Le Prefiche o “Chiagnazzare” o “Chiangimuerti” o “Ciangiulìni”
Il culto dei morti è da sempre elemento principale di tutte le culture sacre popolari ed è presente in molti aspetti folkloristici attuali. Come il giorno della commemorazione dei defunti che ha costituito, in ogni civiltà, un business redditizio. Ma in particolare, vogliamo ricordare un antico mestiere, legato a questo ambito economico, ormai scomparso. Intorno all’VIII sec. a.C. I Greci, abili navigatori quali erano, cominciarono a spingersi oltre la terra d’ origine.
Durante i tanti viaggi nel Mediterraneo colonizzarono il sud italia perché lo trovarono amabile e accogliente, una terra che dava loro ciò di cui avevano bisogno: clima mite, terra fertile, acqua da bere e soprattutto ottima posizione per i commerci e per il desiderio di egemonia. I Greci che vi si stabilirono commerciavano con la madre Grecia e con questa attività, si sa, passano le idee e gli usi e costumi che sono giunti fino ai nostri giorni. Il culto dei morti è sempre stato molto sentito nel Sud Italia. La parola chiave era PATHOS la forte drammaticità nell’espressione del dolore: sopracciglia folte, unite e aggrottate contornavano un viso senza un accenno di trucco e poco curato per la presenza di una peluria evidente sul labbro superiore, i capelli raccolti col “tuppo” alla nuca, tutta la testa coperta da un fazzoletto di tessuto nero stretto sotto al mento. La donna non portava pantaloni. In primis la moglie del defunto piangeva e gridava fino a strapparsi i capelli, seguita da una scia di parenti donne e amiche e prefiche pagate che sostenevano il “coro” durante la veglia funebre. Non era una vera e propria preghiera, ma più una litania di lamento, ripetuto all’infinito a cui si univa un movimento ondulatorio del corpo. La marcia funebre che aveva luogo dalla casa alla chiesa a seguito del defunto avveniva sempre in pompa magna, con urla, pianti e svenimenti, tanto che la vedova veniva sempre scortata da parenti donne o uomini che dovevano sostenerla fisicamente nei momenti di mancamento.
Arte che affonda le sue radici nel tempo lontano o forte dolore per la perdita che veniva esorcizzata attraverso pianti e lagne?
Tutti i partecipanti al funerale, andavano vestiti rigorosamente di nero, il lutto, che per la persona piu stretta al defunto doveva durare almeno 18 mesi, dopo tale periodo si poteva utilizzare un bottone rotondo rivestito di tessuto nero da apporre all’abito o alla giacca in bella vista, affinché tutti sapessero della condizione di vedovanza. Stiamo parlando della lamentazione funebre, uno tra i più significativi riti del cordoglio, le cui tracce si perdono nel tempo. Per fare un viaggio degno verso la scoperta dei sacri “lynos”, bisogna partire inevitabilmente dalla Basilicata, forse la regione che più di tutte ha conservato il ricordo di tali primitivi cerimoniali. Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato Il lamento funebre lucano e in particolare la “lamentazione professionale” è una pratica estinta, un mestiere scomparso che andrebbe recuperato. Sul finire del Novecento s’era praticamente già dissolto e di esso non rimaneva che il vago racconto delle anziane riletto in chiave di malcostume e/o vergogna. Ed è proprio nei paesi più interni della Basilicata ove isolamento e arretratezza fanno ancora avvertire al contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali che il perdurare di questi antichissimi ricordi è stato possibile. Ma oggi, che la disperazione è tornata di gran moda, il mestiere della prefica potrebbe avere un futuro? Pare di sì. Visto che la lamentazione funebre potrebbe presto passare da rituale legato al mondo agreste a materia d’insegnamento nei master di “tecnica del pianto”. Tale pratica, in realtà, è un testo drammaturgico improvvisato in cui si sa già cosa dire, secondo skills facilmente acquisibili. Un aspetto da non trascurare, poi, è quello relativo alla mimica del cordoglio, al non verbale, all’oscillazione corporea che segue perfettamente il ritmo, come in moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi «ipnogena» – come nota argutamente il De Martino – molto simile anche a quella delle lamentatrici mediorientali. Le prefiche le ritroviamo nel leccese ove sono chiamate “repite” e nell’area abruzzese-molisana. Interessante come viene descritta dal De Gubernatis tale usanza, tra le indomite donne sarde: «Costoro, in sul primo entrare e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo strido, battono palma a palma e gittano le mani dietro le spalle. Inverochè altre si strappano i capelli, squarciano cò denti le bianche pezzuole che in mano ha ciascuna, si graffiano e sterminano le guance, si provocano ad urli, a singhiozzi, stramazzan in terra e…». De Martino racconta che nel corteo funebre era d’uso per le donne, una volta disciolte le chiome, accostarsi al morto percuotendosi il petto con violenza e abbandonandosi in un primo tempo a disordinate grida di dolore. Il termine francese che indica il lutto – “deuil” – sembrerebbe mettere bene in evidenza questo aspetto poiché viene dal latino “dolium” che corrisponde a “dolere”. Rituali che sono l’atavico ricordo di antiche usanze: si pensi che nell’Alceste di Euripide il Dio della morte è descritto mentre brandisce una spada nell’atto di tagliare una ciocca di capelli al morto. Non fa una piega. Nel napoletano, poi, era in voga una lamentazione accompagnata da un malmenarsi rituale che terminava con le prefiche che urlavano alla vedova: «ah, misera te!», strappandole ciocche di capelli che poi avrebbero gettato sul defunto. E’ da quest’usanza che deriverebbe una celeberrima hit fanciullesco-popolare: “Maramao, perché sei morto?”. Alla fine il senso di tutte queste manifestazioni estreme è che il dolore per il defunto c’entra fino a un certo punto: trattasi di riti apotropaici di allontanamento della morte, tecniche indirizzate a impedire il ritorno del defunto. Come testimoniato da altre usanze come quella di bruciare i vestiti del trapassato o l’apertura delle finestre dopo il decesso, fino alla strofa che chiude un antico lamento funebre, sagacemente raccolta dall’indefesso De Martino: «Non ho più niente da dirti/ non ho più niente da farti/ statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto…». “Compito delle prefiche””, scrisse il Chiriatti, “”era quello di toccare le corde dell’anima””. E per raggiungere il più alto grado di drammaticità e, di conseguenza, creare una situazione verosimile, venivano educate sin dalla tenera età ad esternare la propria afflizione verso i tramonti della vita.
In lacrime, distrutta dal dolore, persa nella propria disperazione, spesso la si poteva incontrare a più di un corteo funebre al giorno, con la stessa maschera di tragedia dipinta sul volto. Era la “Scapillata”,una figura essenziale, durante un funerale, che il popolo napoletano fece diventare un vero business. In pratica, quando una persona cara veniva a mancare, se non vantava grosse conoscenze o larghi giri di parentele, la famiglia, per non far sfigurare il caro estinto nei confronti di chi andava a dare l’estremo saluto, affittava delle comparse, che al capezzale della salma e al corteo funebre, mostravano tutto il dolore e la disperazione per la perdita. Per chi abita a Napoli, sarà sicuramente capitato che quando per un capriccio si iniziava a piangere, la nonna subito iniziava a dire “M’ par’ proprio ‘a chiagnazzar’!”, indicando le nostre lacrime e i nostri atteggiamenti una reale farsa. Ovviamente, “‘A chiagnazzar’” era la volgarizzazione dialettale della scapillata! La bravura di queste donne era talmente alta, da sembrare che il loro dolore fosse reale, talmente erano profonde e struggenti le loro urla e lacrime. ‘A Scapillata, come le antenate magno greche, portavano i capelli sciolti e le vesti neri, cantavano litanie e nenie funebri, ovviamente gli occhi gonfi di lacrime per lo sconosciuto defunto. Con il passare degli anni anche questo antico mestiere è svanito, ma può ancora capitare, nei giorni nostri, durante un corteo funebre, che si verifichino situazioni altrettanto “estreme”.
