LE CINQUE GIORNATE DI MILANO FU VERA GLORIA? E DI CHI?
Luciano Salera ci ha inviato un articolo dal contenuto storico più unico che raro che sarà diviso in due parti, oggi pubblico il suo cappello introduttivo e domani l’articolo originale. Luciano nelle prossime settimane ci invierà altre stampe della stessa natura ma senza il suddetto cappello. buona lettura
LE CINQUE GIORNATE DI MILANO
FU VERA GLORIA?
E DI CHI?
Mille popolani mandati a morire per difendere gli interessi dei signor “padroni”
di
PAOLO DEOTTO
(presentazione a cura di Luciano Salera)
Paolo Deotto (Monza, 1949), giornalista brillante, preparato storico e saggista, vive e lavora a Milano. Si è occupato per diversi anni di attività di divulgazione storica, approfondendo in particolare la Storia del Novecento. Attualmente dirige il sito Riscossa Cristiana, che ha fondato nel settembre del 2009, insieme a Piero Vassallo e Alberto Rosselli. Riscossa Cristiana attualmente registra circa ventimila accessi al mese, con visite provenienti da oltre trenta Nazioni.
E dopo questa breve presentazione, faccio seguire, per chi già non la conoscesse, una sintetica riflessione di Paolo Deotto sull’argomento oggetto dello svolgimento del presente racconto.
Da parte mia è con piacere e malcelata soddisfazione -per essere riuscito a trovare l’articolo che mi interessava (e non è stata cosa facile … )- che mi accingo a darvi un brevissimo sunto dello stesso prima di dare inizio al, peraltro, quanto mai esteso racconto (scritto nel 1909 e pubblicato il 14 marzo dello stesso anno) dell’episodio che trova ampio spazio nei ricorrenti racconti fantastici sul cosiddetto Risorgimento italiano che legioni di pseudo storici (da me già definiti “stralunati e deliranti”) hanno letteralmente costruito, a loro uso e consumo ed a quello dei loro datori di lavoro nel corso di questi ultimi 170 anni (in Italia, … “io tengo famiglia”, è un modo per chiedere l’elemosina in voga da sempre).
Rimanendo al racconto che seguirà, pubblicato dal supplemento domenicale de “L’Emporio pittoresco” desidero anticiparvi che il materiale che mi accingo a passare, per la pubblicazione, al caro ed ottimo Claudio Saltarelli è quanto mai vasto e corredato, altresì, da un rilevante numero di stampe d’epoca che lo stesso Saltarelli valuterà se pubblicare o meno ed, eventualmente, quali scegliere per la pubblicazione, così come valuterà in quante “puntate” suddividere il racconto che, ripeto, pur se di estremo interesse è quanto mai lungo perché partendo dal principio che -almeno voglio credere- proprio nessuno ignori (ovvero che nel 1848 a Milano ci fu una rivoluzione contro gli austro-ungarici passata alla Storia come “Le cinque giornate di Milano”) è da questo fatto di cronaca che inizia la ricostruzione postuma da parte di Paolo Deotto.
Buona lettura a tutti.
Luciano Salera
I regolamenti dell’esercito austro-ungarico nel 1848 erano rigidi e non lasciavano spazio a raffinatezze che sarebbero venute molto tempo dopo: anche d’estate la divisa era abbastanza pesante, lo zaino era molto pesante, il fucile invece pure. Del resto, un soldato è un soldato, e deve saper sopportare ogni fatica, d’estate come d’inverno. Ma quella domenica 6 agosto 1848 ai soldati austriaci che entravano (o meglio, rientravano) in Milano fu almeno risparmiata la fatica di combattere. Nell’afa estiva si concludevano le Cinque Giornate, che erano durate un po’ di più, centotrentacinque giorni, e si concludevano in modo curioso, col popolino che acclamava le stesse truppe contro cui aveva combattuto pochi mesi prima e che inneggiava al Maresciallo Radetzky, che fino a qualche giorno prima era uno dei simboli della tirannide e dell’oppressione.
Popolino fellone? Forse, ma forse anche no. E come fanno cinque giornate a durare centotrentacinque giorni? Centotrentacinque, infatti, furono i giorni in cui Milano si governò liberamente, dopo che l’insurrezione delle “Cinque Giornate” aveva indotto alla ritirata le truppe di occupazione austro-ungariche. Ma in questo breve lasso di tempo accaddero molti eventi significativi che ci permettono di rispondere alla domanda: popolino fellone? Forse no.
Dai tempi dell’antico Egitto, quando i Faraoni, asserendo tout court di essere Dei e Figli di Dei, imponevano al popolo dai due ai quattro mesi di lavoro gratuito per costruire quei monumenti che tuttora ammiriamo (e che, al di là della loro magnificenza, non possono non essere classificati come esempi del più crudele sfruttamento), la Storia ci offre innumerevoli esempi di come il “popolo” sia chiamato sovente a far da protagonista a cause non sue, in cui la faziosità dell’informazione diviene la norma, ma in cui il risultato normale è che il popolo stesso paga il conto più alto. In questo senso non fanno eccezione gli avvenimenti passati alla storia come le “Cinque Giornate di Milano”. Il tributo di sangue più alto fu pagato dai popolani, che lasciarono sul terreno oltre mille morti, e questo ha permesso a tanta storiografia di parlare della rivolta di popolo contro l’occupante.
