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L’economia in Italia tra il 1860 e il 1900 di Enrico Fagnano

Posted by on Mar 23, 2022

L’economia in Italia tra il 1860 e il 1900 di Enrico Fagnano

Nel capitolo precedente abbiamo detto che nel 1881 il pil del sud Italia era ancora allo stesso livello di quello del nord e che questo era il risultato della resistenza operata dagli imprenditori meridionali, ma anche il frutto della politica portata avanti dal Banco di Napoli.

La grande banca, infatti, dopo l’Unità si rese conto che finanziare le industrie dell’ex regno non era più proficuo, perché non avevano prospettive di sviluppo e anzi spesso erano destinate a essere liquidate. Allora si trasformò in un istituto di credito fondiario e con i capitali che, come abbiamo visto, continuava a raccogliere, cominciò a finanziare l’attività agricola. I suoi amministratori avevano preso atto della nuova situazione e avevano trovato il modo di fronteggiarla. Si potevano anche costringere i Meridionali a chiudere le imprese, ma era impossibile togliere loro la terra ed era, quindi, su questa che bisognava investire.

L’agricoltura del sud trasse enorme beneficio dall’arrivo di nuovi capitali. Le colture più diffuse furono incrementate, anche grazie all’acquisto di macchinari all’avanguardia, e furono incentivate le colture più pregiate. Per la loro alta qualità i prodotti meridionali conquistarono i mercati internazionali e cominciarono ad essere esportati, in particolare in Francia, che da sola ne assorbiva quasi la metà. Anche se si era lontani dalla situazione precedente al 1860, le iniziative intraprese comunque garantivano la sopravvivenza a un buon numero di braccianti e infatti l’emigrazione dal sud, che aveva avuto inizio subito dopo l’Unità, non aveva ancora assunto proporzioni drammatiche.

Le cose, però, cambiarono improvvisamente, quando il 14 luglio 1887 Depretis fece approvare dal Parlamento una legge che introduceva pesanti dazi sui prodotti industriali stranieri. Precedute già a partire dal 1877 da analoghe misure di minore portata, le nuove tariffe incidevano per circa il 60% sul valore degli articoli tassati, rendendoli eccessivamente costosi per il mercato interno, e rimasero in vigore fino al primo conflitto mondiale (ma numerosi tributi doganali furono nuovamente istituiti a partire dal 1925). Con la legge del 1887 generalmente si dice che ebbe inizio la guerra commerciale con la Francia, dalla quale proveniva la maggior parte dei beni importati e che effettivamente fu il paese più colpito, ma l’obbiettivo di Depretis non era certo di andare ad uno scontro economico (che comunque rischiò di diventare militare) con il potente stato transalpino. L’intento del leader della sinistra storica era, in realtà, di eliminare dal territorio nazionale la concorrenza delle industrie straniere per favorire la crescita di quelle italiane. Si trattò, in altre parole, di un provvedimento protezionistico, simile a quelli che a suo tempo erano stati presi dai governi borbonici per consentire all’imprenditoria delle Due Sicilie di consolidarsi.

La risposta non si fece attendere e prontamente la Francia impose dazi egualmente elevati sui prodotti provenienti dalla penisola, vale a dire su quelli agricoli importati dal Meridione, che inviava, come abbiamo detto, quasi la metà del suo fatturato oltralpe. Subito dopo anche l’Austria, che assorbiva il 17% di questo fatturato, aumentò le sue tariffe, come ovviamente fecero anche gli altri stati, e così tonnellate di frutti della terra, diventati improvvisamente troppo cari per l’estero, rimasero invenduti nei depositi del sud. La conseguenza fu che i loro prezzi crollarono, mentre invece non diminuirono i debiti contratti dalle aziende per l’acquisto dei macchinari e la modernizzazione delle colture. L’economia del Mezzogiorno, così, nel giro di poco tempo fu messa in ginocchio e nelle sue campagne moltissimi braccianti persero ogni fonte di reddito. Fu solo allora che nell’ex regno cominciò la vera emigrazione, quella che nell’immaginario collettivo viene vista come un esodo, e solo vero la fine degli anni Novanta, quando i provvedimenti del 1887 dispiegarono appieno i loro effetti, il numero degli Italiani che partivano dal vecchio stato borbonico superò il numero di quelli che partivano dal Settentrione (prima che accadesse, quindi, passarono quasi quaranta anni e questo fa comprendere quale sia stata la reale capacità di resistenza del sistema produttivo meridionale, sottoposto fin dal 1860 all’attacco continuo del potere affaristico dell’epoca). Gli abitanti delle Due Sicilie avevano cominciato ad abbandonare il Paese subito dopo l’unificazione, ma dapprincipio furono poche migliaia all’anno e dal 1865 poche decine di migliaia, per raggiungere le centinaia di migliaia all’anno solo dopo il 1876.