L’uso di persone che piangono i morti era praticato ancora in tempi recenti nell’Italia meridionale e si è conservata almeno fino agli anni ’50 ad esempio nei paesi della Grecìa salentina dove esistevano le “chiangimuerti” o “rèpute” e dove si sono tramandate delle famose nenie di origine greca (locuzione latina naenia, la triste lamentazione di monotona espressione iterata da parenti e prefiche negli accompagnamenti funebri o innanzi al sepolcro, al suono cupo della tibia, strumento musicale doppio a fiato in osso; queste donne entravano nella casa del defunto e iniziavano a gridare disperatamente. Subito dopo iniziavano a cantare le lunghe cantiche, in cui non si disdegnava il richiamo ad antiche figure mitologiche greche, tra le quali spiccano Caronte e Tanato; le prefiche grike provenivano soprattutto da Martano. A Calimera si ricorda la figura di Lucia Martanì (proveniente da Martano), donna martanese residente a Calimera. Le ultime rèpute di cui si abbia conoscenza furono Cesaria e Assunta de Matteis, anche loro di Martano, i cui lamenti furono raccolti da Luigi Chiriatti. Il documentario “Stendalì – Suonano ancora” diretto da Cecilia Mangini, con il soggetto di Pier Paolo Pasolini riprende uno degli ultimi riti di canto funebre. Segnalazioni della sopravvivenza di tale uso si hanno in tempi ancora più recenti in Calabria, dove fino agli anni ’80, in alcuni paesi di montagna dell’entroterra vibonese e del cosentino, era possibile assistere a tali strazianti scene, ed in Basilicata, in Sardegna, specialmente in alcune zone dell’interno, le donne erano dedite al cosiddetto rito chiamato “atìtu” o “atìtidu” in lingua sarda. Si piangeva il defunto tessendone le lodi, esaltando la disperazione per la perdita, senza peraltro esserne richiesti dai congiunti del defunto, solo per una semplice forma di partecipazione collettiva al lutto. Le “atitadoras” (termine che designa prefiche in lingua sarda) potevano alle volte ricevere un compenso. Tutte vestite di nero a struggersi in lacrime ai piedi di una bara, strappandosi i capelli e gridando preghiere e lodi al defunto, strappandosi i capelli e graffiandosi la faccia, non è mai stata espressione di sincera disperazione, bensì di un vero e proprio mestiere. In Basilicata, una terra che ha conosciuto nella sua lunga storia la fame più nera, fino a pochi anni fa, si sono vendute anche le lacrime e lo strazio. Donne che avevano il compito di rendere tragico ciò che già lo era di per sé, la veglia al defunto. “Piangere il morto”, in maniera gestuale più viva, era di fondamentale importanza, al punto che esisteva un vero e proprio mercato e, chi voleva celebrare il funerale in forma più maestosa e appariscente, si impegnava ad ingaggiare le prefiche più “quotate” e, in questo mercato speciale, c’era una diversità di prezzo: le più capaci, erano anche le più costose. Vere professioniste del lutto, queste donne incarnavano nel proprio struggimento una paura della morte che i lucani di un tempo combattevano con un “rispetto reverenziale”. «Io non piango per qualcuno che muore, non l’ho fatto manco per un genitore che morendo mi ha insegnato a pensare. No, non lo faccio per un altro che muore». A volte, però, non si possono comandare le lacrime quando queste sono considerate utili. A cosa? Ad allontanare la morte dalla comunità. Le prefiche erano solo una parte, seppur importante, di un rito funebre che andava ben al di là della funzione religiosa. Rompere i piatti per terra e tirare un secchio d’acqua non appena il feretro avesse varcato la soglia di casa erano modi per allontanare gli “spiriti” e la sfortuna. Dopo le prefiche, ogni parente, a turno, era tenuto a mostrare il proprio pianto davanti la bara. Perché il morto “si deve piangere”, anche dopo il funerale. Per mesi gli uomini dovevano lasciarsi