà mantenuto anche il barbiere dei poveri …e non potrà pretendere compenso alcuno dai detenuti …il barbiere raderà i capelli a tutti coloro che giungeranno al carcere e si dichiareranno poveri. Raderà a costoro la barba una volta a settimana. Il fornitore stipendierà anche il lavandaio dei poveri; le biancherie dei letti e le camicie saranno cambiate ogni 8 giorni, se pure non occorresse farlo più sovente».

Nel 1845, Ferdinando II emanò un decreto sulla legislazione carceraria che, se fosse stato integralmente applicato (infatti, lo fu solo parzialmente, soprattutto a causa delle gravissime problematiche provocate dalle continue rivolte, fomentate dai facinorosi liberal-massoni, che il Regno dovette affrontare durante quel turbolento periodo storico), avrebbe senz’altro reso il sistema penitenziario borbonico il più moderno del mondo. Il decreto, infatti, prevedeva la suddivisione dei carcerati in varie categorie, a seconda dell’età e del delitto commesso, nonché la loro separazione in strutture diverse, per evitare che il contatto fra i detenuti per reati poco gravi e i detenuti per reati di maggiore entità, potesse avere una cattiva influenza sui primi; la destinazione al lavoro dei condannati alla reclusione, fino ad allora abbandonati nel più terribile ozio, presso manifatture da costituirsi all’interno degli stessi penitenziari; l’istruzione religiosa e morale. Il decreto conteneva, altresì, norme sulla struttura architettonica del carcere, che avrebbe dovuto rispondere ai requisiti della vigilanza, della sicurezza, della salubrità, della capacità e del contenimento della spesa.

Il regime borbonico si dimostrò all’avanguardia anche nel settore dell’edilizia carceraria ed una particolare menzione merita, a tale proposito, l’esperimento del penitenziario di Santo Stefano.

In un’epoca in cui non esisteva il concetto moderno della detenzione nel rispetto della «dignità umana» ed in cui il carcere era inteso solo e soprattutto come «vendetta sociale» e, quindi, esclusivamente come luogo di espiazione e di castigo, i cattolicissimi re Borbone, ispirandosi alla clemenza dettata dal Vangelo, la legge perfetta posta alla base del loro Ordinamento Statale, fecero proprie le tesi «roussoiane» secondo le quali «L’uomo non è cattivo per nascita, ma perché è la società che lo circonda a condizionarlo negativamente. Pertanto, se lo si sottrae all’ambiente perverso e lo si introduce in un mondo sano e regolato, egli si redime». Gli ideali cristiani ebbero, quindi, un peso determinante nel campo criminologico borbonico, aiutando a comprendere che il periodo di isolamento in carcere, e quindi la pena detentiva, dovesse servire alla correzione della personalità del reo; per usare la dizione che rinveniamo nell’articolo 27 della Costituzione della Repubblica italiana, dovesse «tendere alla rieducazione del condannato». Il carcere che, nel mondo dell’epoca, era caratterizzato da promiscuità e trattamenti inumani, da noi divenne «penitenziario» e cominciò così a farsi strada la teoria dell’emenda del reo, in base alla quale la funzione della pena deve essere quella di «correggere il comportamento criminoso, al fine di reinserire il soggetto nella società».

Forti di tali principi, i Borbone concepirono il carcere come un luogo di redenzione e non più solo come punizione, quale rappresaglia di una società offesa, e realizzarono un regime penitenziale fra i meno disumani d’Europa. Essi progettarono, prima d’ogni altro Stato europeo, una riforma in tal campo che teneva conto delle esigenze elementari dei carcerati e della necessità di educarli, al fine di permettere loro di iniziare una nuova vita, una volta espiata la pena. I Borbone, pertanto, compirono la prima riforma carceraria che tenne conto dell’umanità del condannato, statuendo che i luoghi di detenzione non dovessero essere più quelle incivili ed inumane prigioni, dove i detenuti soffrivano la reclusione nella più bieca ed inumana promiscuità, ammassati in locali senza servizi igienici e dove molte volte convivevano donne, bambini e uomini. Si rese, quindi, evidente la necessità di assicurare ambienti adeguati per spazio e cubatura, igienici e dove i condannati, separati per sesso, e molte volte per tipologia di reato, ricevessero anche assistenza sanitaria e religiosa, e potessero svolgere un’attività lavorativa.

È con questo altissimo concetto etico e morale che vennero commissionati al maggiore del Genio Militare Antonio Winspeare senior il progetto ed all’ingegnere Francesco Carpi la realizzazione del «primo carcere di recupero della storia mondiale», nell’isola di Santo Stefano, attigua a Ventotene, nelle Pontine. Siamo nel 1795 e, quando tutte le carceri del mondo sono ricavate in umidi ed oscuri sotterranei di antichi palazzi, oppure nelle soffitte, nelle torri e nelle segrete di freddi castelli, i Borbone realizzano una struttura penitenziaria all’avanguardia, la cui progettazione e costruzione si rifaceva ai criteri architettonici del cosiddetto panoptikon, suggeriti dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832).

