LE INTERPRETAZIONI DEL BRIGANTAGGIO di Ettore (da L’Alfiere n. 56)
C’è chi dice che se ne è scritto troppo. Chi vorrebbe archiviare la pratica una volta per sempre. Perché il brigantaggio è un argomento che scotta. Oggi più che mai. Noi crediamo invece che si tratti di un tema fondamentale per comprendere il passato, il presente e le linee di azione per il futuro del Sud. Per farlo, però, bisogna liberarsi dalle interpretazioni superate, tutte in varia misura condizionate dal punto di vista dei vincitori. A grandi linee, se ne possono individuare tre.
1- Brigantaggio come fenomeno esclusivamente criminale, provocato e tollerato dal malgoverno napoletano.
2- Rivolta sociale dei ceti subalterni contro la classe dei galantuomini
3- Rivolta anarcoide, del tutto priva di connotazioni politiche.
1- La prima tesi, che ha avuto un’ignobile appendice pseudo-scientifica nelle teorie razziste del piemontese Lombroso, è stata appoggiata, propagandata e sostanzialmente imposta dal governo sabaudo. È ormai completamente screditata, anche perché è scorretto e del tutto antiscientifico applicare categorie criminologiche a fenomeni di massa, come le sollevazioni popolari.
2- La tesi della rivolta sociale, che gli studiosi di matrice marxista preferiscono definire tout court lotta di classe, ha il merito di porre l’accento sulle profonde e radicate tensioni sociali che esistevano nel Regno del Sud e di riconoscere che nel decennio di sangue 1860-70 si verificò una vera e propria guerra civile. Questa impostazione nega che fra le vere motivazioni del brigantaggio vi fosse l’intento di restaurare la monarchia e sottolinea le ambiguità dei galantuomini, il cui unico obiettivo sarebbe stato quello di mantenere, attraverso il cambio di regime, l’ordine minacciato dai ceti “subalterni”. È una tesi traballante e lacunosa. Certamente, a differenza dei legittimisti in senso stretto, come Borges e gli altri stranieri, che intervengono nel Sud essenzialmente per la difesa di un principio e per contrastare una congiura internazionale liberal-massonica, i briganti prendono le armi innanzitutto per difendere la propria vita e il proprio mondo. Tuttavia non si può trascurare il dato, grande come una montagna, che le tensioni sociali del Sud alimentano una vera e propria insurrezione generale soltanto dopo l’ingresso nel Regno di eserciti stranieri che intendono abbattere la monarchia borbonica. La fedeltà del popolo delle Due Sicilie alla dinastia regnante dal 1734, del resto, è ammessa perfino dai più avveduti fra i risorgimentalisti, a cominciare da Benedetto Croce. Inoltre l’affermazione che la borghesia speculatrice appoggiò il sovvertimento politico allo scopo di conservare l’assetto sociale esistente trascura la macroscopica evidenza della lotta secolare condotta dai galantuomini per strappare la terra ai contadini e sabotare i progetti di riforma agraria varati dai sovrani borbonici; gli sforzi incessanti compiuti dai Borbone, con alterna fortuna, per sottrarre i contadini all’avidità dei possidenti, degli usurpatori di terreni, degli usurai, degli accaparratori di sementi e generi di prima necessità; la repentina distruzione o il rapido svuotamento, ad opera di garibaldini e sabaudi istigati dai collaborazionisti borghesi, delle istituzioni create dalla monarchia borbonica a tutela dei ceti meno abbienti (monti frumentari e pecuniari, sussidi per gli studenti bisognosi, ecc.). Ogni dinamica sociale si presenta, ovviamente, a macchia di leopardo, con eccezioni ed enclaves in ogni settore degli schieramenti in campo, che è importante conoscere, tuttavia è miope enfatizzare le eccezioni perdendo di vista la grande, costante contrapposizione fra Re e popolo, da una parte, e ceti parassitari dall’altra. Chi nega o minimizza questa evidenza ignora o finge di ignorare che la concezione tradizionale della società, a differenza di quella assolutista, non conosce l’idolatria per il Sovrano, né l’obbedienza incondizionata: il Re, al pari delle altre componenti della società, è tenuto al rispetto del patto di fedeltà che lo lega al popolo e alle istituzioni. Il popolo – termine che designa chi custodisce la tradizione e non vive sfruttando le sofferenze degli altri – lo riconosce come tale e lo difende nella misura in cui egli si mostra degno interprete della sua alta funzione. Nel 1860-70, appunto, il popolo ritenne che la dinastia borbonica fosse schierata dalla parte della comunità e del diritto delle genti contro l’invasore straniero appoggiato dalla borghesia affaristica; e insorse ancora una