crescere la barba e le donne indossare vestiti che fossero neri. L’esteriorizzazione del lutto, serviva a ricordare a tutti che “polvere siamo e polvere ritorneremo” e che a morire ci voleva davvero poco. Erano i tempi delle grandi epidemie, il divario tra queste e il progresso medico-scientifico era ancora troppo grande. Non restava che pregare. Le superstizioni, allora, rappresentavano l’unico modo per interpretare gli eventi, soprattutto quelli tragici. I decessi improvvisi come quelli da ictus, infarto, oppure la famigerata SIDS (sindrome della morte improvvisa del lattante), di cui solo recentemente si sono scoperte le cause, erano inspiegabili in un mondo ancora così legato ad antiche tradizioni e credenze pagane. All’epoca si trattava semplicemente di sfortuna, di cattiva sorte. Ricordarsi della propria fragilità terrena era l’unico modo per rendere onore al fatidico giorno e sperare che questo arrivasse il più tardi possibile. I lucani, come il resto degli uomini, non sono diventati immortali, ma le prefiche e il loro mondo non ci sono più. Il progresso tecnologico e culturale ha soppiantato alcune credenze. Oggi, se succede qualcosa è per una causa, non per uno spirito maligno e le cause si indagano scientificamente, non si esorcizzano. In un modo globalizzato i grandi stilisti decidono qual è “l’abito adatto ad ogni occasione”. Nonostante tutto, tenere a mente che i giorni dell’uomo non sono infiniti, può aiutare a vivere meglio. «Ricordare che morirò presto – ha detto Steve Jobs- è lo strumento migliore che ho trovato per aiutarmi a prendere le grandi decisioni nella vita. Perché quasi tutto, le aspettative esterne, l’orgoglio, la paura, il ridicolo o il fallimento, tutto questo svanisce di fronte alla morte, lasciando solo ciò che è veramente importante. Ricordare che morirai presto è la miglior maniera che conosco per evitare l’errore di pensare che hai qualcosa da perdere». Pare che a Putignano, vi fosse anche l’usanza di far seguire i funerali di persone facoltose da parte di orfanelli è cessata soltanto nel 1969 per l’intervento del Pretore di quel mandamento.
“E chi la immaginava una notizia simile, chillo ‘o cumpare steve bbuono!” . Ora provate ad immaginare questa stessa frase, detta con un certo tono di lamento e dolore che fa da sottofondo. Non è uno scherzo, o la scena di un film, bensì il lavoro di professioniste che con quelle frasi portavano soldi a casa. Queste erano definite ‘‘e scapillate’, si affittavano come comparse che al capezzale della salma e successivamente al corteo funebre, mostravano dolore e disperazioneper la perdita della persona in questione. La particolarità di queste donne rientrava nella capacità di riuscire a mostrare un dolore talmente profondo e struggente da apparire quasi reale agli occhi di quanti presenziavano al corteo funebre.
La questione sopracitata è stata oggetto di studio di un celebre antropologo, filosofo e storico delle religioni napoletano: Ernesto De Martino (1908-1965), padre della Storia delle Religioni di ambito napoletano e non solo. De Martino, a capo di una squadra eterogenea di studiosi, ha ben deciso che il campo d’indagine dell’Antropologia e della Storia delle Religioni non doveva più essere necessariamente ricercato tra le popolazioni indigene più lontane: il “culturalmente altro” è, in realtà, proprio qui, in mezzo a noi. Gli studi di Ernesto De Martino, come suggerisce già il titolo del suo capolavoro “Sud e Magia”, adottano come campo d’indagine il meridione d’Italia, quasi quello che in passato è stato il Regno delle Due Sicilie. Un altro tema famosissimo dello storico delle religioni napoletano è stato il cosiddetto “tarantismo” o “tarantolismo”, tema affrontato in un’altra grande monografia, “La Terra del Rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud”.