Jeremy Bentham, nella sua opera Panopticon ovvero la casa d’ispezione, [edito a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983 sulla base dell’edizione originale: Panopticon or the inspection-house, London, T. Payne, 1791; cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon] formulò l’idea alla base del Panoptikon (il cui significato è «che fa vedere tutto»): grazie alla forma radiocentrica dell’edificio e ad opportuni accorgimenti architettonici e tecnologici, un unico guardiano può osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento, mentre costoro non devono essere in grado di stabilire se siano guardati o meno; la qual cosa porta alla percezione, da parte dei detenuti, di un’invisibile onniscienza del guardiano, che li condurrebbe a mantenere sempre la disciplina come se siano sempre visti. Dopo anni di questo trattamento, secondo Bentham, il retto comportamento “imposto” entrerebbe nella mente dei prigionieri come unico modo di comportarsi possibile, modificando così indelebilmente il loro carattere. Lo stesso filosofo descrisse il panottico come «un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima». La struttura del panottico è composta da una torre centrale, all’interno della quale deve stazionare l’osservatore, circondata da una costruzione circolare, dove sono disposte le celle dei prigionieri, illuminate dall’esterno e separate da spessi muri, disposte a cerchio, con due finestre per ognuna: l’una rivolta verso l’esterno, per prendere luce, l’altra verso l’interno. I carcerati, sapendo di poter esser osservati tutti insieme in un solo momento dal custode, grazie alla particolare disposizione della prigione, dovrebbero assumere comportamenti disciplinati e mantenere l’ordine in modo quasi automatico. Il regime carcerario del panopticon prevedeva, inoltre, che ad ogni singolo detenuto fosse assegnato un lavoro; si avviava così il processo di passaggio da una formula carceraria contenutiva ad una formula produttiva. Molte prigioni al giorno d’oggi hanno ripreso qualche spunto dall’idea del panottico e addirittura la struttura è stata proposta anche per la costruzione degli ospedali.

Visitando la struttura carceraria di Santo Stefano, tuttora accessibile, appare evidente la sua funzionalità e la perfetta e facile fruibilità, da parte dei detenuti in semilibertà, degli spazi comuni e delle aree circostanti. La pianta a «ferro di cavallo» rispondeva a varie esigenze. Innanzitutto psicologiche: i reclusi avevano vista solo verso l’interno e la forma tondeggiante, come l’isola stessa, dava l’idea di un arroccamento completo. Poi anche pratiche, in quanto la struttura ad emiciclo del panoptikon permetteva ad un solo sorvegliante, posto al centro, di controllare tutte le celle contemporaneamente.

È evidente poi come le celle individuali, ricavate su tre piani, fossero in realtà degli “alloggi” dove i “rilegati”, oltre che a dormire, dovevano provvedere a cucinare e ad accudire a se stessi attraverso una sorta di autogestione. A partire dalle prime ore del mattino, essi si recavano nei campi a terrazze dove lavoravano la vigna, coltivavano gli ortaggi, i cereali e curavano gli animali da latte e da carne. I salari, così guadagnati, potevano poi venire spesi nella cittadella carceraria posta immediatamente a ridosso del corpo centrale dove, oltre ad una “locanda” ben attrezzata (ma senza vendita di alcol!), i reclusi potevano disporre di un “locale barberia”, di un “cortile giochi” (bocce, zicchinetta, strumml’, lippa), di una “lavanderia” e di una “canonica” con annessa cappella.

Come già detto, la presenza dei carcerieri era estremamente limitata, sia nelle aree di detenzione notturna, che in quelle diurne; infatti, al centro dell’emiciclo era stata ricavata, una cappella/punto di osservazione, da cui un solo guardiano, a distanza e con estrema discrezione, era in grado di tenere sotto controllo tutte le 99 celle; nella stessa cappella, tra l’altro, a cura del Cappellano del carcere, veniva celebrata la Santa Messa mattutina e recitata la preghiera del Vespro alla presenza di tutti i detenuti, senza la necessità che gli stessi si muovessero dall’interno delle proprie celle.

Ed era proprio questa un’altra peculiarità delle carceri “borboniche”: il servizio religioso, molto curato, nel quale i sacerdoti si impegnavano, non solo con le funzioni sacre, ma anche con altri compiti assistenziali per i carcerati. Eppure, i detrattori continuano a definire il Regno dei Borbone «lo Stato dove si edificavano infernali carceri per inumani trattamenti». Niente di più falso! Mentre, a seguito della politica radicalmente anti-cattolica del governo italiano, le quotidiane celebrazioni religiose nelle prigioni del Sud, dopo l’unità furono abolite. Purtroppo, proprio con l’unità d’Italia, il carcere di Santo Stefano perse la sua peculiarità e fu trasformato in carcere duro ed ergastolo. Dove prima alloggiava un solo detenuto, ne furono posti due, poi ne furono stipati quattro e poi sei, mentre cessarono quasi del tutto le attività esterne, lasciando che la disperazione prendesse il sopravvento sulla speranza che un tempo sorreggeva gli antichi originari reclusi.

I Borbone, diffamati oltremodo quali «feroci e sanguinari tiranni», furono invece, fra i sovrani europei, coloro che per primi avviarono una moderna riforma carceraria e si distinsero fra tutti, dando prova di maggiore sensibilità rispetto agli stessi governanti inglesi, i quali si limitavano ad approvare i progetti dei riformatori, guardandosi bene, tuttavia, dal metterli in atto, con la conseguenza che le loro carceri, malgrado una propaganda mirante a tesserne gli elogi, risultavano le più terribili e disumane di tutta l’Europa. Anticipando le più moderne teorie e realizzazioni carcerarie, i Borbone riuscirono, con questo incredibile esperimento riabilitativo, a reinserire nella società di allora molti detenuti «operando un sicuro vantaggio per la collettività e per le pubbliche e private casse».

L’esperienza di Santo Stefano, venuta alla ribalta di recente per l’interessamento diretto dell’UNESCO, dà il definitivo colpo di grazia alle calunnie artatamente costruite dalla storiografia ufficiale sul «feroce regime carcerario borbonico» che, come abbiamo avuto modo di vedere, risultava essere invece tra i più organizzati, umani e tolleranti del mondo.

 

dott. Ubaldo Sterlicchio

 

La Giustizia penale nel Sud, prima e dopo l’unità

 

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