volta a sua difesa. Nonostante le tensioni determinatesi fra il legittimismo ufficiale, con la sua pretesa di trasformare il conflitto in guerra tradizionale senza disporre dei mezzi necessari, e le formazioni popolari, ben coscienti del fatto che l’unica tattica realisticamente praticabile era la guerriglia, il brigantaggio rimase un movimento lealista, che rivendicava, al pari dei soldati di Gaeta, di Civitella del Tronto o di Messina, la propria legittimazione nella fedeltà al sovrano. Lo confermano con evidenza i proclami e gli appelli rivolti alla popolazione dai capi della guerriglia. E non avrebbe potuto essere altrimenti, perché per il popolo la corona rappresentava, unitamente alla religione dei padri, che con acuta sensibilità comprendeva essere anch’essa nel mirino dei novatori, il simbolo forte e visibile, al cospetto del mondo intero, della giustezza della causa per la quale era pronto a morire. Né si può trascurare che le insorgenze nazionali nelle Due Sicilie avevano un’altra, grande motivazione ideale: la difesa della religione dei padri. Solo chi è incapace di comprendere l’importanza della dimensione religiosa nella vita delle popolazioni rurali non solo delle Due Sicilie, ma dell’intera Europa può sottovalutare il moto d’indignazione sollevato dalle manifestazioni di ateismo e blasfemia che diedero le truppe garibaldine, prima, e sabaude poi. Un generale piemontese, Pinelli, osa definire il Pontefice, in un pubblico proclama, “sacerdotal vampiro”, mostrando così, oltretutto, il più totale disprezzo per i sentimenti religiosi della popolazione; Garibaldi, in modo meno letterario e più scurrile, lo appellerà “metro cubo di letame”. Chiunque può comprendere che questi atteggiamenti, oltre a quelli tenuti quotidianamente dalle truppe di occupazione, contribuirono a convincere molti indecisi della necessità anche morale di reagire con le armi all’invasione. I nostri briganti, in definitiva, difesero la loro dignità di uomini e donne delle Due Sicilie, il loro diritto di vivere secondo la tradizione, sostanzialmente rifiutando proprio quella demonìa dell’homo oeconomicus con cui si vorrebbe forzatamente spiegare persino la loro orgogliosa sollevazione.
3- La tesi della rivolta di classe, sia per l’innegabile importanza dei suoi rilievi sulle aspre contrapposizioni sociali e sulle odiose ingiustizie perpetrate dai liberali di tutte le tendenze nei confronti dei ceti contadini, sia per l’evidente mancanza di conseguenzialità – se non di coraggio – nel riconoscere la motivata coesione fra popolo e monarchia borbonica, apre la strada a una più onesta interpretazione del brigantaggio. Quando la svolta chiarificatrice è ormai nell’aria, e alla storiografia più avveduta resta solo da compiere il passo ulteriore del riconoscimento del carattere nazionale e lealista, oltre che politico-sociale, dell’insurrezione, viene ripetutamente prospettata una teoria che costituisce oggettivamente un passo indietro rispetto alla stessa visione “classista” e una versione ammorbidita della visione “criminologica”: la teoria del brigantaggio come rivolta anarcoide, diretta contro il potere e chiunque lo eserciti. Questa impostazione incappa nelle stesse, gravi obiezioni che si possono opporre a quella precedente, ma fa di peggio: ignora bellamente le tensioni sociali che costantemente agitavano le campagne meridionali e che vedevano il Re, attraverso la legislazione e l’opera di controllo svolta dagli Intendenti, schierato dalla parte dei contadini contro i soprusi dei latifondisti e degli speculatori. Si tratta, in sostanza, di una versione emendata della teoria criminologica, sintetizzabile così: i briganti erano delinquenti, ma, per aver vissuto nell’abbrutimento determinato dalla miseria, dalle angherie subite e dalla superstizione (perché il popolo non può avere fede, ma solo superstizione), avevano qualche attenuante, se non l’esimente dell’ “incapacità di intendere e di volere”. Si giunge a narrare il brigantaggio per episodi, riproponendo in prosa le ballate dei cantastorie di fine ’800, col risultato di confinare i combattenti del Sud nella regione del picaresco, del selvatico, in sostanza del sub-umano. Dall’altro versante, i portabandiera di questa impostazione prendono la teoria della lotta di classe, la immergono nell’acido della maldicenza, del pulp, del pettegolezzo, a volte del voyeurismo pruriginoso, e la lasciano macerare fino a ridurla alla rappresentazione, fintamente bonaria, di un mondo antiquato e in decomposizione, la cui eliminazione è stata una “dolorosa