Lazzari non sono giacobbini
Lazzari, scugnizzi, muschilli. Nomi diversi in epoche diverse per indicare però lo stesso anelito di libertà, lo stesso amore viscerale per la propria città, Napoli, lo stesso sprezzo del pericolo. La vita a rischio, quotidianamente, per gioco. E’ il vivere pericolosamente di chi non ha niente da perdere, che spesso porta a morire da grande.
Come nel 1799, quando a mani nude fronteggiano le baionette dei battaglioni del francese invasore.
E i lazzari muoiono a migliaia.
Oppure, come nel 1943, a far ingoiare al tedesco la sua tracotanza. Bottiglie incendiarie contro l’acciaio dei carri armati Tigre. Eroismo nudo, senza l’intingolo velenoso della retorica, perché essi non hanno divisa, e per loro non ci sono luccicanti medaglie. Qualcuno ha scritto che per merito loro Napoli “ resta una città in perenne credito con la Storia”.
Ma è un credito che si ostinano a non pagare, a cominciare dagli storici di professione. Eppure per i benpensanti non meritano di essere ricordati. Colpa della loro regola vita eccessiva (pane, cielo, amore e….fantasia), sempre al di sopra e al di fuori delle righe dei canoni della normalità. Non classificabili con gli usuali schemi mentali.
Prendiamo i Lazzari, per esempio. Anarchici per il loro modo di vivere libertario e comunitario. Ma di un’anarchia eretica se è vero, come è vero, che essi sono fedelissimi difensori del trono e dell’Altare, e non solo a parole.
Quando tutti diserteranno, loro saranno ancora lì, a morire testardamente “p’o’ Rre”. Corpi scomodi da rimuovere subito, financo dal ricordo.
Storicamente i Lazzari nascono con Masaniello, più precisamente con gli “alarbi”, i suoi giovani e combattivi seguaci, seminudi e laceri, che hanno per insegna una bandiera nera. Alla vista di questi ribelli straccioni, l’altera nobiltà spagnola parla offensivamente di “lazaros”, cioè di laceri, miserabili.
Con fervida fantasia, quei giovani descamisados antelitteramribaltano l’offesa e della parola ne fanno una bandiera da innalzare. Lazzari perché discendenti dal Lazzaro del Vangelo.
E’ la rinascita di un’aristocrazia al rovescio, la Lazzaria è , dunque, qualcosa di profondamento diverso dalle corti dei miracoli esistenti nelle altre capitali europee.
I Lazzari non sono mendicanti, né ladri; anche se occasionalmente possono trasformarsi negli uni e negli altri. Né tantomeno sono affiliati alla camorra, che al tempo degli spagnoli comincia a mettere radici; anche se ogni Lazzaro del mercato conosce il “santo”, cioè la parola d’ordine che dà la camorra quale lasciapassare; essa è soltanto un ossequio di quest’ultima alla Lazzaria, di cui teme la forza. Siamo di fronte ad un vero e proprio contropotere.
Tanto che ogni Lazzaro ripete orgogliosamente che Napoli ha soltanto tre padroni: prima viene San Gennaro, poi il re e, infine, lui. Dunque i lazzari padroni della città, ma padroni giocosi.
Proverbiale infatti la loro giocosità, quasi la vita fosse un’eterna festa. Non a caso lazzo, che sta per scherzo, deve a loro l’etimologia. La vera forza dei lazzari sta nell’essere al di fuori di tutte le esigenze sociali. Egli vive del nulla, e di questo nullo fa appunto la sua forza. Per tetto ha soltanto il cielo stellato di Napoli; il clima quasi sempre mite fa si che egli possa fare a meno di gran parte delle vesti. Il bassissimo prezzo della frutta, che la vicina feracissima campagna fornisce in quantità, l’abbondanza del pescato gli permettono di sfamarsi senza tanti problemi. E se qualche problema resta, è risolto dall’arte dell’arrangio e dalla fantasia sempre vivissima. L’essere al di fuori di ogni esigenza sociale lo rende obiettivamente un uomo libero.
Il Lazzaro è consapevole di questo e si gode lo spettacolo della vita, pronto ad impadronirsi dei giorni di festa della città, così come dei suoi giorni di guerra. Ammira i soldati con le loro sgargianti divise, quando vengono passati in rivista dal Re. Il teatro dei pupi lo vede spettatore ed attore, piange e ride con il suo eroe preferito. E’ spesso al porto a guardare le partenze e gli arrivi delle navi, facendo viaggi meravigliosi con la fantasia.
