Le radici del pensiero di Genovesi e dell’Illuminismo napoletano tradite da Galanti e dai Giacobini
Giuseppe Gangemi
Genovesi, nella prima bozza della propria autobiografia, descrive, in terza persona, i debiti intellettuali contratti a Napoli da giovane: “Dunque nel 1737 dell’età di 25 anni [Antonio Genovesi] si portò in Napoli il mese di novembre. Tosto determinò di fare uno studio seguito, e di udire i primi maestri dell’Università napoletana” (Zambelli 1972, 813).
Egli li elenca e, dallo spazio che concede a ciascuno e dalla rilevanza delle cose che scrive, si può desumere l’influenza che ciascuno ha avuto nella sua formazione: D. Nicolò di Martino, D. Pietro di Martino (“costoro cercò sentire con tutta l’attenzione”), Giuseppe Pasquale Cirillo (“per apparare la singolare eloquenza con cui egli spiegavasi”), D. Pietro de Turris (“assai vecchio”), Domenico Gentile (“egregio giureconsulto”) e D. Jacopo Martorelli (“con cui sul principio passò qualche disgusto”). Su Vico, si sofferma con considerazioni più ampie e particolari: “Era già un anno [1736] ch’egli [Genovesi] aveva letta la Scienza Nuova del signor D. Giambattista Vico, celebre metafisico, filologo, critico de’ tempi suoi. Il perché (fu) tosto ad ascoltarlo, a cui avendo dedicata la sua servitù ebbe l’onore della sua amicizia” (Zambelli 1972, 814-816). Nel capitolo “Di fronte a Vico e a Doria” dello stesso volume, Zambelli osserva che “Vico è il primo, e probabilmente l’unico, grande filosofo, incontrato personalmente e ascoltato a lezione dal Genovesi” (1972, 249).
Vincenzo Cuoco, nel 1804, in un abbozzo di lettera a Giuseppe Degérando, riconosce: “In Italia la scuola di [Antonio] Genovesi, che fu di lui discepolo, ha tenuto [Giambattista Vico] sempre in altissimo pregio; ed a misura che la scuola di Genovesi si è diffusa pel rimanente dell’Italia, la fama di Vico è cresciuta. Molto vi hanno contribuito [Gaetano] Filangieri e [Mario] Pagano” (Scritti vari, a cura di Cortese e Nicolini, 1924, 304). Concetto ribadito mezzo secolo dopo: “Nicolini ha potuto osservare che Genovesi ha un posto cospicuo nella storia della fortuna di Vico proprio per il rilievo che gli dava ricordandolo dalla cattedra” (Zambelli 1972, 249). Dall’argomento che l’insegnamento di Vico ha un proseguimento con Genovesi e i suoi allievi, i quali si sono dati da fare per diffondere la fama di Vico nel Regno di Napoli, prima che altrove, a mio avviso si dovrebbe dedurre che l’illuminismo napoletano ha avuto inizio con Vico. Una conferma a questa conclusione si ricava dalla ulteriore constatazione che i “lettori risorgimentali di Vico e di Genovesi sono in gran parte gli stessi” (Zambelli 1972, 275).
Questi elementi spingono a concludere che vi sia stata continuità tra Vico e Genovesi e suggeriscono che, se Genovesi è reputato essere stato il primo grande illuminista napoletano, illuminista è stato anche Vico che ha fortemente influenzato Genovesi.
Senonché, vi sono due argomenti, in apparente contrasto con questa ipotesi: 1) Genovesi cita poco Vico e solo su aspetti marginali. A giustificazione, va considerato che, a quel tempo, la citazione non era d’obbligo e che Genovesi potrebbe avere citato poco Vico “senza dubbio per non compromettere le proprie pagine con un nome sospetto” (Zambelli 1972, 269). Vico era sospetto ai curialisti perché il suo pensiero anticurialista era considerato estremista ed era sospetto agli aristocratici che definiva usurpatori e oppressivi; 2) non tutti gli allievi di Genovesi hanno amato o gradito Vico: Giuseppe Maria Galanti ha espresso, nel suo Elogio di Genovesi, un tagliente giudizio: “Giambatista Vico ci ha lasciato un sospetto di esser stato un uomo di genio, per mezzo di un opera tenebrosa ed enimmatica, ch’è quanto dire inutile” (1762, 21). A giustificazione, va riconosciuto che Galanti potrebbe non aver visto un approccio empirico nelle tre edizioni della Scienza Nuova, semplicemente perché il suo approccio empirico era diverso, in quanto fondamentalmente sensista, e perché non si era accorto che Vico ha reso l’empirismo più sofisticato portandolo, attraverso l’analisi del linguaggio, allo studio della mente. Infatti, il giudizio di Galanti su Vico è espresso un attimo prima di parlare dell’impostazione empirista di Genovesi fondata sulla natura: “Ogni Studio, che non ha fondamento nella natura, e non mira alla soda utilità degli uomini, è un’occupazione vana e nocevole” (1772, 38). Qui, natura va inteso come l’insieme di quanto si percepisce con i sensi.
Secondo questo approccio sensista, Galanti definisce Pietro Giannone, “il più giudizioso filosofo del suo tempo”, di cui, si “è ammirata la storia civile per difetto di una migliore”: Giannone è colui che ha dato inizio all’illuminismo napoletano perché è con lui che “cominciamo a uscire dalla barbarie” (1772, 23). Parole forti che convincono molti Giacobini del 1799 (con l’eccezione di Mario Pagano, Francesco Lomonaco e Francesco Saverio Salfi) a privilegiare Giannone a Vico e sostenere che l’illuminismo napoletano comincia con Giannone, mentre Vico ne sarebbe rimasto estraneo. Un secolo più tardi, questa conclusione viene sviluppata e rilanciata da Benedetto Croce e da Franco Venturi i quali negano “un rapporto organico tra Vico e l’Illuminismo, tra Vico e il movimento riformatore del secondo Settecento” (Guaragnella 2018, 136). Croce nega questo rapporto perché, come dice Antonio Gramsci, ha “speculativizzato” Vico (1975, 1089). Venturi, grande studioso dell’illuminismo francese, ha probabilmente interpretato le opere di Vico attraverso un filtro sicuramente non adatto all’impostazione illuminista e riformista di Vico.
Un’incognita rimane il solito Galanti che è sempre rimasto estraneo al giacobinismo eppure ha mostrato, come i Giacobini, di preferire Giannone a Vico. L’errore di Galanti su Vico gli sarà, implicitamente, rimproverato dal suo allievo diretto, Vincenzo Cuoco quando accuserà, a rivoluzione sconfitta, i Giacobini di avere fallito la rivoluzione per non avere seguito Vico e avere, invece, preferito seguire Giannone.
Il motivo di quest’ultimo fraintendimento sta, forse, nella lettura di Niccolò Machiavelli che Galanti ha proposto, nel 1779, con il proprio Elogio di Machiavelli in cui il segretario fiorentino viene interpretato attraverso Rousseau. È stata questa lettura ad avere spezzato il filo della continuità che legava l’illuminismo di Vico a quello di Genovesi, dato che l’impegno politico riformatore dei due era segnato dalla centralità che entrambi hanno riconosciuto all’equità e all’etica?


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