L’assedio di Capua nei ricordi di un veterano Borbonico
TESTIMONIANZE E DOCUMENTI
L’ASSEDIO DI CAPUA NEI RICORDI DI UN VETERANO BORBONICO
Nel 1960 venne celebrato il primo centenario dell’unità d’Italia. Cerimonie ufficiali, mostre, pubblicazioni, discorsi, medaglie, servirono – quando servirono – a ricordare agli italiani i gloriosi fatti di un passato fin troppo dimenticato e tradito già poco dopo la raggiunta unità.
Anche noi a Capua volemmo ricordare quello storico anno. Ci riunimmo in pochi amici e formammo un comitato che organizzasse qualche conferenza, una piccola mostra documentaria, un numero unico. E questo per ricordare, come già detto, quella storica data e per alimentare l’amore per le patrie memorie che è la prima leva ad ogni progresso civile per le città e le nazioni.
Ma, privi come eravamo di contatti politici e ufficiali, giacché non suonavamo la grancassa per nessun ministro, potemmo fare ben poco e lo facemmo con qualche biglietto da mille tirato dalle nostre tasche e la stampa di alcune cartoline concessa dal commissario prefettizio che allora reggeva il comune.
Il numero unico fu la prima cosa ad essere sacrificata. E pensare che già avevo cominciato a raccogliere il materiale e le illustrazioni per quello che doveva esserne l’argomento principale: la battaglia del Volturno del primo ottobre 1860.
All’uopo avevo invitato anche l’amico avv. Andrea Mariano, ottimo studioso di storia locale, perché scrivesse qualcosa sull’argomento. E l’egregio studioso, allora quasi novantenne, mi inviò dopo qualche giorno una sua memoria sull’assedio e la difesa di Capua del 1860, riferendo quanto gli era stato detto, in gioventù, da uno dei difensori borbonici, il maggiore d’artiglieria Carlo Corsi(Lo ricorda Benedetto Croce nel capitolo «Gli ultimi borbonici» del volume Uomini e cose della vecchia Italia – serie seconda – pagg. 404, 406, 409.).
Costui, come mi narrava l’avvocato Mariano in successivi colloqui, fu uno di quegli uomini d’onore che a Capua e a Gaeta, dove seguirono il loro re, seppero rialzare l’onore delle armi napoletane, avvilite e infangate – più che dalle necessità della storia – dalla disorganizzazione, dal tradimento, dall’intrigo politico, dalla corruzione.
E dopo la resa di Gaeta, rifiutando di passare nell’esercito unitario, visse in dignitosa povertà facendo perfino … l’affittacamere!
Al giovane Mariano mostrava con delicata nostalgia, inseguendo chissà quali sogni lontani, un servizio di bicchieri donatogli dalla sua bella regina non so in quale occasione. E’ superfluo aggiungere che egli non bevve mai da quei bicchieri.
Collaborò ai giornali legittimisti che uscivano a Napoli alla fine dell’Ottocento. Di lui posseggo la seconda edizione, corretta e accresciuta di documenti, di un suo saggio: Cav. Carlo Corsi, Maggiore delle artiglierie napoletane, Capitolato di Gaeta: Difesa dei soldati napoletani, Napoli, Tipi Batelli, aprile 1903, cent. 70.
Passo la parola all’avv. Andrea Mariano: «… potrà giovare quanto su tale avvenimento il sottoscritto apprese dalla voce di un ufficiale borbonico che partecipò a quell’avvenimento. Ed ecco come ebbi modo di saperlo dal maggiore di artiglieria borbonico Cav. Carlo Corsi.
Era questi figlio del colonnello Luigi Corsi che fu il fondatore della prima officina meccanica e fonderia, detta di Pietrarsa, che sorge ancora nella località Croce del Lagno sita dove il paese di S. Giovanni a Teduccio diventa poi Portici. Questa officina, sorta per volontà di Ferdinando II di Borbone, fu la prima che in Italia riuscì a costruire una macchina a vapore per il tratto di ferrovia Napoli-Portici.
Dal Cav. Carlo Corsi appresi i particolari di quell’assedio e di quella capitolazione, perché a lui mio padre mi affidò per circa sei anni in Napoli, durante i miei studi universitari ed anche dopo …
Prima di riferire quanto da lui appresi è opportuno premettere che l’attuale Capua era piazza forte ed era ritenuta la «Chiave del Regno di Napoli» perché, espugnata Capua e superato l’ostacolo del Volturno, era facile ad un esercito nemico, che venisse dal nord, raggiungere Napoli capitale del Regno.
Allora non si pensava alla possibilità di un nemico che venisse dal sud, dove il restante territorio faceva parte del Regno, e tanto meno che venisse dal mare che lo circondava.
Come piazza forte, avendo il fiume in vicinanza, le colline prossime, i terreni montuosi e la pianura di terreni pantanosi, si adattava a servire da scuola di applicazione dei giovani ufficiali, di varie armi, che uscivano dalla scuola militare della Nunziatella di Napoli, allora frequentata dai figli di famiglie molto distinte del Regno.
