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Le testimonianze sul dialetto romano nel tardo medioevo: a Roma si parlava napoletano

Posted by on Apr 9, 2016

Le testimonianze sul dialetto romano nel tardo medioevo: a Roma si parlava napoletano

grazie ad un ritrovamento di Massimiliano Verde di Accademia Napoletana di un articolo di badwila.net, che nel titolo è tutto un programma, possiamo allargare le nostre conoscenze storiche e credo che sia meglio leggerlo.

Le testimonianze sul dialetto romano nel tardo medioevo: a Roma si parlava napoletano

 

Alla base dell’italiano moderno, come
è noto, non vi è il latino classico, ma il
latino volgare, quello effettivamente
parlato dalla gente nella vita di tutti i
giorni fin dall’antichità, e poi evolutosi
nel corso della tarda antichità e l’alto
medioevo [questo vale naturalmente non
solo per l’italiano ma per tutte le lingue
romanze].
Ovviamente, non potendo basarsi su
fonti letterarie propriamente dette, gli
storici possono ricostruire questa
“lingua”, e la sua evoluzione, solo
marginalmente. I documenti utilizzati a tale proposito sono le iscrizioni private, come i
graffiti di pompeiani o le rare testimonianze grammaticali come l’Appendix Probi (così
chiamata perché trascritta in calce ad un manoscritto contenente opere del grammatico
Valerio Probo); una lista, compilata da un autore ignoto, a scopi didattici, probabilmente
a Roma nel III secolo d. C., conprendente 227 coppie di parole: al primo posto viene
riportata la forma corretta, al secondo quella “sbagliata”, ossia quella influenzata dalle
tendenze di pronuncia allora dominanti. Infine vi sono alcune formule di giuramento in testi processuali, come il celebre Placito Capuano del 960 d.C., considerato l’atto di nascita
dell’italiano, ma soprattutto del dialetto campano.

Le vicende linguistiche di Roma nel medioevo si caratterizzano per la loro singolarità
nell’ambito del panorama nazionale. Innanzitutto va ricordato che nella sua fase più antica
il “volgare” romano presenta una fisionomia molto diversa da quella rinascimentale,
caratterizzata dal romanesco “classico”. A questo proposito il primo grande “monumento”
della letteratura romanesca, ovvero la trecentesca Cronica dell’Anonimo Romano, rivela – praticamente dal nulla – una compagine linguistica per molti aspetti affine al napoletano
(Solo per fare qualche esempio, nella Cronica ci sono parole come “tiempo” o “uocchi“,
che presentano il dittongo esattamente come nel napoletano di oggi, oppure come
vocca” per bocca, “iente” per gente o “pozzo” per posso).
Solo a partire dalla seconda metà del quattrocento il dialetto di Roma subisce quelle
notevoli trasformazioni che lo condurranno ad un progressivo avvicinamento al toscano.
In questo senso ebbe una certa rilevanza il carattere cosmopolita della corte pontificia,
che adottò gradatamente un idioma comune fondato sul prestigiosissimo volgare toscano,
nonché l’impulso dato al toscano dai due papi medicei, Leone X e Clemente VII,
succedutisi all’inizio del cinquecento.
Tuttavia l’evento decisivo per l’evoluzione del volgare
romano è stato riconosciuto nel sacco di Roma del 1527
ad opera delle truppe di Carlo V, la conseguente
devastazione della città alla quale sopravvissero solo
poche migliaia di abitanti, e il successivo ripopolamento
caratterizzato da correnti migratorie di diversa
provenienza, tra le quali spiccava, per il suo peso
socioeconomico, quella proveniente proprio dalla
Toscana. L’indebolimento della componente popolare
“autoctona”, avrebbe favorito, dunque, l’affermarsi del
del toscano come strumento di comunicazione
sovraregionale.

