LE RIVENDICAZIONI SOCIALI DEL PROLETARIATO FURONO DECISIVE NELLE RIVOLTE DEL RISORGIMENTO?

Nella Sicilia del 1860 molti dei braccianti che appoggiarono Garibaldi speravano nel riscatto sociale
Le dinamiche del Risorgimento italiano furono alimentate dalle idee unitarie e liberali del movimento democratico che ebbe come maggiori esponenti Mazzini e Garibaldi, ma anche dalla politica espansionistica dello Stato sabaudo. Insieme a questi due elementi decisivi, quanto influì il desiderio di riscatto sociale delle classi più povere del meridione?
La Sicilia era rimasta al di fuori delle riforme napoleoniche attuate nella penisola quando era entrata a far parte della sfera francese. L’isola rimaneva, dunque, fortemente feudale, con i suoi estesi latifondi, nonostante i tentativi di riforma agraria dei viceré illuminati Caracciolo e Caramanico nella seconda metà del Settecento. Fu così compito della restaurata monarchia borbonica promuovere una politica antifeudale per far sviluppare l’economia siciliana, ferma e stagnante, basata sulle rendite. Il mezzo era quello della sostituzione dell’aristocrazia feudale con una classe media più progredita e con spirito d’iniziativa, elemento che in Sicilia mancava.
La monarchia borbonica riuscì ad abbattere la struttura giuridica feudale, ma fallì nella sostanza, poiché la sua azione non portò alla creazione di un ordinamento economico-sociale moderno e più equo, ma spinse la borghesia terriera a fondersi con l’aristocrazia, creando un connubio che aveva come scopo comune la conservazione del potere in mano agli agrari e il dominio sui contadini.
Le condizioni dei braccianti della parte continentale del Regno non erano molto migliori, e spesso i lavoratori erano in balia dei capricci del barone per cui lavoravano.
Quando Garibaldi sbarcò in Sicilia nel 1860 fu appoggiato da un buon numero di contadini e braccianti, alcuni perché legati ai latifondisti che avevano aderito al progetto unitario sabaudo, molti altri perché speravano in un riscatto sociale, tra l’altro promesso dal generale nizzardo. Quest’aspirazione di un miglioramento economico e di condizioni di vita si evince anche dalle pagine del garibaldino Giuseppe Cesare Abba, in un dialogo con un frate che non crede alle loro promesse:
«Cotesto giorno, uno di quei soldati fu fermato da un giovane monaco che egli avea già veduto girare pel borgo, e soffermarsi qua e là a parlare coi suoi compagni. E capì subito che era un’anima tormentata da qualche gran cruccio. Avviato il discorso, il monaco si spiegò: avrebbe voluto gettarsi nella rivoluzione, ma qualcosa lo tratteneva. Seduti a pie’ d’una delle tre grandi croci che sorgevano su d’un poggio a figurarvi il Calvario; quei due parlavano già come vecchi amici. E il garibaldino diceva al frate che se avesse voluto entrare nella sua Compagnia, vi avrebbe trovato il Comandante e gli ufficiali e molti militi siciliani tornati dall’esilio; e che l’esser frate non voleva dire; che già altri frati avevano combattuto per Garibaldi a Calatafimi e che anzi, un francescano lo seguiva già da Salemi. Il monaco rispondeva che pur ammirando Garibaldi gli pareva che quella ch’egli combatteva non fosse la guerra di cui la Sicilia aveva bisogno. L’unità d’Italia e la libertà pel vero popolo siciliano erano quasi nulla. Che potevano farsene quelle plebi ancora oppresse da tutte le ingiustizie, altrove, in Piemonte, in Lombardia, levate da un secolo? Non avevano visto essi venuti da fuori, per quel poco che avevano già corso dell’isola, quanta era la miseria e quanta l’abiezione di quelle plebi? La libertà non era pane per lo stomaco e nemmeno per lo spirito; anzi sarebbe poi per i già prepotenti un mezzo per opprimere di più. In Sicilia era necessaria una guerra che trasformasse la società e la vita, facendo guadagnare al popolo il tempo che per forza gli era stato fatto perdere. Non vedeva Garibaldi che la Sicilia era ancora quasi come doveva essere stata ai tempi delle guerre servili di venti secoli avanti? Insomma quel monaco voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto. Il garibaldino cui pareva