Qui cominciano i ricordi del Cav. Corsi, il quale, come figlio di un alto ufficiale, fece in Capua la sua scuola di applicazione e riferiva i particolari di quella vita spensierata che sorrideva nei primi anni della vita militare».
A questo punto l’autore fa una ampia digressione per raccontarci episodi e figure della vita militare nella Capua di allora, che però non hanno alcuno interesse per l’argomento di questo articolo.
Poi così ricomincia:
«Ma lasciamo … per venire all’assedio di Capua del 1860, al quale prese parte, tra i difensori della città, il giovane maggiore Carlo Corsi.
Da quel gran galantuomo che era, interpellato sulle condizioni in quell’epoca dell’esercito borbonico egli serenamente rispondeva: «Noi (cioè l’esercito borbonico)
eravamo fatti per la parata di Piedigrotta non per la guerra».
L’esercito garibaldino, dopo avere occupata S. Maria C. V. e avere respinto nel 1° ottobre 1860 un attacco dell’esercito borbonico che cercava di cacciarlo da S.Maria (Non è il caso di ripetere qui i vari episodi della battaglia del Volturno. Dopo un successo iniziale i borbonici non seppero approfittare del vantaggio e per mancanza di iniziativa, di obbedienza, di coordinazione, di prontezza, persero la possibilità di marciare su Napoli. Comunque è da notare che si combatté con eguale valore da ambo le parti. L’assedio venne posto, successivamente, dai borbonici e dai piemontesi), cingeva Capua da assedio ed aveva impiantato le sue batterie sui colli di s. Angelo in Formis e propriamente sul colle detto La Costa del monte S. Nicola.
Ai tiri di queste batterie rispondevano i cannoni delle fortificazioni di Capua e qui il Cav. Corsi raccontava che i soldati borbonici, nascondendosi dietro gli angoli dei bastioni gridavano ai loro commilitoni addetti ai tiri, in purissimo dialetto napoletano:
«Lasciateli andare, e dagli, dagli e dagli e poi dite che sono loro a sparare».
I garibaldini, arrivando fin sotto le fortificazioni di Capua gridavano insolenze ai borbonici, che erano sulle mura, chiamandoli: «filibustieri!» e questi ultimi rispondevano: «a noi figli di postieri (postiere in dialetto napoletano è l’impiegato di un banco-lotto) voi siete figli di puttana!».
Questo stato di cose non poteva durare a lungo e venne l’ultimato: o la resa della piazza forte o il bombardamento. Al diniego di resa seguì il bombardamento, che cominciò il 1° e continuò il 2 novembre, con la resa della città.
Il bombardamento consisteva nel lancio di grosse e pesanti bombe incendiarie di formasferica, le quali avevano un’apertura superiore con fuoruscita di fiamma e che scoppiavano venendo a cozzare contro corpi duri (Una di queste bombe si conserva, nella chiesa di S. Eligio, ai piedi di Sant’Andrea che protesse la città in quel cannoneggiamento.)
Di fronte all’insistenza del bombardamento e in vista dei danni che produceva, fu decisa la resa della piazza forte, e avvenne qualcosa di simile a quanto si ebbe dopo il bombardamento aereo del 9 settembre 1943, perché furono aperti i depositi di viveri e le truppe, come i cittadini, ne abusarono e la notte che precedette la resa divenne un baccanale disgustoso.
Il fiore dell’esercito borbonico passò a Gaeta, che fu assediata dalle truppe garibaldine e piemontesi, e troviamo tra gli assediati il nostro Cav. Corsi il quale si gloriava di aver servito il suo re fino all’ultimo e di essere uscito da Gaeta nel 1861 «con le micce accese», segno di riconoscimento per l’onorata resistenza da parte delle truppe assediate.
Carlo Corsi, fedele al suo giuramento al re di Borbone, non volle prendere servizio, con lo stesso grado di maggiore, nell’esercito italiano, come avevano fatto altri suoi pari e superiori.
Ebbe una pensione di fame dal governo italiano e con essa visse da solo perché non aveva più persone di famiglia, vendendo l’uno dopo l’altro i suoi beni tra i quali la bellissima villa in Portici all’angolo del largo della Riccia.
Tutto quello che avveniva nel nostro paese nell’ultimo decennio dell’800 e che rappresentava movimento di pensiero, che si allontanava sempre più dal regime monarchico e tendeva alla repubblica di Garibaldi e di Mazzini, egli interpretava come allontanamento dalla casa Sabauda e ritorno ai Borboni.
Per il resto vivemmo insieme circa sei anni, in pieno accordo, per virtù di quell’educazione che rispetta nell’amico le idee diverse dalle nostre quando siano onestamente professate».
Così termina il racconto dell’avv. Mariano dei ricordi del cavaliere Corsi. Ricordi che ci dicono qualche altra cosa sull’assedio di Capua e ci permettono di ricordare due simpatiche figure che a Capua si batterono in epoche e circostanze diverse: l’uno il veterano borbonico, sugli spalti della lealtà e del coraggio per la difesa di un Regno che ai suoi occhi era senza macchia; l’altro, il vecchio avvocato, nelle aule giudiziarie in difesa del diritto.
ROSOLINO CHILLEMI
fonte
pontelandolfonews.com