Per tornare a quello che era la lingua parlata a Roma alla
fine del medioevo, così come traspare dalla  Cronica
romana dell’Anonimo, riporto l’elenco di quelli che sono
i suoi caratteri salienti, così come sono stati individuati
recentemente da Claudio Giovanardi:

– la metafonesi delle vocali mediobasse (rom. ant. puopolo, castiello);
– la conservazione di jod (rom. ant. iace, it. giace; iónze, it. giunse);
– il betacismo (rom. ant. vraccia, it. braccia; rom. ant. Iacovo, it. Giacomo);
– la vocalizzazione di -l preconsonantico (rom. ant. aitro, it. altro);
– l’articolo determinativo maschile solo in forma forte (rom. ant. lo ponte, it. il ponte);
– il passato remoto in -ào ed -éo (rom. ant. annao it. andò; rom. ant. fao it. feci; rom. ant. pennéo it. pendé);
– il futuro in -àio (rom. ant. farràio, it. farò), ancora in uso in vari dialetti laziali.

Tuttavia quello che appare in assoluto come il più antico documento
relativo alla “parlata” in uso a Roma nel medioevo, nonché una delle più
antiche testimonianze scritte di italiano volgare, è visibile in uno degli
affreschi della chiesa sotterranea di san Clemente, e risale all’XI secolo
d.C..
Nella parte inferiore dell’affresco, raffigurante papa Clemente I° nell’atto
di celebrare una messa, sono riportate le più antiche espressioni che
utilizzano una lingua intermedia fra il latino e il volgare, secondo
l’interpretazione più condivisa: “Sisinium: «Fili de le pute, traite,
Gosmari, Albertel, traite. Falite dereto colo palo, Carvoncelle!»
Sanctus Clemens: «Duritiam cordis vestris, saxa trahere meruistis

(“Sisinnio: «Figli delle malefemmine, tirate! Gosmario, Albertello, tirate!
fatti da dietro con il palo, Carvoncello» Clemente: «Per la durezza del
vostro cuore, meritaste di trascinare un sasso [o sassi]”).
La breve iscrizione somiglia piuttosto ad un fumetto per come è strutturata
e per la scena “comica” che racconta, tratta dalla “Passio Clementis”:
il santo si salva miracolosamente dalla cattura da parte dei tre servi
(Gosmario, Albertello e Carboncello) dell’aguzzino Sisinnio; costoro
cercano di arrestarlo per ordine del loro padrone, ma, convinti di aver
legato il santo, cercano invece di trasportare una pesante colonna,
provocando così le ire del padrone che li prende a male parole.

Nella prima parte del testo, in volgare, è stato notato che le espressioni
de le pute” e “co lo palo” sono già preposizioni articolate, per altro
ampiamente utilizzate nel testo dell’Anonimo Romano; si veda, ad
esempio:  “Ecco lo suonno de questa notte”, “ e sì fu preso Cassio e
sì li fu tronco lo capo
”, “
in uno luoco lo quale se dice la
Maccantregola
”, solo per citare alcuni esempi tratti dal lungo capitolo
XVVIII.
La seconda parte del testo, pronunciata dal Santo, è scritta in latino ma
contiene diverse “sgrammaticature”: “duritiam“, ad esempio, è un
accusativo, ma dovrebbe essere un ablativo (un chiaro segnale del fatto
che ormai a Roma non si utilizzano più i casi latini, ma si ricorre ad un caso
“unico”); inoltre, in luogo del latino “trahere” compare “traere“, con la caduta della H.
Sisinnio, infine, usa l’epititeto “fili dele pute” in funzione “fatica”, ovvero per quella forma stereotipata del discorso, come saluti (di incontro e di separazione), convenevoli, auguri, e altre considerazioni, che viene definita dai linguisti “manutenzione del canale”, ovvero aprire, mantenere aperto o chiudere un contatto fra due o più interlocutori; a questo proposito è stato anche notato che nell’italiano antico la frase in se non era offensiva come lo è oggi.