Ma le origini effettive di questa rivolta e le particolarità del momento storico divengono un po’ più chiare quando si esaminano le reali condizioni di vita nel Lombardo Veneto e quando si studiano i pasticci, le improvvisazioni, le divisioni, le ambiguità che caratterizzarono il comportamento della nuova classe dirigente lombarda nonché di quel Re Sabaudo che ci mise molto tempo per accorrere in aiuto degli insorti, ma ne impiegò molto meno quando si trattò di avviare una pace separata con Radetzky e ne impiegò pochissimo quando, resosi conto di essere stato raggirato dal vecchio volpone austriaco, scappò nottetempo da Milano, dopo aver promesso ai milanesi tutto il suo appoggio. Se dunque è fellone chi, dopo essere stato usato e ingannato, si ritrova con gli stessi problemi di prima, ma un po’ più complicati, e si rifugia allora in una lode dei vecchi padroni, ebbene possiamo dire che il popolino milanese fu fellone.
Le premesse. Sia ben chiaro che non vogliamo scrivere una Storia di buoni e cattivi, appunto perché scriviamo Storia e non fiabe; né vogliamo cedere alla facile tentazione di capovolgere semplicemente i ruoli dei buoni e dei cattivi assegnati dalla storiografia oleografica fin qui imperante. Siamo piuttosto convinti che sia necessario scrollarsi di dosso una retorica che ha inquinato tutto lo studio storico di quel periodo estremamente complesso che fu il XIX secolo e che ha impedito finora di leggere con lucidità e lealtà tutta la vicenda del Risorgimento.
L’imperatore asburgico non era certo un cherubino e aveva cura, come tutti i regnanti, di tutelare gli interessi della Casa. Ma è indubitabile che l’Impero Austro Ungarico aveva avviato sui suoi immensi territori dei processi di modernizzazione che, nascessero da particolare bontà d’animo o piuttosto da un po’ di lungimiranza politica, rappresentavano comunque un unicum in un’Europa che soprattutto si era preoccupata, dopo il terremoto napoleonico, di restaurare i diritti delle Case Regnanti. Per restare nell’ambito che ci interessa, nel Regno Lombardo Veneto, in cui l’autorità imperiale era rappresentata da un Viceré e da un Governatore, ricordiamo che lo scontro vero si stava attuando già da tempo tra nobiltà e grande possidenza da una parte, e Governo Centrale di Vienna dall’altra.
Non era uno scontro aperto, ma piuttosto un’avversione strisciante che andava consolidandosi da parte di coloro i quali (nobili e grandi proprietari terrieri) si erano in certo senso sentiti traditi da una politica viennese che, dopo la Restaurazione, non aveva potuto non tener conto delle modernizzazioni comunque portate dalle riforme napoleoniche. Se l’autorità centrale restava indiscutibilmente in mano all’Imperatore, il sistema di governo locale prevedeva una serie di organi rappresentativi che avevano alla base le assemblee dei Convocati formate da tutti i cittadini, purché iscritti nel registro delle tasse, che votavano in assemblea per l’elezione dei governi locali nei comuni piccoli e medi.
Sopra questo livello esistevano le Congregazioni che raccoglievano nobiltà e possidenza, le quali governavano i Comuni maggiori e partecipavano alle decisioni di guida dello Stato. La frizione fra questi due organi era inevitabile perché, mentre le assemblee dei Convocati rappresentavano una forma di democrazia diretta, capaci di raccogliere e dar voce anche agli interessi delle classi più umili (purché contribuenti all’erario), le Congregazioni mantenevano un atteggiamento estremamente conservatore e vedevano con ostilità (soprattutto nei centri a proprietà terriera più diffusa) il fatto che venisse data voce alla plebe, tradendo, secondo il loro punto di vista, il lavoro di riordino che si doveva fare in Europa dopo i pasticci causati dalla Rivoluzione Francese prima e dalle riforme napoleoniche poi. E infatti furono proprio le pressioni delle Congregazioni sul Governo Centrale che causarono il progressivo esautoramento delle assemblee dei Convocati; già nel 1835 i governi locali allargati
venivano ridotti ad organi consultivi. D’altra parte il Governo Imperiale non poteva non tener conto delle pressioni dei nobili e della possidenza (non solo proprietari terrieri, ma anche imprenditori, grossi commercianti ecc.), che detenendo buona parte della ricchezza, erano anche le maggiori fonti (almeno potenziali) di entrate fiscali. Ma proprio su questo aspetto nasceva poi un altro motivo di contrasto, forse il maggiore, perché nasceva dal più grande centro di sentimenti dell’uomo, ossia il portafoglio.
L’articolo di Deotto continua, ma noi, purtroppo e pur se a malincuore, dobbiamo fermarci a questo punto e torniamo, di corsa, al … 1909!