È in “Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria” (1958) che, però, De Martino parla del fenomeno del pianto ritualeattraverso studi condotti col suo team in Lucania. La crisi spirituale-psicologicavissuta dall’individuo in seguito alla perdita di un caro è, dunque, elemento costitutivo della natura umana e si declina nella cosiddetta “crisi del cordoglio”. https://youtu.be/sA9nNrfqog0
Due sono le forme della crisi del cordoglio: -Ebetudine stuporosa o, in alcune parlate meridionali, “attassamento”: senso di stupore paralizzante che, alla notizia della morte di un caro, impedisce di rispondere agli stimoli esterni come se ci si trovasse al di fuori della realtà e che, spesso, impedisce anche di piangere; – Planctus irrelativo o esplosione parossistica: volontà autolesionistica di colui che ha ricevuto la notizia della scomparsa di una persona cara di assumere la medesima condizione del defunto. Ciò consiste nel procurarsi del vero e proprio dolore fisico (strapparsi i capelli, battersi il petto, strapparsi le vesti ecc…) ed è spesso accompagnato da un forte pianto che sembra non poter finire mai. Queste due possibili reazioni alla scomparsa di una persona cara possono placarsi soltanto attraverso il cosiddetto “planctus rituale”(“pianto rituale”), una sorta di “addomesticamento” delle emozioni immediate: il planctus rituale, infatti, sblocca l’ebetudine stuporosa ed evita gli eccessi del planctus irrelativo incanalando il dolore in una propria forma organizzata. È a questo punto della questione che entrano in gioco le nostre “chiagnazzare”, le professioniste del lamento funebreingaggiate per piangere durante i funerali “guidando” il lamento di tutti gli altri. Una sopravvivenzache, in Italia, è esclusiva del mondo meridionale, si tratta di un’abitudine di estrazione magno-greca. Tale sopravvivenza, è staccata dal pensiero cristiano egemonicoproprio perché abitudine ben precedente proveniente dalla madrepatria greca. L’uso delle lamentatrici professioniste, delle “chiagnazzare”, infatti, è immagine ben presente nella religione greca antica. Ritroviamo queste figure professionali, infatti, già nei poemi omerici durante i funerali di vari eroi. Qui le prefiche compaiono, a chiome sciolte, alla testa delle processioni funebri subito seguite da moglie, madre e sorelle dell’eroico defunto. Proprio così, anche nella realtà del Meridione d’Italia, la prefica guidava il corteo con il suo lamento per portare la variamente vissuta crisi del cordoglio allo stato di planctus rituale. Così come emerso in numerosi studi storico-antropologici del secolo scorso, anche stavolta è la pratica del “rito” a riportare ordinenelle cose. Ernesto De Martino, con i suoi studi, è riuscito a dimostrare al mondo dell’Antropologia e della Storia delle Religioni che il Meridione d’Italia è stato (e ancora è) palcoscenico di interessantissime sopravvivenze culturali che affondano le radici nei più profondi meandri della nostra storia. Ebbene, quindi bisogna partire dal Sud e scoprire il Sud è il primo passo per scoprire il mondo.
Anche a PIZZO CALABRO (VV), un tempo c’erano le “prefiche”, dette “ciangiulìni” le quali, a pagamento, scioglievano i lunghi capelli e piangevano alternando le lodi dell’estinto con singhiozzi e grida. Esse si trovavano soprattutto a Pizzo, tanto che ancora oggi il popolo dice: “Ngi volarènu deci pizzitani a pagamendu mu ti ciàngiunu”. Arte che i pizzitani ereditarono, ma che già era in uso sin dai tempi remoti presso i seguenti popoli della fascia mediterranea: Egiziani, Greci, Spagnoli, Israeliani, Albanesi, Siriani, Fenici, Palestinesi, Corsi, Campani, Lucani e Calabri. A seconda, infatti, dei luoghi, le donne, chiamate a cantare la bara e l’elogio del morto, venivano indicate con vari nomi: Repitatrici, Computatrici, Voceratrici. Vari sono anche i nomi con i quali vengono indicati i canti: Rèpitu, Tribolo, Naccarato, Titio. Le prefiche prezzolate parlavano in nome dei parenti intimi e rievocavano i fatti più salienti o più commoventi della vita del defunto. ”‘I ciangiulini” venivano ricompensate con doni o con denaro. I canti venivano generalmente eseguiti nelle case dei popolani, dove l’estinto aveva lasciato un gran vuoto in seno alla famiglia; meno frequenti erano invece nelle case di personaggi illustri. A volte il ruolo di prefica veniva assunto direttamente dalla vedova, dalla figlia, dalla madre, o da un’altra persona intima del defunto, o una donna del luogo adusa a queste prestazioni. Le prefiche si preparavano alle loro funzioni sciogliendosi i capelli sulle spalle e sul petto con gesti mimici e gridando ad alta voce, prima si “forijavanu” (gesta di disperazione) da sembrare invasate a guisa delle baccanti (sacerdotesse invasate e agitate da Dionisio), poi tessevano, potremmo dire, l’elogio funebre tra canto, lamenti ed alte grida di disperazione. Citiamo alcune frasi che spesso le donne di Pizzo intercalavano tra un lamento, un pianto, un singhiozzo: “Volasti comu ‘n’‘acèjù “, “ti ndi jìsti ‘a ‘na volàta”, “si sbacandàu ‘na casa”. Nel “rèpitu” la vedova così si rivolgeva al marito: “Cumandandi”, “Principi”, “Culonna”, “Cosa ‘randi”, “Cumbagnu mio, tu ti scordasti di tutti!” E la figlia “Patrima; comu fu ca mi dassasti a ‘na vota?”. E la madre: “Fìgghjuma, rispundi a mammata ‘n’atra vota sula!”