necessità”. Questa è la conclusione invitabile del discorso e anche, in fin dei conti, la ragion d’essere di questa teoria, che si inserisce a pieno titolo, consapevolmente o no, in quella “strategia della confusione” che è l’ultima ancora di salvezza per una storiografia funzionale agli interessi del potere costituito, sorpassata e ormai “alle corde”. È opportuno a questo punto menzionare anche un’altra corrente di pensiero, tornata in auge nell’imminenza del centocinquantenario, che non rientra specificamente fra le interpretazioni del brigantaggio, ma che, di fronte all’innegabilità dei crimini perpetrati ai danni delle Due Sicilie e all’imponenza della reazione popolare all’invasione e all’occupazione piemontese, nel tentativo di spiegare il “lato sporco del Risorgimento”, mira a differenziare la posizione dei mazziniani e di Garibaldi da quella dei monarchici sabaudi, volendo far intendere che se avesse prevalso la corrente repubblicana l’unificazione sarebbe stata realizzata in modo più conforme ai principi della democrazia, della giustizia sociale e della solidarietà. Questa teoria strumentale e infondata sviluppa le sue fantasiose ramificazioni servendosi della negazione o dell’occultamento di dati di fatto colossali: basti pensare al massacro di Bronte, eseguito da Bixio su ordine di Garibaldi per compiacere i suoi sponsors britannici; alla fulminea abolizione dell’Amministrazione borbonica delle Bonifiche, disposta dal Nizzardo per rassicurare i latifondisti che temevano di dover lasciare ai contadini una parte delle terre risanate, con uno sciagurato decreto che fu il punto d’avvio dell’affossamento dell’agricoltura meridionale; all’accoglimento da parte del Dittatore del suggerimento, che proveniva dalle province, di tutelare gli usurpatori delle terre demaniali, “per non disgustare la classe de’ proprietari, che sono pur la forza delle Nazioni, e che sono stati i sostegni veri e precipui del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose”. È agevole obiettare che la congiura liberal-massonica all’origine dell’aggressione garibaldino-sabauda non avrebbe potuto avere esiti sostanzialmente diversi, perché in ogni caso l’assetto istituzionale avrebbe dovuto garantire gli interessi delle potenze straniere finanziatrici e ispiratrici e quelli della borghesia parassitaria collaborazionista. Di fronte a questo blocco potentissimo di interessi, Garibaldi, che non a caso agiva all’ombra di un tricolore con lo stemma sabaudo, non avrebbe potuto, gli piacesse o no, che rispondere, rimangiandosi le demagogiche promesse dell’esordio, “obbedisco”. La piemontesizzazione dell’Italia si consolidò grazie a un tacito accordo: i liberali locali non disturbano il manovratore, i piemontesi lasciano ai locali la libertà di arricchirsi alle spalle del popolo, in barba alle leggi e in attesa di abolirle. Ne era ben consapevole Mazzini, che ipocritamente rinviava al consolidamento del cambio di regime la soluzione della “questione sociale” Il dibattito sul brigantaggio è, dunque, esposto a una serie di insidie, perché condizionato da un conflitto di interessi che non accenna ad affievolirsi. Per alcuni la parola d’ordine è ancora quella di negare ai guerriglieri meridionali lo status e la dignità di combattenti. Già nel 1862, di fronte ai risultati della Commissione parlamentare presieduta da Antonio Mosca, che descrivevano gli episodi di inaudita ferocia di cui si erano resi responsabili i comandi militari impegnati nella repressione del Brigantaggio e gli arbitrii dei galantuomini contro i diritti e le legittime aspettative di vita dei contadini e dei braccianti, il governo corse ai ripari proibendo la pubblicazione della relazione conclusiva e disponendo la redazione di un nuovo rapporto, affidato alla commissione presieduta da Giuseppe Massari: questa volta si doveva affermare che le sofferenze dei ceti popolari non erano dovute all’egoismo e alle prepotenze dei galantuomini, ma al malgoverno borbonico e all’ignoranza, al fanatismo e alla superstizione religiosa che predominano nelle campagne meridionali (Tommaso Pedio). Oggi che tanti passi sono stati fatti verso una ricostruzione storica più veritiera, nonostante l’ostruzionismo di quelli che parafrasando Pansa si possono definire i gendarmi della verità negata, bisogna constatare che per qualcuno le veline di Ricasoli sono sempre in vigore. Magari sono proprio quelli che accusano la storiografia revisionista di eccessiva emotività e di partigianeria. Accuse che si ritorcono contro chi le formula. Noi crediamo