Alta Terra di Lavoro

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LE ANGOSCE DELLA CASTA MAFIOSA di Nicola Zitara

Posted by on Mag 10, 2018

LE ANGOSCE DELLA CASTA MAFIOSA  di Nicola Zitara

Negli anni di guerra, scuola se ne face poca. Il tempo libero induceva noi ragazzi a una frequentazione dei libri e delle letture che oggi è solo di qualche filosofo. Durante l’inverno la comitiva di amici e compagni di classe si raggruppava in casa di  donna Francia, intorno al braciere che lei preparava proprio per noi. Mimmo leggeva e recitava. Gli spettri di Henrik Ibsen era il suo pezzo forte.

L’eroe muore a causa di una malattia ereditata dal padre. Muore invocando il sole. Le colpe dei padri ricadono sui figli. Anche i figli dei mafiosi, di cui Enzo Carrozza racconta in suo libro in via di pubblicazione, sono esseri in trappola, la loro vita è segnata dai precedenti familiari, l’agguato è al centro della loro giornata, la morte il pensiero dominante, l’incubo d’ogni notte.

Gli schemi, i paradigmi, le analisi sociologiche non mi servono. Sono nato e sono venuto su  in un luogo in cui i mafiosi erano una componente del paese; persone date, sia come singoli o sia come genere. Come le suore, la maestra, l’accalappiacani, le guardie, i ferrovieri, gli operai, i pescatori, Zagarè e la sua carrozza. Ma i mafiosi avevano un loro regolamento interno, diverso dai regolamenti vigenti fra i civili o fra i compagni di scuola. Nel regolamento mafioso – si sapeva – era prescritto che i conflitti sfociassero in coltellate e si concludessero con uno sbudellamento. Era norma che la cosa avvenisse fuori dalla portata dei comuni mortali. Imperscrutabili erano anche i motivi. Le spiegazioni che venivano date dalle persone ben informate non erano altro che ipotesi. L’evento non era un mistero, ma causa e causanti sì. Peraltro la mafia era una piccola cosa nella vita della parte urbana del  paese. La vita cominciava al sorgere del sole, con i pescatori che tiravano a riva la rete stesa  alle ultime ore della sera prima, proseguiva con i carri che venivano da lontano per portare il nozzolo agli stabilimenti dell’olio al solfuro, con i carri che trasportavano  le arance, i limoni, i mandarini  al magazzino, dove i fimmini venute dai paesi dello Stretto li lavoravano, e che al primo pomeriggio sarebbero ricaricati sui carri e portati alla “piccola” della stazione ferroviaria per essere  spediti a Bologna, a Torino, a Monaco di Baviera, a Colonia, o anche a Messina per l’imbarco su vapori inglesi.

Nel centro urbano la vita erano la scuola, le botteghe artigiane, i negozianti, il municipio, il sabato fascista, il 24 Maggio, la granita da don Gigi, il cono da Bertoldo, il gioco a battimuro nel vicolo, la partita a palla, la scazzottata con quelli della Stazione,  la fuga al cospetto di don Natale, la guardia, che appena fiutava la presenza di un pallone, minacciava sanzioni. In Calabria la mafia era cosa della campagna, e le occasioni d’andare in campagna non superavano numericamente il  giorno di Pasquetta e quello di una passeggiata scolastica. Soltanto durante la guerra la campagna, divenuta necessario rifugio, ebbe la sua giusta rivalutazione. La campagna aveva i contadini, i padroni e un suo corpo di polizia, la mafia.    Personalmente il primo mafioso, o a tale predestinato, lo conobbi prima dello sfollamento. Era un giovane diciottenne che vendeva al mercato nero carne di vitello. Aveva dei clienti fissi, che pagavano in pronti contanti e gli facevano la commissione per la successiva macellazione. Morì stupidamente, intossicandosi con foglie di tabacco per sottrarsi alla chiamata alle armi.