La parola “traite”, che ricorre ben due volte nella breve frase, riveste un particolare interesse, in quanto, dopo la sua lunga evoluzione dalla bassa latinità al tardo medioevo, sembra quasi del tutto scomparsa dal dialetto “romanesco” classico (quello del XVIII secolo tramandato dal Belli, per intendere), mentre nell’italiano “corretto” (ma anche corrente) ha assunto un ruolo di verbo “impersonale”, non riferito cioè a qualche cosa di concreto – cosa o persona – ed è ormai quasi del tutto scomparsa dal linguaggio corrente.
Si tratta, purtroppo, dell’unico termine che consente di confrontare tra loro la breve iscrizione dell’XI secolo con il lungo testo dell’Anonimo Romano.
Il termine deriva chiaramente dal latino “trahere” diventato poi “tragere” in epoca tarda; l’originario significato – tirare – nel lungo testo della Cronica, e quindi verosimilmente nell’arco di pochi secoli, si è arricchito di inaspettate sfumature, come il significato di “ottenere”, guadagnare: “… ne traieva più de milli fiorini”; ovvero “estrarre”: “…  Adirati trassero le spade”; ma anche qualcosa di più complesso, come “trascrivere” un discorso: “ … de ciò pregao lo notaro che ne traiessi piubico instrumento”; ovvero “accorrere”; “… chello puopolo non traieva allo sio stormare

Per quanto riguarda l’iscrizione di San Clemente si è voluta riconoscere, nelle poche righe di scrittura, una inflessione romanesca già presente in un’attestazione così antica; tuttavia in moltissimi documenti delle “origini” sono evidenti gli stessi tratti caratteristici, presenti ancora oggi nei dialetti centro e sud italici. All’epoca dell’iscrizione, e per molto tempo ancora, la lingua letteraria rimarrà il latino classico (con la quale si esprime san Clemente, anche se con alcuni “errori” dovuti alla pronuncia corrente); invece la parlata popolare dell’epoca era considerata adatta solo per riportare dialoghi di scarso livello culturale, e per questo utilizzata dall’artista romano con chiaro intento denigratorio.

Secondo il filologo Giuseppe Billanovich (Cittadella, 6 agosto 1913 – Padova, 2 febbraio 2000), l’autore della Cronica, nota come “Cronica dell’Anonimo Romano”, sarebbe Bartolomeo di Iacovo da Valmontone (? – 1357 o 1358; v. la ricostruzione alla pagina  http://www.medioevo.roma.it/html/ rassegne/rassegna_stampa.htm)
Stando a quanto accertato dal Billanovich, Bartolomeo, ecclesiastico e dottore in medicina a Bologna, avrebbe scritto solo questa mirabile cronaca, dopo di che si sarebbe ridotto ad occupare una nicchia della letteratura italiana, lasciando, tuttavia, di sé cospicue tracce in quanto persona al seguito di Ildebrandino de’ Conti, una figura centrale nella diplomazia di quegli anni, canonico nella basilica papale di Avignone e, soprattutto, amico di Francesco Petrarca.
Eppure la cultura di Bartolomeo, sostiene Billanovich, fu molto vasta ed è stata appunto riversata nella Cronica, che solo apparentemente è il resoconto di un autore popolare, ma è in realtà densa di citazioni classiche, Sallustio,  Livio, da Valerio Massimo e Lucano.

Il testo non ha avuto un’edizione rigorosa, dopo la prima integrale curata dal Muratori nel 1740. La prima edizione critica, che richiese una complessa opera di restauro filologico, apparve solo nel 1979, a cura di Giuseppe Porta.
Scrittore certamente colto ed attento testimone oculare, l’Anonimo Romano racconta, nella parte più celebrata della sua Cronica, le vicende sanguinose e crudeli del governo di Cola di Rienzo. La sua lingua è un “romanesco” di potente forza espressiva, mentre la narrazione è scandita da un senso di cupa fatalità: lo sconvolgente episodio della violenta morte del Tribuno, ad esempio, ha ben pochi termini di paragone nella letteratura italiana.