Dagli ultimi anni dell’Ottocento fino al 1914, cioè fino allo scoppio della prima guerra mondiale, con la quale si interruppero tutti i flussi migratori europei, furono più di 4 milioni i Meridionali che lasciarono le loro terre. Per dare all’imprenditoria del nord la possibilità di crescere, un popolo intero venne abbandonato a se stesso. al debito morale che La parte economicamente progredita del Paese ha un debito morale enorme verso coloro che con il proprio sacrificio ne hanno consentito lo sviluppo.

Nel Paese nato dall’Unità, quindi, c’erano due macroregioni e una di queste veniva sistematicamente favorita ai danni dell’altra, come denuncia anche Giustino Fortunato nella lettera inviata il 2 settembre 1899 a Pasquale Villari e della quale abbiamo riportato un passo nel capitolo V. Ecco infatti come quella lettera continua: “Tutto il macchinario dello Stato presente, se è tollerabile dalle forze dell’Alta Italia è intollerabile dalle nostre esauste forze. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali.”

Al proposito Nitti in Nord e Sud afferma: “La verità è che l’Italia Meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni parte d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non potrebbe pagare, che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno. Tutte le grandi istituzioni dello Stato sono accentrate, per lo meno come l’esercito, nelle zone già più ricche. Per cause molteplici (unione di debiti, vendita di beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord. Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori di esso, hanno continuato l’opera di male. Al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi, possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo.”

Lo studioso lucano in questo brano, nel quale indica sinteticamente le cause degli squilibri economici tra le due parti della penisola, è molto duro con la classe dirigente successiva all’Unità, ma sempre Giustino Fortunato lo è ancora di più nel discorso tenuto l’11 ottobre 1900 a Lavello (riportato dallo storico Gustavo Rinaldi ne Il Regno delle Due Sicilie Tutta la verità, Controcorrente, 2009), nel quale addebita alle scelte dei governi la causa dell’enorme divario esistente tra il nord e il sud. Ecco quello che il noto meridionalista dice: “Ci troviamo nel bivio fatale o di stare su l’armi dinnanzi a folle minacciose, le quali si levino, incerte del domani, a chiederci conto della triste loro condizione, oppure di perpetuare, contro ogni regola di finanza e, per giunta, contro ogni legge di giustizia, uno stato innaturale di cose, secondo cui il pane degli operai di una regione sia pagato con la fame dei contadini del resto d’Italia. I milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’Alta Italia sono estorti, nella massima parte, alle povere moltitudini del Mezzogiorno, nelle cui sconsolate campagne le generazioni umane tuttora passano, rassegnatamente, come le famiglie delle foglie; sono estorti, non già per proteggere, secondo usiamo dire, il lavoro nazionale, ma per favorire, nel più dei casi, gli interessi di pochi capitalisti.”

Quanto accaduto dopo l’annessione viene efficacemente sintetizzato da Francesco Paolo Rispoli, che nello studio La Provincia e la città di Napoli scrive: “Il Mezzogiorno non si accorse delle ferite profonde che aveva ricevuto, né il Governo italiano fece per Napoli tutto quello che questo paese meritava; anzi per 40 anni di seguito lo Stato ha speso a Napoli e nel Mezzogiorno molto meno di quello che ne ritrae sotto forme d’imposte, rendendo assai più esiziali le conseguenze del nostro spietato fiscalismo.”