I ragazzi di campagna, miei coetanei, avevano una grande stima dei mafiosi. Raccontavano le prodezze di questo e di quello. Per loro i mafiosi erano delle autorità nella quotidianità della vita e degli idoli, nella fantasia dei cavalieri da poema medievale. In effetti erano contadini come tutti gli altri, solo che nessuno dei più in vista andava a zappare a giornata. Erano invece quasi sempre lavoratori specializzati, specialmente potatori. I più autorevoli facevano i guardiani nell’erogazione dell’acqua d’irrigazione consortile o nei giardini in cui le arance erano già mature e pronte per essere raccolte. L’idea che mi è rimasta in testa è che fossero contadini meno poveri e meno ignoranti della massa. Ricevevano, credo, un trattamento salariale migliore e ottenevano parecchio rispetto dagli stessi padroni dei fondi. Gran parte di essi aveva imparato nozioni tecniche dagli agronomi delle cattedre ambulanti, che in quegli anni venivano spediti dall’Università di Portici e dalla Stazione sperimentale in agrumicoltura di Catania in giro per i fondi a insegnare metodi moderni di coltivazione. I rapporti contrattuali e le relazioni sociali scorrevano senza intoppi tra figure lavorative e ceti sociali ben definiti dalla prassi economica. Ma quest’armonia è forse la superficiale impressione di un ragazzo la cui giornata era impegnata a scuola e dai compiti; il poco  tempo libero era preso dai passatempi e dai giochi urbani, non certo dalle osservazioni di carattere sociologico.

Il tranquillo scorrimento della vicenda sociale venne sconvolto a partire dallo sbarco degli angloamericani in Sicilia. Venuta meno la difesa militare da parte dello Stato, la gente dovette pensare a difendersi, cosa che si fece sia cercando di allontanarsi il più possibile dalle strade di grande comunicazione sia rispolverando vecchie pistole e fucili da caccia. Fu a questo punto che apparve la mafia come corpo brigantesco, adeguatamente armato, ben organizzato e diretto. Cominciarono allora le minacce e i ricatti nei confronti dei possidenti, che avevano perduto la difesa dello Stato. L’occupazione angloamericana rafforzò la posizione della cosca locale, che salì al ruolo di incaricata dell’ordine pubblico cittadino. Il racket poté essere effettuato senza ricorrere a minacce e come una tassa da pagare a un potere legittimo e a una forza dell’ordine. Il mercato nero abbatté il muro che separava la città dalla campagna. I contadini cominciarono a prendere il treno per Napoli trascinandosi dietro pesanti  valigie e pacchi contenenti bidoni d’olio e altre derrate. Il ricarico commerciale si alzò al di là del cento per cento. I campagnoli videro per la prima volta quel denaro, la cui mancanza era la causa della loro separatezza e inferiorità sociale. Dice un vecchio adagio che il danaro fa venire la vista ai ciechi. Il danaro è importante per tutti. In un mondo in cui è lo scambio contrattuale che ci consente di mangiare e più in generale di vivere in società, il possesso di danaro contribuisce fortemente a definire l’identità pubblica dei singoli  e anche l’idea che il singolo ha di sé. Per le persone che ottengono anche altro tipo di riconoscimento sociale – per esempio la cultura, la facondia, la bellezza fisica, la qualità sportiva etc. – il possesso di danaro è solo una delle componenti della personalità, mentre la personalità di chi non offre agli occhi del pubblico  qualità diverse dall’avere, il possesso o il non possesso di ricchezza che frutta danaro resta l’unica identità sociale.

Nel ricordo della mia giovinezza, per i contadini il danaro era il solo mezzo per conseguire un apprezzamento sociale. Giovanni Verga ha chiarito questo punto più di un secolo fa. La cultura, l’arte, lo sport sono elementi della personalità non soltanto faticosi da conseguire, ma un tempo erano completamente fuori dall’orizzonte di un contadino dell’estremo Sud. Il mercato nero permise ai contadini di presentarsi nel mondo urbano con i soldi in tasca. Gli intrallazzisti presero a esibire il pacchetto di banconote guadagnate come un trofeo, a sentirsi superiori e a sfidare l’antico nemico, il cittadino.

Campagna e commercio! Una parte del mondo contadino meridionale entrò nel mondo urbano sul limitare del mezzo secolo XX, nella prima fase de ‘la grande trasformazione’ attraverso tale passaggio, e non attraverso l’industria o optando per l’emigrazione in città, come avvenne per gli alpigiani e come avvenne anche qui da parte dei meno arditi o dei più morali. L’industria era poca e perdente, non poteva essere un’opzione. Fu saltata, la mafia entrò negli affari aprendo spacci e botteghe, comprando e vendendo mercanzie, e, quel che fu ed è più lucroso vendendo voti al sistema nazionale.

