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Lavorazioni Industriali del ‘600 – ‘700 a Cerreto Sannita e Guardia Sanframondi di Antonello Santagata

Posted by on Nov 24, 2020

Lavorazioni Industriali del ‘600 – ‘700 a Cerreto Sannita e Guardia Sanframondi di Antonello Santagata

Nel ‘600 e nel ‘700 almeno due paesi della Valle Telesina non vivevano solo delle classiche tre “A” (agricoltura, allevamento e artigianato), ma avevano sviluppato, a partire comunque dalle risorse del territorio, delle vere e proprie industrie ante litteram con sviluppo del settore manifatturiero con conseguente indotto commerciale. Si tratta delle aziende dei conciatori di pelli di Guardia Sanframondi e dell’industria dei panni lana di Cerreto Sannita.

Già dalla seconda metà del 1500 i cerretesi possedevano numerose pecore che portavano a svernare in Puglia, tanto che nel territorio di Otranto si costituì una locazione (cioè un pascolo dove si pagava un affitto) denominata “Locazione di Terra d’Otranto per Cerreto”. I pastori conducevano in quei pascoli circa 30.000 pecore ed erano diventati così ricchi e importanti da avere il “privilegio” di essere soggetti direttamente alla giustizia del Re e non a quella del Duca. Privilegio, però, che costava loro il pagamento del fitto per un’equivalente di pecore dieci volte maggiore.

Nel ‘600 la pastorizia raggiunse il massimo splendore. La redditizia attività continuò ad incrementarsi e il numero delle greggi aumentò fino ad arrivare – facendo un po’ di calcoli su quanto scrive lo storico Domenico Franco – ad un numero che superava le 200.000 pecore con quasi 2.000 giumente. I proprietari erano privati cittadini ma soprattutto nobili, Cappelle e Congregazioni. La crescita fu così tumultuosa che si arrivò all’emanazione di un’ordinanza che proibiva di destinare il terreno del territorio cerretese all’agricoltura, se non per uso privato, dovendolo destinare tutto al pascolo del numero crescente di animali.

Alla fine di quel secolo tre grandi catastrofi, però, portarono ad un temporaneo declino di questa attività: un’epidemia che colpì il bestiame, la mancanza di leggi protezionistiche che fecero invadere il mercato di tessuti di altri Stati, ed il terremoto che, nel 1688, colpì principalmente Cerreto.

I cerretesi riuscirono a superare le tremende avversità ma le basi dell’economia erano ormai cambiate. I piccoli proprietari di pecore scomparvero e le grosse greggi rimasero in mano a pochi, ricchi privati e, soprattutto, alle Congregazioni e alle Chiese. Abbandonata la pastorizia, i piccoli allevatori pensarono innanzi tutto a riscostruirsi le proprie case, i facoltosi signorotti edificarono i loro palazzi e le Congregazioni ricostruirono, nella nuova Cerreto, le chiese distrutte dalla calamità.

Alla ricostruzione contribuirono sia il Vescovo di allora, Mons. Giovan Battista De Bellis, (il quale chiese fondi addirittura al Papa ottenendone, in verità, pochi solo per la ricostruzione della cattedrale), che i Duchi Carafa, Conti Signori di Cerreto, che sostennero un discreto impegno economico. Ma principali protagonisti furono i cittadini che si diedero da fare per ridarsi un tetto accedendo a dei mutui “a tasso agevolato” predisposti dal Duca per favorire la rinascita del paese.

La “generosità” dei Carafa si spiega, dunque, in parte perché erano solo dei prestiti per cui i debiti contratti dovevano essere restituiti con gli interessi e, in gran parte, perché il paese rappresentava per i Conti uno delle maggiori fonti di introito, attraverso gli incassi diretti (erano proprietari di gualchiere e tintorie) e l’imposizione delle tasse a carico di una popolazione che aveva raggiunto un notevole grado di benessere.

Dopo il terremoto, il numero di pecore non arrivò a quello del secolo precedente ma era comunque considerevole, mentre continuarono a prosperare l’industria e la commercializzazione della lana che, parallelamente alla pastorizia, si era sviluppate in quei secoli.

Un numero così grande di pecore, infatti, poneva il problema dell’utilizzo della lana. I cerretesi si organizzarono in proprio creando una vera e propria industria dei panni lana.