Le cifre che fotografano la situazione sono impietose e non lasciano adito a dubbi. Dal 1862 fino al 1898, come ricorda Nitti in Nord e Sud, lo stato spese per lavori pubblici, escluse le linee ferroviarie (per le quali spese più che per tutte le altre opere insieme), in Piemonte 74 milioni, in Liguria 136, in Lombardia 158, in Veneto 274, in Emilia 187, nelle Marche 34, in Toscana 127, in Umbria 11, nel Lazio 273, in Abruzzo 56, in Molise 39, in Campania 166, nelle Puglie 42, in Basilicata 55, in Calabria 91, in Sicilia 169 e in Sardegna 90. In sintesi complessivamente furono erogati 1982 milioni e 828 ne andarono alle cinque regioni del nord, 536 alle cinque regioni del centro, compresa la Sardegna, e 618 alle sette del sud, compresi Abruzzo, Molise e Sicilia. Per quanto riguarda il rapporto tra gli importi riscossi e quelli impiegati, nel periodo tra il 1893 e il 1898 risultò che per ogni abitante lo stato nel nord aveva incassato 39 lire e ne aveva investito circa 40, mentre nel sud aveva incassato quasi 24 lire e ne aveva investito circa 15,5. Sempre in ordine al rapporto tra quanto riscosso e quanto impiegato, l’economista lombardo Rodolfo Benini (come riporta Salvo Di Matteo nel citato Quando il Sud fece l’Italia) accertò che tra il 1886 e il 1889 su 100 lire percepite, al nord ne erano state utilizzate 97 e al sud 67.

Alle regioni settentrionali, quindi, non solo finiva la maggior parte degli investimenti pubblici in valore assoluto, ma anche in rapporto ai tributi versati e il paradosso era che il Meridione pagava addirittura più imposte rispetto alla reale ricchezza detenuta, come si rileva sempre dal lavoro di Nitti. Per quanto riguarda la fondiaria, ad esempio, tra il 1894 e il 1898 la media annuale incassata per abitante nel nord era stata di 3,68 lire, quasi pari a quella per abitante nel sud, che era stata di 3,39 lire, nonostante nel primo le terre fossero più produttive, e anche in modo significativo. Questo perché la tassa in sostanza era commisurata all’estensione dei suoli e si calcolava tenendo conto della loro rendita catastale e non del loro rendimento effettivo. Una situazione analoga si riscontrava per l’imposta sui fabbricati, che sempre tra il 1894 e il 1898 era stata pro-capite di 2,89 lire nelle regioni settentrionali e di 2,56 lire in quelle del sud, nonostante le città dell’Alta Italia fossero più ricche e più prospere, e questo sia perché anche tale tributo, come la fondiaria, era legato alla rendita catastale e non al reddito reale degli stabili o al loro valore commerciale, sia perché le case sparse rurali, molto più numerose al nord, ne erano totalmente esentate. Al proposito l’economista piemontese Luigi Einaudi (secondo presidente della nostra Repubblica, il primo eletto) nell’articolo Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche ed iniziative private, pubblicato il 13 novembre 1905 sul Corriere della Sera, affermò: “Forse nella nostra legislazione tributaria non vi è scandalo che sia lontanamente paragonabile all’incidenza effettiva dell’imposta sui fabbricati nell’Italia meridionale.”

Per quanto riguarda, ancora, la tassa sugli affari, tra il 1892 e il 1897 al nord il gettito pro-capite era stato di 6,34 lire, non molto lontano da quello di 5,34 lire rilevato al sud, nonostante nel primo le transazioni fossero almeno il doppio, oltre che di importi maggiori. Erano, però, anche transazioni che per lo più riguardavano il commercio e si effettuavano in maniera informale, spesso addirittura con un semplice scambio di lettere, evitando di passare per le registrazioni ufficiali e sfuggendo così alle imposte. Alcuni anni prima del lavoro di Nitti, pubblicato nel 1900, le anomalie sulla distribuzione del carico tributario erano già state evidenziate dall’economista laziale Maffeo Pantaleoni, che nell’articolo Delle regioni d’Italia in ordine alla loro ricchezza ed al loro carico tributario, apparso nel gennaio 1891 sul Giornale degli economisti, aveva scritto: “Mentre l’alta Italia possiede il 48% di ricchezza, essa non sopporta che meno del 40 per cento del carico tributario; mentre l’Italia media possiede soltanto il 25% di ricchezza, essa paga il 28 e un terzo per cento del carico totale; e mentre l’Italia meridionale possiede solo il 27% della ricchezza nazionale, essa paga il 32 e un quarto per cento del carico tributario.” Questi dati furono ribaditi dallo storico e politico pugliese Gaetano Salvemini nell’articolo Le tre malattie, pubblicato il 25 dicembre 1898 sulla rivista Educazione Politica (poi in Scritti sulla Questione meridionale, Einaudi, 1955), nel quale il battagliero intellettuale aggiunse come commento: “Nel dare il Meridione è all’avanguardia, nel ricevere è alla retroguardia.”