che nella fase dell’analisi bisogna essere spietatamente rigorosi e obbiettivi. Anche se si tratta di eventi che hanno lasciato cicatrici profonde e ancora sanguinanti la passione non deve mai accecare od offuscare la visione dei fatti. Tuttavia questo scopo non è realizzabile se non si rifiuta decisamente la prospettiva forzata nella quale i vincitori hanno voluto costringere l’interpretazione storiografica; se non si abbandonano le false premesse di chi osa raffigurare come custodi della legalità coloro che hanno appena perpetrato una gravissima violazione del diritto internazionale, invadendo proditoriamente, con l’inganno, la corruzione e lo sterminio, uno stato pacifico e indipendente da sette secoli. Riconoscere l’ipocrisia dei risorgimentalisti più o meno “mascherati” è molto semplice: essi, trascurando il dato macroscopico che il popolo insorgeva in nome di una legalità – non formalistica, ma sostanziale – che avvertiva violata sotto il duplice profilo della violenta compressione dei diritti popolari (in primis quello di accesso alle risorse della terra, sentita come patrimonio della comunità) e del proditorio spodestamento del legittimo sovrano, di cui la gente riconosceva l’autorità e nei cui confronti (in virtù di quell’ammirevole antisnobismo che per i galantuomini di ieri e di oggi rappresenta la più imperdonabile delle colpe) percepiva in qualche modo una comunanza di sentimenti, vedono nei guerriglieri antipiemontesi dei fastidiosi ostacoli al consolidamento dell’ordine sabaudo e liberale. Si spiega così il ricorso spesso acritico alla documentazione che gli stessi invasori hanno predisposto perché funzionale ad avallare la loro versione: a cominciare dalle verbalizzazioni delle versioni di comodo rese, sotto costrizione, da esseri umani tenuti in crudele cattività; oltre tutto, ad opera di carcerieri che nutrivano per il loro mondo, di cui poco o punto sapevano, null’altro che un rabbioso disprezzo. Si spiega così, inoltre, l’incredibile e antiscientifico ricorso da parte di alcuni, a una terminologia criminologica che dà per scontato – senza dirlo esplicitamente – che la legalità stava dalla parte degli invasori e che gli insorgenti rappresentavano un’intollerabile perturbamento dell’ordine, da stroncare con ogni mezzo. Costoro non parlano di solidarietà delle popolazioni con i combattenti, ma di complicità. Chi aiuta gli insorgenti non è un collaboratore, ma un fiancheggiatore o, ancora meglio, un manutengolo (termine che adorano). Chi si dà alla macchia per liberare il territorio dagli invasori lo infesta o vi imperversa; le formazioni guerrigliere sono masnade e i suoi componenti banditi. Tutti termini che ogni osservatore obiettivo – e ve ne furono fin dall’epoca dei fatti – riconosce essere molto più appropriati se riferiti agli invasori del Sud e ai rapinatori delle sue ricchezze. Quanto al popolo, lo si designa quasi sempre in modo dispregiativo: si parla di plebe, di contadiname, addirittura di popolaccio. Terminologica poco scientifica, ma certo rivelatrice dei sentimenti di chi scrive. La donna combattente, poi, non è mai considerata capace di un’autonoma determinazione, ma è sempre vista come la femmina del brigante, anzi la druda, termine desueto, che alcuni incredibilmente, ma non troppo, si compiacciono ancora oggi di usare, con l’oggettivo risultato di suggerire che le guerrigliere meridionali fossero animalesche donnacce di nessuna moralità. Quando non si tratta di strumentali bassezze, sono quanto meno ironie di basso conio, che con la storia non hanno nulla a che vedere e che oltrettutto sono del tutto fuori luogo a fronte della catastrofe che colpisce tuttora il nostro popolo. Esse formano la malriuscita caricatura di un’obbiettività che non c’è. È vero che l’analisi dai fatti non dev’essere influenzata dalle passioni, tuttavia una volta acquisita la conoscenza di un evento, non è possibile, per chi ha sangue nelle vene, non prendere posizione, schierandosi dalla parte della giustizia contro la prepotenza. Noi lo facciamo e ne siamo fieri. Noi crediamo che i protagonisti dell’epico e disperato conflitto per l’indipendenza delle Due Sicilie meritino riconoscenza, per chi ne è capace, e comunque, da tutti, rispetto. Per noi che amiamo la nostra patria, i briganti, “santi” o “demoni” che fossero, incarnano l’orgoglio e la dignità di un popolo che non piega la testa di fronte alla prepotenza degli aggressori. Per questo non li dimentichiamo e vorremmo sempre ritrovare nei meridionali di oggi la loro fierezza e la loro determinazione.