Spesso questi canti sfociavano in manifestazioni isteriche; le donne si gettavano a terra e si graffiavano il viso fino a farlo sanguinare; usanze di Pizzo ad imitazione delle tragedie greche o dei personaggi di Omero. A Pizzo la funzione delle prefiche seguiva e segue ancora l’iter antico dei funerali: accompagnare il morto fino all’ultima dimora. Le donne del nostro paese quasi come Andromaca che pianse a dirotto ed in modo inconsolabile la morte del caro e mitico Ettore, piangevano allo stesso modo la morte del loro congiunto, per esse padrone della casa e dei beni, eroe della vita e del lavoro. La moglie, rispetto a lui, era in condizione d’inferiorità e di dipendenza. Per non parlare delle tragedie sul mare; infatti a Pizzo toccavano l’apice della disperazione; in tal caso, le urla delle donne sembravano squarciare il cielo, come se volessero scuotere le stesse onde, aprire il petto per infilarsi nelle pieghe più recondite dell’animo e li impietrirsi per anni e anni. Un esempio dell’identità intrinseca e formale ditali funebri cantilene è dato dal riscontro di un frammento raccolto dal Conte Vito Capialbi nel 1847 in Pizzo che dice: “Dundi vinni ‘stu nùvulu? Vinni l’autu mari: trasiu di la finestra e ruppìu lu spicchjàli” ! I canti delle prefiche non seguono nessuna rima, ma sono di particolare interesse per la bellezza e vigorosità delle immagini, per la profondità dei sentimenti e per le espressioni di crudo realismo istantaneo. Le vedove per distinguersi portavano le trecce sulla testa e, anche dopo due, tre anni dalla morte del caro estinto, per far vedere che in quella casa c’era lutto, durante lo svolgimento di qualsiasi processione religiosa, si tiravano i capelli. Quello che i canti funebri, sia in Calabria come in Sicilia, hanno in comune, è l’assoluta mancanza di sentimento religioso. Perchè questa mancanza di religione? Il popolo crede fermamente che la morte è voluta da Dio, quindi, in quei momenti dolorosi, il cuore e la parola corrono piuttosto alla imprecazione che alla preghiera. “Le prefiche dunque ebbero a sostenere colla chiesa la stessa lotta che i mimi, ma, come questi, riuscirono a penetrare nei misteri e li trasformarono in commedia, e, spesso in farse, così le “repitatrici” resistettero e vinsero; e se di poi mancarono, ciò non avvenne per guerre loro mosse, ma pel cangiare dei costumi”. Ne riuscì a ridurle al silenzio il grande e terribile Innocenzo III che, sottomessa all’autorità papale tutta l’Europa scomunicando l’incipiente libertà inglese, non riuscì a sottomettere le prefiche ai decreti dei concilii. Nè più fortunate delle ecclesiastiche furono le podestà civili. Re Federico III minacciò di frusta le donne che seguissero il feretro urlando e strepitando; ebbene, quando egli morì, lo piansero e lo accompagnarono al sepolcro le repitatrici più note! In modo molto clamoroso piangevano anni fa le repitatrici di Pizzo, tanto che attirarono su di loro la collera dell’autorità municipale. Nel 1875, infatti, il sindaco di allora Comm. Marcello Salomone pensò di ridurle al silenzio con un’ordinanza che vietava tali manifestazioni. Ma anche il suo tentativo fu vano poiché le “ciangiulini “ a Pizzo perdurarono fino alla metà degli anni cinquanta. Fissiamo, dunque, ricordo dei loro canti prima che si disperdano irreparabilmente e vadano perduti i concetti, le immagini, le similitudini generali ed indefinite di ciò che costituiva l’uso della “conclamatio” napitina. Bello nella sua tetraggine è questo canto di Pizzo edito dal Mele, nel quale parla un giovane marito, morto di recente, che si rivolge nell’oltretomba al padre.