La vastissima cultura dell’autore è testimoniata, ad esempio, dal capitolo 13 della Cronica, che narra con dovizia di particolari la spedizione contro i Turchi, compiuta nel 1317 dal generale greco Martino Zaccaria, per la conquista e la difesa del Porto di Smirne; il cronista ne parla come di una “crociata”, anche se, trattandosi di un’impresa maturata nell’ambito dei possedimenti greci ed occidentali del Mar Egeo, dal punto di vista storico non può certo definirsi tale. Il capitolo 15, invece, descrive in maniera vivace e particolarmente “sentita” l’inondazione di Roma dell’anno 1300, sotto il pontificato di Clemente VI, e non vi è dubbio che l’autore sia stato presente a quell’evento. Il capitolo 18, infine, contiene per intero la celebre biografia di Cola di Rienzo, scritta evidentemente da un fervente partigiano del Tribuno romano. Da questa vale la pena riportare la trascrizione di una parte dei capitoli di legge emessi da Cola nel 1347:

“… fece leiere una carta nella quale erano li ordinamenti dello buono stato. Conte, figlio de Cecco Mancino, la lesse brevemente. Questi fuoro alquanti suoi capitoli:

Lo primo, che qualunche perzona occideva alcuno, esso sia occiso, nulla exceptuazione fatta.
Lo secunno, che li piaiti non se proluonghino, anco siano spediti fi’ alli XV dìe.
Lo terzo, che nulla casa de Roma sia data per terra per alcuna cascione, ma vaia in Communo.
Lo quarto, che in ciasche rione de Roma siano auti ciento pedoni e vinticinque cavalieri per communo suollo, daienno ad essi uno pavese de valore de cinque carlini de ariento e convenevile stipennio.
Lo quinto, che della Cammora de Roma, dello Communo, le orfane elle vedove aiano aiutorio.
Lo sesto, che nelli paludi e nelli staini romani e nelle piaie romane de mare sia mantenuto continuamente un legno per guardia delli mercatanti.
Settimo, che li denari, li quali viengo dello focatico e dello sale e delli puorti e delli passaii e delle connannazioni, se fossi necessario, se despennano allo buono stato.
Ottavo, chelle rocche romane, li ponti, le porte elle fortezze non deiano essere guardate per alcuno barone, se non per lo rettore dello puopolo.
Nono, che nullo nobile pozza avere alcuna fortellezze.
Decimo, che li baroni deiano tenere le strade secure e non recipere li latroni e li malefattori, e che deiano fare la grascia so pena de mille marche d’ariento.
Decimoprimo, che della pecunia dello Communo se faccia aiutorio alli monisteri.
Decimosecunno, che in ciasche rione de Roma sia uno granaro e che se proveda dello grano per lo tiempo lo quale deo venire.
Decimoterzio, che se alcuno Romano fussi occiso nella vattaglia per servizio de Communo, se fussi pedone aia ciento livre de provisione, e se fussi cavalieri aia ciento fiorini.
Decimoquarto, che·lle citate e·lle terre, le quale staco nello destretto della citate de Roma, aiano lo reimento dallo puopolo de Roma.
Decimoquinto, che quanno alcuno accusa e non provassi l’accusa, sostenga quella pena la quale devessi patere lo accusato, sì in perzona sì in pecunia”