Le decine di tonnellate di lana ottenute annualmente venivano lavorate in loco e ciascuno dei 7-8.000 abitanti (tanti ne contava all’epoca Cerreto) aveva la sua mansione.

La lana veniva prima unta con olio, poi cardata, poi filata e infine tessuta. Il panno così ottenuto veniva ancora lavorato, immerso in acqua e soda per infeltrirlo attraverso delle antiche macchine industriali dette “gualchiere”. In queste macchine il panno veniva più volte sbattuto fino ad ottenere la “follatura” che faceva restringere e compattare il tessuto il quale successivamente veniva messo ad asciugare sopra a degli attrezzi in ferro.

In ultimo, la pezza, dopo essere stata rifilata con delle forbici, veniva inviata in tintoria dove lavorava un personale altamente qualificato e ben pagato. Vi erano la tintoria ducale (l’attuale “Tenta”), quelle comunali e parecchie private.

Ultima lavorazione era la “cartonatura” che consisteva nel passare le pezze tra due piastre di ferro roventi coperte da cartoni per conferirle un aspetto liscio e lucido. Una importante “cartoniera” stava al centro del paese nuovo, nel quartiere ancora oggi detto “Cartenera”.

I panni che non venivano venduti grezzi passavano alle aziende di confezionamento di abiti. Nelle sartorie venivano cuciti corpetti, mantasini, scolle, sottane, mantelli e dei giubbotti misto lana e seta. Non mancavano gli ordinativi per le divise militari.

Si può immaginare quante persone erano dedite a queste lavorazioni. I pastori tosavano, le donne cardavano, filavano e tessevano. I maschi erano addetti alle gualchiere e alla tintura. Poi vi erano i falegnami che costruivano quelle macchine industriali e gli operai che le manutenevano; i fabbri che costruivano gli attrezzi in ferro nonché le forbici per tosare e per azzimare. Quelli che producevano le tinture e quelli che le commerciavano. I commercianti di lana, di pezze di lana e di abiti di lana.

Le sarte e le operaie addette al confezionamento dei tessuti. I negozi che vendevano abbigliamento, gli ambulanti che portavano lana e vestiti alle fiere della Campania, della Puglia e della Basilicata.

Le forbici dei fabbri cerretesi erano diventate così richieste che una grande quantità veniva venduta nei mercati pugliesi.  

Gran parte dei soldi guadagnati, però, i previdenti antenati, li reinvestivano comprando altre pecore ed altra lana per incrementare la loro attività.

Ancora agli inizi dell’ottocento si contavano a Cerreto ben 22 “gualchiere”, cioè 22 fabbriche di panni lana, in molti casi con annessa tintoria.

“Tutti lavoravano- dice Domenico Franco- anche i vecchi e i giovani meno prestanti, oltre le donne”.

Anche a Cusano Mutri vi erano lavorazioni simili, anche se in misura ridotta rispetto a Cerreto. Molti da Cusano, Pietraroia e San Lorenzo Maggiore “menavano” le loro pecore nella locazione pugliese per i “cerretani”. Con l’allevamento delle pecore, il commercio e la fabbricazione dei panni lana prosperava l’intera Valle.A causa della concorrenza, però, si era stabilita anche una aspra rivalità tra Cusano e Cerreto mitigata dagli interessi comuni che portava, spesso, gli allevatori dei due paesi ad associarsi.

La produzione dei panni lana andò diminuendo già verso la fine del ‘700, mentre contemporaneamente si potenziava quella dello sfruttamento dei prodotti caseari. Le caratteristiche organolettiche di tale formaggio risentivano di ciò che le pecore brucavano. Dice Nicola Rotondi nelle sue “Memorie Storiche di Cerreto Sannita”: “Poiché dunque la Puglia è piena di rughetta ed altre erbe odorate era il cacio di Cerreto soavemente piccante, e al gusto di chi ne mangiava assai grazioso”.

Anche se le lavorazioni continuarono fine alla fine del ‘800, nuove mode che richiedevano nuovi tessuti (cotone e canapa), l’impossibilità di sostenete la concorrenza di altri Stati che avevano leggi più moderne di tutela e una ventata di esterofilia, portarono definitivamente al declino quella che era stata una prospera e ricca industria.