Abbiamo detto che nel Settentrione lo Stato investiva più che nelle regioni meridionali e la tendenza generale viene confermata anche in riferimento ai singoli settori. Ad esempio, per le opere idrauliche tra il 1862 e il 1898 furono spesi 458 milioni, dei quali 267 nel Nord, 188 nel Centro Italia e solo 3 nel Sud, mentre nello stesso periodo per i litorali in Liguria furono spese 303.500 lire a chilometro, in Veneto 223.400, in Toscana 84.800, nel Lazio 77.700, nelle Marche e in Romagna 53.500, in Sardegna 18.300, in Sicilia 46.500 e nelle altre regioni meridionali 43.000.

Anche per quanto riguarda i finanziamenti per l’istruzione, le cose non stavano diversamente. Nel 1877 la legge Coppini rese obbligatorio l’insegnamento elementare e lo Stato erogò ai comuni i contributi per dare esecuzione al provvedimento. Il Piemonte (come riporta Nitti ne Il bilancio delle Stato dal 1862 al 1896-97, Società Anonima Cooperativa, 1900) ogni 10.000 abitanti ricevette 69 lire, la Liguria 43, la Lombardia 80, il Veneto 54, l’Emilia Romagna 34, la Toscana 31, le Marche 60, l’Umbria 45, il Lazio 16, l’Abruzzo 57, la Campania 24, le Puglie 18, la Basilicata 18, la Calabria 27, la Sicilia 13 e la Sardegna 32. La disparità è evidente, ma si ritrova anche in relazione alle strutture per gli studi superiori e infatti nel 1900 le università erano 17, delle quali 4 si trovavano al nord, 7 al centro, una al sud, 3 in Sicilia e 2 in Sardegna.

Per quanto riguarda la realizzazione delle ferrovie tra il 1862 e il 1898 furono spesi complessivamente 2.240 milioni, dei quali 1.137 andarono all’Alta Italia, 347 alle regioni centrali, 469 al sud e 287 a Sardegna e Sicilia. A parte lo squilibrio delle cifre destinate alle diverse parti del Paese, bisogna anche dire che il capitale dell’impresa esecutrice dei lavori nel Meridione era interamente settentrionale e settentrionali erano anche i progettisti, i tecnici e addirittura buona parte degli operai (di questo appalto e delle vicende, quasi surreali, che lo hanno riguardato ci occuperemo nel capitolo X). In altre parole, indipendentemente dal luogo nel quale fu impiegato il danaro, il profitto in vario modo prese la strada del nord. Lo stesso meccanismo venne replicato con i lavori per il Risanamento di Napoli, ma per quanto riguarda le opere pubbliche nell’ex regno borbonico così andavano le cose in tutti i settori.

Solo per la costruzione delle strade l’importo investito nel sud fu superiore a quello investito nel resto della nazione. Infatti su complessivi 718 milioni, 175 ne andarono al nord, 101 alle regioni del centro, 280 alle regioni meridionali, 100 alla Sicilia e 62 alla Sardegna. Si tratta, però, di un’anomalia facile da comprendere. Bisognava fare in modo, infatti, che le merci degli imprenditori settentrionali arrivassero velocemente in tutti i principali centri della penisola.

Tratto dal capitolo VII de LA STORIA DELL’ITALIA UNITA Ciò che è accaduto realmente nel Sud dopo il 1860 (pubblicato e distribuito da Amazon)

di Enrico Fagnano

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