di non capir quasi come un monaco parlasse a quel modo, gli diceva che allora quella guerra ch’egli voleva avrebbe dovuto esser fatta anche contro i frati ricchissimi, e molti. E il monaco ardente rispondeva che sì, che anche contro i frati si doveva farla, contro di essi prima che contro d’ogni altro, ma col Vangelo in mano e con la Croce: che allora anch’egli ci si sarebbe messo, ma che così come era fatta e per quel che era fatta, gli pareva inutile. Se Garibaldi avesse guardato bene, si sarebbe accorto che le plebi lo lasciavano solo coi suoi. Allora il garibaldino accennò alle squadre che numerose tenevano i monti qua e là. – E chi vi dice – esclamò il monaco con voce risoluta – chi vi dice che non si aspettino qualche cosa di più? – Il discorso era stringente. Il garibaldino che non si voleva dar vinto, sentiva tuttavia che il monaco ne sapeva più di lui. Mirava quel volto illuminato da una fiamma che non era la sua di mazziniano, taceva un po’ confuso e anche alquanto impicciolito. Poi egli e il monaco si levarono di là, si abbracciarono, e questi se n’andò. Egli discese tra i suoi con l’animo turbato e scontento. Gli pareva d’aver imparato molto in quel colloquio, e vagamente sentiva che l’unità della patria non era tutto, che la libertà avrebbe scoperto molte piaghe, alle quali poi col tempo altri avrebbe dovuto pensare. E se ne ricordò e pensò a quel monaco trent’anni dipoi, quando proprio da quella parte dell’isola parlò più alto l’antico dolore che quegli sin da quel tempo remoto sentiva».
Anche la folla di Bronte, narrata dal Verga, si attendeva la terra, il riscatto socio-economico. I braccianti e tutti i lavoratori più umili avevano una rabbia repressa da secoli di ingiustizie e di fame a causa dell’avidità dei galantuomini. E la rabbia esplose violenta e sanguinaria, ma fu immediatamente repressa da Bixio.
Il processo unitario aveva utilizzato le masse, parlando non solo di indipendenza, di unità e di libertà, ma anche di diritti sociali. Questi rimasero solo promesse. In realtà, il Risorgimento vide come protagoniste le classi colte, l’alta borghesia, gli aristocratici liberali. Le classi popolari furono lasciate ai margini, estranee non ai sacrifici, ma ai benefici e alla gestione del potere nel nuovo Regno d’Italia.
Le classi dirigenti meridionali, aristocratici e borghesi, prima organici allo Stato borbonico, capirono subito che era necessario aderire al nuovo regime sabaudo per garantire i loro interessi e conservare il potere. Così, la maggior parte di essi passò ai Savoia. Furono le classi rurali a patire il cambiamento di regime, e molti di loro, delusi, andarono a rinforzare le bande legittimiste.
Carlo Levi, medico, scrittore e pittore, nel 1935 fu confinato in Basilicata per antifascismo. Egli, seppur piemontese, si calò perfettamente in quel mondo contadino meridionale e analizzò il fenomeno della lotta di classe e del brigantaggio post unitario:
I contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. […] tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, con una passione presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. […] A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito. […] Da un punto di vista liberale e «progressista», quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno ad intenderlo. Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa o dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea. […] Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. E una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a. difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.
In conclusione, a mio parere il bisogno di un miglioramento delle condizioni economiche e sociali della classe contadina e operaia fu un carburante che andò ad alimentare la rivoluzione unitaria e fu manovrata dalle classi dirigenti per il raggiungimento dei loro scopi. Poi fece divampare l’insorgenza e un decennio di sanguinosa guerra civile. I cafoni furono sconfitti, come era inevitabile, e nel loro destino ci sarebbe stata una sofferta emigrazione di massa verso le Americhe.
Domenico Anfora