Ma perché proprio una lingua tanto vicina al dialetto napoletano ? Il napoletano, come l’italiano, deriva dal latino; si è ipotizzata, tuttavia, una contaminazione con altri idiomi italici preromani, come l’osco, correntemente parlato a Pompei, ancora nel 79 d.C., e con il greco, parlato in Italia meridionale per tutto il periodo romano ed oltre.
Il napoletano, inoltre, è verosimilmente il risultato di influenze e “prestiti” derivanti dalle lingue dei popoli che, nel corso del medioevo, si sono stanziati o hanno dominato la Campania e l’Italia centro-meridionale: coloni e mercanti greci nell’epoca del Ducato di Napoli fino al IX secolo, e, nel basso medioevo, arabi, e normanni (più recentemente anche lo spagnolo e il francese avrebbero lasciato tracce profonde nella lingua e nella cultura campana e sud italica).
Ma il ruolo storico del greco antico va ben oltre i confini delle terre di antica “ellenizzazione”: è fondamentale per l’influenza avuta sulla civiltà occidentale, in quanto “lingua franca” nel Mar Mediterraneo, per tutta l’epoca romana e alto medievale; anche se non ufficialmente è stato a tutti gli effetti la seconda lingua nell’Impero romano. Il greco è anche la lingua originale dei Vangeli e del Nuovo Testamento, nonché l’idioma tramite il quale venne messo per iscritto e poi diffusa la religione cristiana. Infine a seguito della conquista e della colonizzazione del mondo allora conosciuto da parte dei Macedoni di Alessandro Magno, il greco fu parlato, o quantomeno compreso, dall’Egitto al nord dell’India, come lingua universale per gli scambi commerciali.
Un simbolico punto di partenza per la diffusione della lingua greca è stato stabilito dalla morte di Alessando Magno nel 323 a.C.; mentre la chiusura di questo periodo, con il passaggio alla fase del greco medievale, viene simbolicamente fissata alla fondazione di Costantinopoli nel 330; le sue principali testimonianze sono costituite dalla letteratura popolare (c.d. “Canti Acritici”) e, soprattutto, da quella ecclesiastica, con i testi agiografici e gli scritti dei padri della Chiesa.
Nel corso della tarda antichità e dell’alto medioevo il greco subì quel profondo processo di semplificazione nella pronuncia, che ha caratterizzato anche il latino. La semplificazione più eclatante, che caratterizza in greco medievale, è rappresentata dalla prevalenza assoluta del suono “I”, che in età ellenistica veniva pronunciato con dittonghi EI ed OI, nonché con le vocali N, I ed U; vi è poi il caso della lettera greca Y, che ormai viene pronunciata “alla bizantina” “ipsilon”, ma che andrebbe pronunciata “üpsilon” alla maniera classica; il dittongo AI, infine, venne presto pronunciato come “E” (oggi, infatti, molte parole italiane che derivano dal greco sono state traslitterate secondo la pronuncia medievale).
Gli esiti tardi di queste premesse, in Italia, si concretizzarono, verosimilmente nei secoli precedenti l’anno 1000, nella suddivisione linguistica tra la “Romania” e la “Langobardia” (le aree rimaste sotto la sovranità dell’Impero Romano d’Oriente, compreso l’Esarcato di Ravenna, e quelle occupate dai Longobardi a partire dalla fine del IV secolo): la prima rimasta per secoli sotto l’influenza delle due lingue classiche, latino e greco, nelle loro versioni “parlate” e “volgarizzate”; la seconda che nel corso dell’alto medioevo subì l’influsso delle lingue germaniche, o nord europee, portate prima dai Longobardi, poi dai Franchi e dai successivi dominatori di origine più marcatamente germanica.

Claudio Giovanardi, Lingua e dialetto di Roma all’inizio del terzo millennio, in:”Parolechiave” Nuova serie di “Problemi del Socialismo”, n. 36, Roma dicembre 2006, pp. 143 – 162

Anonimo Romano, Cronica, ed. G. Porta, Milano, Adelphi, 1979 (editio maior) e 1981 (editio
minor)

G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la ‘Cronica’ del non più Anonimo Romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo di Valmontone, in: “Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei – Classe di scienze morali, storiche e filologiche”, s. IX, 6 (1995), pp. 195 – 211

D.B. Wallace, Greek Grammar Beyond the Basics: An Exegetical Syntax of the New Testament, Grand Rapids 1997

 

 

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