I nostri avi, dunque, quando contavano i soldi in tarì, carlini e tornesi, pesavano con il rotolo, valutavano con il tomolo e misuravano i liquidi con la langella e la caraffa, avevano raggiunto, grazie alle loro capacità imprenditoriali e commerciali, una diffusa e notevole agiatezza economica attraverso l’allevamento delle pecore, la trasformazione e lavorazione della lana e la vendita del prodotto finito.

Oggi di quella antica intraprendenza poco resta nella cultura comune e nella memoria collettiva se non alcune espressioni dialettali risalenti all’epoca, come “pensa a le pecore ‘a Puglia” per indicare chi, sovrappensiero, pensa ai propri affari o “ha fatto ‘a Puglia” per attestare il benessere raggiunto da qualcuno.

Se a Cerreto, tranne l’orgoglio, resta poco nella memoria collettiva delle capacità degli antichi abitanti di industriarsi e creare attività produttive che davano benessere economico a tutti, almeno, però, resta traccia scritta di quell’esemplare periodo storico nei mirabili saggi di Domenico Franco. L’illustre cerretese è riuscito, con rigore da scienziato qual era e con dovizia di particolari, studiando centinaia di atti notarili e libri dell’epoca, a fissare su carta e a tramandare alle generazioni successive un pezzo importante di storia di Cerreto Sannita con la speranza, si legge chiaramente tra le righe delle sue opere, che possa essere da esempio per quelli a venire.

Per quanto riguarda Guardia Sanframondi è accaduto, al contrario, qualcosa di straordinario. Non è stato tramandato, a quanto si sa, un solo testo scritto, un manoscritto o un piccolo saggio (se si eccettua un recente articolo dello storico e linguista Silvio Falato su Vesuvioweb) che tratti organicamente, documenti e numeri alla mano, delle vicende dei conciatori di pelli che, tra il ‘500 e il ‘700, operarono in quel paese. La cui storia, per ricchezza raggiunta, per numero di persone impegnate, per le opere realizzate e per come quel tipo di economia fece primeggiare il paese, è molto simile alla storia delle industrie dei panni lana di Cerreto.

Purtroppo, però, nel caso di Guardia si reperiscono solo notizie sparse qua e là, trasmesse perlopiù a memoria.

E’ certo che nel XV secolo una delle tante comunità di ebrei in giro per il mondo, provenienti nessuno sa da dove, si stanziò a Guardia Sanframondi. Furono fatti sistemare al di fuori delle mura del paese, nella zona ancora detta Portella dove tutt’ora è ben visibile il ghetto. Gli operosi giudei, in breve tempo, si organizzarono e svilupparono anche a Guardia una delle attività in cui erano particolarmente specializzati: quella della concia delle pelli.

Il processo di concia del pellame è una lavorazione antica come l’uomo che per secoli non ha cambiato, sostanzialmente, i suoi processi lavorativi.

Il fine è quella di rendere immarcescibile la pelle organica per poterla utilizzare come indumento.

Dopo aver scuoiato l’animale la pelle andava “scarnata”, gli andava tolto, cioè, il residuo di grasso e carne che restavano attaccati. Bisognava, poi, bloccare i processi putrefattivi tramite la salatura e l’essiccamento per conservarla il tempo necessario per poterla avviare ai processi di conciatura vera e propria.

Prima dell’era industriale la lavorazione avveniva, in una prima fase, in grosse vasche piene d’acqua e calce che determinavano la perdita dei peli. Dopo queste operazioni la pelle, che era ancora deperibile, andava trattata con la “concia” propriamente detta sfruttando le proprietà dei tannini del legno. Questa fase era quella che portava alla definitiva trasformazione della pelle in cuoio.

I pezzi di cuoio, poi, potevano essere sottoposti alla “tintura” o tenuti al naturale, ma comunque venivano “ingrassati” per essere finalmente pronti per l’utilizzo.

Ci racconta Silvio Falato che i prodotti della scarnatura venivano utilizzati a scopo alimentare e distribuiti in beneficenza ai più poveri, mentre i peli, residui della fase di “depilazione”, venivano adoperati per svariati usi tra cui imbottire cuscini e coperte o indumenti invernali.