E’ veramente l’uomo del paradosso, tanto da far scrivere al Dumas “…..gli altri popoli si riposano quando sono stanchi di lavorare; lui, invece, quando è stanco di riposare lavora…”.
La loro anarchia è apparente perché all’interno riconoscono una vera e propria gerarchia, i cui capi sono riconosciuti ufficialmente dalla Corte borbonica.
Porta Capuana diventa il quartier generale dei capi-lazzari, mentre piazza Mercato, cuore da sempre della vecchia Napoli, la base generale di tutti i Lazzari.
Così che quando Ferdinando di Borbone lascia la città per una visita diplomatica alle altre corti europee, sono i “gran marescialli “ della Lazzaria a garantire l’ordine nella capitale Del Regno delle Due Sicilie, con gran rabbia delle camorra e grave scorno della polizia.
E la promessa viene mantenuta. La coscienza di essere una forza temibile all’interno del popolo napoletano, quasi gruppo etnico a se stante, fa sì che alla fine del Settecento, durante l’effimera Repubblica Partenopea, finiscono col diventare, per libera scelta, oggettivamente un’elite controrivoluzionaria, che offre il proprio braccio alla difesa del Re.
Una forza non di poco conto se si considera che il loro numero ascende a circa 50000, 60000 uomini decisi a tutto, circa il 10% dell’intera popolazione della Napoli di allora.
Odiati dall’intellighenzia cittadina filogiacobina per questa loro devozione fanatica al trono dei Borboni, i Lazzari sono malvisti anche dalla Chiesa, che li preferisce mendicanti.
I rapporti con la borghesia sono poi da sempre conflittuali, essendo solitamente i beni di quest’ultima a risentirne durante le ricorrenti sollevazioni dei Lazzari contri il malgoverno spagnolo. I quali, spavaldamente, si concedono perfino il lusso di avvertire la popolazione e quindi la guarnigione spagnola che di lì a poco ci sarà sommossa.
E’ il famoso grido “ serra serra “, letteralmente “chiudi chiudi”. Esso è un grido di guerra, di allarme e di riunione, quando i Lazzari in procinto di rivoltarsi, danno loro stessi ai commercianti la voce affinchè serrino le botteghe, soprattutto quelle alimentari.
La voce, prima sommessa, si sparge veloce nell’intricato dedalo di vicoli, poi diventa grido, infine saccheggio. Quel grido raggela i ceti abbienti. E’ l’avvertimento dell’imminente finimondo che sta per succedere. Numerose, ma mai rispettate, nel corso dei decenni le prammatiche sanzioni dei Vicerè per vietare il grido.
Quando, nell’anno 1799, i Francesi invasori sono alle porte, in Napoli prendono chiare posizioni, fronteggiandosi, soltanto i filogiacobini e Lazzari . La borghesia come sempre, per i soliti interessi di bottega, pur non schierandosi apertamente propende per il più forte in quel momento, cioè i Francesi. Per questo motivo i Lazzari, con la loro filosofia spicciola, ne traggono le debite conclusioni che: “chi tene pane e vino / add’esse giacubino”.
Beceri, straccioni, barbari, ignoranti, sanguinari. E’ stato fin troppo facile, per l’intellighenzia nostrana, marchiare con queste parole di fuoco i combattenti della Lazzaria. Salvo poi a celebrare come martiri quei capi-lazzaro, come Michele Marino inteso “ o Pazzo “, che passano successivamente dalla parte della Repubblica.
Dimenticando che il passaggio di campo è dovuto, per il Marino, anche ad una borsa di ben duecento ducati. Un vero e proprio tradimento prezzolato, che comunque Michele ‘o pazzo, pagherà alla fine con la morte, mediante impiccagione per mano degli stessi Lazzari, il 29 agosto 1799.
Lazzari monarchici tutti sgherri assassini, Lazzari repubblicani tutti martiri. Così sono sempre andate le cose in questo nostro paese.
Eppure in quel momento la scelta di campo dei Lazzari monarchici coincide inequivocabilmente con la difesa della dignità e della libertà della nazione Napoletana, in barba a tutti i sofismi intellettualoidi.
Al grido di “Viva ‘o Rre nuosto e morte i Giacobbe” i Lazzari affronteranno, quasi disarmati, i battaglioni francesi, pagando un prezzo altissimo di lacrime e sangue in difesa della Napoletanità, che in fondo ci appartiene grazie anche a loro.
Orazio Ferrara