Le processioni pasquali “commissariate” e quel decreto borbonico del 1779
Si approssima la Pasqua e ritorna, ancora una volta, l’annosa questione delle processioni, degli inchini, delle rappresentazioni, delle norme e dei regolamenti. In un ambito così delicato come quello della ritualità pubblica, nel quale i rapporti di potere esistenti nella società assumono una dimensione tangibile, drammatica, e per ciò stesso refrattaria a qualsiasi ridefinizione non proveniente dalla vera autorità, un veloce sguardo al passato può mostrare quanto vane siano le pretese di legiferare in abstracto.
Nel 1779 Ferdinando di Borbone (1751-1825), Re di Napoli e di Sicilia, emanava un curioso decreto riguardante le celebrazioni della Settimana Santa col quale egli, essendo venuto a conoscenza “degli scandalosi abusi di taluni del basso Popolo”, i quali usavano celebrare il Giovedì e il Venerdì Santo non con “vera interna compunzione” ma, piuttosto, “per mezzo di varie sceniche comparse, e spettacoli popolareschi”, vietava risolutamente “il comparir da Battenti, o rappresentare i Misteri della Passione, sotto pena d’esser condannati alla frusta”. Il provvedimento intendeva porre rimedio a una situazione assai spiacevole: gli “spettacoli popolareschi” messi in scena durante la Settimana Santa, infatti, assomigliavano sempre più a sinistri carnevali. In Puglia come in Calabria, a Napoli come a Palermo, schiere di “falsi divoti” infangavano la Santa Pasqua “alcuni coll’andar nudi per le piazze, e per le strade, battendosi a sangue; altri con rappresentare i Sagri Misteri della Passione, vestiti, chi da Cristo, e chi da Giudei, e da Manigoldi.”
In Calabria, le messe in scena dell’ultima cena rappresentate a San Pietro di Caridà, Limpidi, Arena, Acquaro e Dasà diventavano spesso occasione di gozzoviglie. A Montepaone, riferisce Francesco Torraca (1853-1938), “que’ contadini chiamavano un uomo qualunque e, dopo averlo pagato, lo ubbriacavano; quindi lo conducevano in mezzo alla piazza, dove era spogliato, battuto, poi legato ad una colonna ed infine a una croce,” e analoghe, cruente rappresentazioni si svolgevano anche a Gagliano, Settingiano, Tiriolo, Squillace, Centrache, Palermiti, Davoli, Satriano (la pigghiata) e Stilo (il mortoro). In Sicilia, poi, queste messe in scena assumevano un esplicito tratto carnevalesco nelle diavolate, bizzarre rappresentazioni nel corso delle quali attori travestiti da giudei e da demoni battevano le strade alla ricerca di anime per poi darsi alla pazza gioia proprio nel momento in cui veniva rappresentata la Passione e la morte di Cristo.
Carnevalesca era anche l’euforia generale nella quale sfociava il famoso rito dell’affruntata, ancora oggi diffuso in molti centri della Calabria: “sparano fuochi, suona la musica, il popolo batte le mani, piange, ride,” scrive Luigi Settembrini (1813-1876), “e infine va a finire la festa nella taverna”. Era proprio il vino a percorrere le celebrazioni della Pasqua, nella sua ubiqua presenza a livello spirituale, come simbolo del Sangue di Cristo, e soprattutto materiale. Le bettole e le osterie facevano affari d’oro –durante la Settimana Santa, narra un prelato di Reggio Calabria, da esse gli avventori uscivano “ubriachi fradici cantando canzonacce da trivio o bestemmiando come turchi”– i signori stappavano le proprie botti, i conventi davano fondo alle loro riserve di vino non consacrato. Nel corso delle processioni, non di rado la forza pubblica doveva arrestare gli ubriachi e placare disordini, e gli arrestati si difendevano sostenendo di aver bevuto per interpretare la parte dei giudei. A San Nicola da Crissa, la Pasqua, ricorda Vito Teti, era periodo di mangiate e bevute: essa, “quasi per vendicare il Carnevale, congeda la Quaresima con altrettanta autorità”: Nesce, tu, sarda siccata / Mu tras’eu la ricrijata / Mu ricriju si zzitezi / Cu ssi belle cuzurezi.
Come si può facilmente immaginare, il decreto di Ferdinando ebbe poco o nessun effetto. Nessuno fu frustato, le pigghiate, i mortori e le affruntate continuarono, così come allegramente continuarono le gozzoviglie e le sbronze, a testimonianza di come non si possano imporre per decreto gli usi e i costumi di un popolo.
Francesco Barreca
(Foto Javier Romero Diaz)
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