A questo riguardo vale la pena ricordare che una partecipazione del mondo contadino al voto, autentica per qualità politica, si ebbe soltanto nella fase iniziale della democrazia, allorché l’elettorato meridionale poté intervenire nello scontro tra il Partito Comunista e la Chiesa Cattolica. Non così in appresso. Nella fase della Ricostruzione e negli anni successivi, allorché il paese prese a ridisegnarsi intorno agli interessi emergenti nelle regioni avanzate del Centronord,  nel Sud il fatto politico non si ritrovò più in presa diretta con l’elettore meridionale, si ridusse alla mera ricerca di voti che pesassero nelle percentuali nazionali. Il Sud come bilanciere di destra per la sinistra. Questa marginalità sistemica venne attenuata dal clientelismo elettorale. I meccanismi della pubblica rappresentanza assegnano agli eletti e alla burocrazia il potere d’intervenire nella società economica attraverso la spesa pubblica. Il voto universale maschile e femminile  ha dato un incremento al voto di scambio che prima non esisteva. Privo di rappresentazione politica, partitica e parlamentare, il mondo contadino lo accettò come un’occasione di lucro e d’ascesa sociale.  In questa fase le frizioni fra le varie cosche e le varie famiglie raramente esplosero. Non fu infatti difficile per il personale politico ottenere dei vantaggi a basso prezzo. Alla fase della concorrenza tra famiglie mafiose,  di condizione benestante, abitanti in città e in qualche modo scolarizzate, ma sempre di cultura retrodatabile al mondo contadino – cioè di una cultura il cui codice civile e il cui codice penale  sono ancora quelli ereditati dal mondo contadino – si è pervenuti  con l’emergere del mafioso imprenditore di opere pubbliche.

Si è ancora nell’ambito economico della piccola produzione mercantile, e non in ambito capitalistico. In questa fase dell’infelice storia della Calabria anche la mafia inurbatasi è ancora improntata alla mentalità contadina, invidiosa e imitatrice della borghesia. I componenti arricchiti si atteggiano a borghesi e ne cercano l’amicizia, i figli a scuola frequentano  e imitano i loro coetanei urbani. L’esperienza suggerisce che una parte importante dei medici, degli avvocati, degli ingegneri meridionali oggi attivi viene da quell’imitazione. Il modus vivendi si prolungò fino alla successiva fase di prosperità mafiosa ruotante intorno al commercio delle ‘bionde’. E fu in tale fase che venne in evidenza anche all’esterno di esso un’articolazione esistente all’interno della mafia  tra boss e manovalanza. Ma l’imitazione borghese fu l’etica prevalente soltanto nei luoghi in cui il commercio era sviluppato. Nei borghi antichi della collina e della montagna, invece, l’accostamento dei mafiosi alla borghesia fu  ancora di carattere subalterno. L’attività edilizia vi aveva minore significato e il commercio delle bionde era consentaneo piuttosto a chi navigava su barche e paranze, per essere rifornito in alto  mare dalle navi che trasportavano i prodotti dell’industria americana del tabacco, che in luoghi in cui la montagna non fa da confine statale. Il più frequente avvicinamento del mafioso di campagna al clientelismo politico era sollecitato dalla ricerca di un posto di inserviente nella sanità, di bidello nelle scuole, di operaio del comune. I figli di questo comparto della mafia vanno a scuola e prendono la laurea, senza però rinnegare la morale contadina. Tuttavia, nel corso degli anni Sessanta la mafia calabrese sembrò fagocitata dalla morale borghese, ma la mafiosità campagnala era ancora viva, anche se defilata. La sua forte sopravvivenza si rappresentò con l’esplosione dei sequestri di persona e con il traffico delle droghe. A questo punto il danaro diventa capitale. “La mafia imprenditrice”. “Il capitalismo a mano armata”. Le mafia esaurisce la sua appartenenza alla classe contadina imitatrice della borghesia e diventa una casta esclusiva, privilegiata, una nemica dell’essere borghese. Il mafioso è ricco e si sente superiore. I suoi rampolli vanno ancora a scuola e vanno a ballare come tutti perché intanto il mondo è cambiato, ma non vogliono perdere i vantaggi che discendono dall’appartenenza alla casta mafiosa, anche se sono perfettamente consapevoli di rischiare d’essere ammazzati o di finire i loro giorni nella cella di un penitenziario. Ciò vale per i boss e solo in qualche modo anche per i sottoposti, fino alla manovalanza.

La casta mafiosa non è di tipo ereditario, o non lo è oltre la seconda generazione. Fra i mafiosi vigono le regole degli eserciti moderni e sono i meriti a determinare i gradi. I mafiosi di oggi  possono persino avere il lessico ereditato dai nonni, ma non sono più contadini. Sono espressione del mondo della produzione capitalistica che non ha confini. Sono presenti in tutti i continenti, spesso con organizzazioni persino più pericolose di quelle italiane.

Nicola Zitara

fonte eleaml.org

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