Nei paesi del Salento, era possibile incontrare, durante lo svolgimento dei riti funerari, coloro che la tradizione popolare chiamava “rèpute” o, termine più appropriato, “chiangimorti” A Castrignano dei Greci, fino a qualche anno fa, era ancora in vita una di queste donne, anche se, da diverso tempo, prima che passasse a miglior vita, non veniva più chiamata a svolgere la sua mansione, perché tali usi si erano persi fra le pieghe del tempo. Il suo nome era Concetta. Divenuta una dolce e nota vecchietta, concesse un’intervista alla RAI, il cui staff giunse nella cittadina per filmare una cerimonia funeraria, organizzata appositamente per l’occasione. Anche se, di fatto, il morto non c’era, la scena fu così drammatica, e la “chiangimorti” talmente convincente, che i presenti si commossero, facendosi scappare qualche lacrima. “Noi prefiche”, dichiarò Concetta, “non piangevamo mai, facevamo piangere le altre donne, quelle della famiglia del morto. Conoscevamo le strofe a memoria e poi inventavamo secondo i casi”. Era consuetudine, infatti, recitare delle cantilene, tramandate oralmente, con voce triste e sommessa, accompagnandole con lunghi lamenti e singhiozzi e, molto spesso, con un gesto del fazzoletto.
“I CIANGIULERI”. Un vero e proprio mestiere… un pianto a pagamento! Erano donne vestite con abiti scuri e con un velo nero sul viso, educate sin dalla tenera età ad esternare il proprio dolore verso i defunti, che prendevano parte ai riti funerari per piangere la dipartita del defunto. Questa figura quasi del tutto scomparsa, raggiungevano la dimora del defunto, si stringevano intorno al feretro e lo compiangevano con filastrocche, pianto, grida, gesti di disperazione… le cantilene (tramandate oralmente) erano accompagnate da singhiozzi, lamenti e a volte anche con un gesto del fazzoletto. Ma quale compito avevano queste donne? Far commuovere l’anima… erano in grado di far piangere le altre persone. Che il loro dolore fosse sincero o simulato, la loro rappresentazione raggiungeva alti livelli di drammaticità a cui non si poteva rimanere indifferenti. E comunque, grazie a loro, anche chi non aveva una famiglia poteva essere compianto. In Sardegna, c’erano invece le “lamentatrici”, chiamate in Sicilia reputatrici, donne molto povere, che, almeno fino agli anni Cinquanta del Secolo scorso (oggi raramente), con lo scopo di sfamare se stesse e i propri figli, si facevano assoldare per piangere i morti degli altri e per intonare nenie funebri che inneggiassero alle gesta e alle virtù dei cari estinti. Le reputatrici si lanciavano in performances estreme, gridando, disperandosi, percuotendosi il petto e la testa, battendo i piedi per terra, lacerandosi le vesti, strappandosi i capelli e graffiandosi il volto. Il piagnisteo s’intensificava nel momento in cui la bara veniva portata fuori di casa per il corteo verso il cimitero, come a voler sottolineare la terribile sofferenza del distacco, e ricominciava durante “lu cunsulatu”, il banchetto di ristoro per i parenti e i partecipanti, e durante le visite di condoglianze, che arrivavano a durare fino a nove giorni, tra finestre sbarrate e semichiuse o nella penombra delle candele. Si ricordavano con strazio le disgrazie della malattia e le conseguenze inconsolabili della perdita, cui seguiva un’esplosione di urla e pianti per esorcizzare la morte, per creare un contro altare al rischio incombente della follia a causa della sofferenza provata e per rievocare catarticamente la vita.
Il silenzio più assoluto invece calava alla morte di un bambino, annunciata dall’espressione Gloria e paradisu!
Il bimbo defunto non si piangeva mai, nessuno sapeva cosa fare o dire e nessuno osava parlare. Il bambino era considerato un angelo puro richiamato in Cielo da Dio.
https://youtu.be/8VevOqMPP5Y
Vale sempre ed ancora lo stesso infallibile detto.” ‘O guaio è di chi more, chi resta s’acconcia sempre”, ossia Chi resa: menesta!.
fonte