Il numero di pecore allevate dai guardiesi all’epoca è sconosciuto ma si parla di parecchie migliaia. Come nel caso di Cerreto è immaginabile che gran parte della popolazione sia stata impegnata, attraverso le varie lavorazioni, in quella attività. Dall’allevamento degli animali alla concia, dalla tintura delle pelli al loro commercio. E, con ogni probabilità, non mancavano capaci artigiani che utilizzavano le “suole” per la creazione di calzature o selle per cavalli. Non risulta, invece, riscontro dell’uso in loco del pellame per il confezionamento di abbigliamento.

L’attività commerciale divenne ragguardevole e si ampliò, travalicando i confini del Regno, fino a raggiungere destinazioni internazionali, come alcuni non precisati paesi dell’Oriente asiatico.

In quei secoli il paese veniva identificato con la produzione di pelli tanto da essere conosciuto, in particolare nelle zone dei mercati pugliesi e nei paesi orientali dove esportavano i loro prodotti, come “Guardia delle sòle”.

Pare anche che in quel periodo l’agricoltura, attuale motore dell’economia guardiese, sia stata quasi completamente abbandonata a favore della redditizia attività industriale e commerciale.

E’ stato riportato che nel paese erano attive circa 120 (qualcuno parla di 136) industrie di conciatori di pelli, un numero davvero notevole. Per avere idea del benessere raggiunto, basti pensare che i Conciatori di Pelli, che nel frattempo si erano costituiti in Corporazione, fondarono una propria Banca, con lo scopo di sostenere economicamente i loro affiliati, e istituirono un Monte di Pietà a favore dei meno abbienti.

Altra evidente dimostrazione di ricchezza e autonomia fu la costruzione, con i soldi della Corporazione, di una “loro” chiesa, quella di San Sebastiano. Fatta costruire una prima volta nel ‘600 su di una cappella preesistente, e ricostruita una seconda volta, sempre con i loro soldi, ancora più fastosa, nel ‘700, dopo il terremoto del 1688.

Nella ricostruzione del XVIII secolo i potenti e ricchi conciatori chiamarono a impreziosire con i suoi affreschi la volta della chiesa di San Sebastiano, tra gli altri, anche il valente pittore cilentano Paolo De Matteis, i cui dipinti si trovano a Napoli, Roma Parigi e Madrid, allievo del noto Luca Giordano.

La diffusa agiatezza economica portò nel paese, oltre ad ottimi pittori, anche i migliori stuccatori e maestri argentieri voluti per abbellire le chiese guardiesi. Molte, pregevoli e preziose lavorazioni, tra cui un busto di San Sebastiano in argento alto 1 metro e 30 opera dello stesso De Matteis, che fecero parte per breve tempo dello sfortunato (le opere furono tutte rubate) “Museo degli Argenti” di Guardia.

Nel 1800, questa prospera attività andò man mano a decadere fino ad estinguersi. Non sono documentati i motivi ma si possono immaginare: i nuovi macchinari industriali che sostituirono le lavorazioni artigianali (seppur riferite nel nostro caso ad un artigianato evoluto, quasi industriale), la richiesta da parte del mercato di nuovi materiali e la concorrenza di altri distretti più organizzati.

Dopodiché, come dicevamo, di quel florido periodo, di quei secoli di splendore e agiatezza, è come se fossero rimasti solo dei frammentari ricordi.

Sarà stato per la loro origine ebraica, (anche se con il tempo il gruppo di profughi si convertì al cristianesimo), o forse perché non gli è stato mai perdonato, dal potere ecclesiastico, l’aver raggiunto una insopportabile autonomia culturale ed economica, ma, verso la Corporazione dei Conciatori di pelli di Guardia, si è consumata una condanna della memoria che ha portato alla dispersione o, addirittura, alla cancellazione di molte tracce della loro laboriosa esistenza.

Antonello Santagata

L’articolo è tratto dalla “Guida alla Valle Telesina e al Sannio – ad uso dei suoi abitanti o dell’ospite interessato” di Antonello Santagata – Fioridizucca Ed. 2019

2 Comments

  1. guarda abbiamo tra i nostri associati pastori che hanno lo stesso problema e sono costretti a smaltirla come rifiuto

  2. Buongiorno
    Scrivo da Roma, sono una ragazza disabile, ho una piccola azienda agricola, ho bisogno di vendere la lana delle mie pecore, chiedo a voi se siete interessati o se avete un contatto a cui mi posso riferire.
    Aspetto vostre info
    Saluti
    Rossella

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