Legittimismo, insorgenza e brigantaggio antiunitari in capitanata
Il Convegno, di cui si riportano di seguito le memorie dei relatori, si è tenuto in Lucera il giorno 18/01/2003. Gli argomenti trattati e nello specifico i fenomeni di insorgenza in terra di Capitanata, hanno riscosso grande successo di pubblico e significativa risonanza sugli organi di stampa.
Gli studi che hanno affrontato il tormentato passaggio della Capitanata, come di tutta l’Italia del Sud, dal regno delle Due Sicilie al regno d’Italia nel 1860-61, sono stati generalmente condizionati da un pregiudizio di natura ideologica che ha finito per falsare il quadro d’insieme. Due grandi correnti storiografiche hanno, sino ad oggi, egemonizzato il dibattito storiografico: l’una di stampo idealistico-liberale, che possiamo identificare nella tesi crociana, ha giustificato il cosiddetto “risorgimento” in quanto momento “vivificante e di rigenerazione della nuova Italia”; l’altra, di stampo marxista, che possiamo identificare in una tesi per tutte, la gramsciana, ha voluto sottolineare l’assenza più totale di una strategia politica del processo “risorgimentale”. Gramsci, in realtà era interessato a tale tesi al solo fine di esaltare le rivolte successive le quali dovevano apparire come rivolte di classe, degli ultimi, dei contadini, contro tutto e contro tutti. I contadini, perciò, assurgevano ad unico elemento della società civile giunto alla piena maturazione di classe e quindi alla consapevolezza della propria forza e del proprio ruolo. Una terza interpretazione storiografica fu la cattolica, di cui si fecero paladini, nel tempo in cui gli avvenimenti si svolgevano, i religiosi che realizzarono la rivista “La Civiltà Cattolica”. Questa tesi è stata a lungo emarginata pur producendo elaborazioni storiografiche di notevole spessore che non sono state raccolte dalla maggior parte degli studiosi. Essa recupera il patrimonio storico ed ideale del regno delle Due Sicilie; intravede nella sua caduta un cammino ideologico guidato da forze estranee alla storia del regno e giustifica il successivo brigantaggio come legittima difesa del Sud.
La Capitanata
La Capitanata costituiva una delle dodici regioni storiche del regno delle Due Sicilie e corrisponde all’attuale provincia di Foggia. Essa prende il nome da “Catapano”, il funzionario amministrativo che la governava al tempo bizantino. Tuttavia, nonostante il nome, che la collegava idealmente a Bisanzio, nella Capitanata si svolsero eventi storici fortemente decisivi per la storia della monarchia meridionale. Volendo citare un significativo episodio per tutti, è doveroso ricordare che Melo di Bari si recò in pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo, sul Gargano, per chiedere l’intercessione dell’Arcangelo Michele affinché la sua terra fosse liberata dalla dominazione bizantina. Nel santuario incontrò un gruppo di cavalieri normanni saliti sul Gargano per omaggiare l’Angelo. Melo invitò i cavalieri in Puglia per combattere i bizantini. Da questo lembo di terra della Capitanata nacque, dunque, l’incredibile avventura normanna che più tardi doveva originare una storia plurisecolare.
Il regno
La notte di Natale del 1130, il principe Normanno Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia, Calabria e Sicilia, viene incoronato Re nella cattedrale di Palermo. Da questo momento il Sud conosce una storia unitaria che si rinnoverà attraverso dinastie diverse per concludersi traumaticamente nel 1861. Sette secoli abbondanti, durante i quali in Capitanata, come nelle restanti provincie del Regno delle due Sicilie, popoli distinti si identificheranno nella dinastia regnante.
A questo punto sorge spontanea una domanda. E’ possibile che dopo sette secoli di storia comune, in Capitanata, come altrove, al Sud, quell’antico sentimento di fedeltà alle istituzioni della propria casa, non avesse prodotto alcun frutto? Possiamo sostenere che la pianta del legittimismo fosse restata sterile? Le due correnti di pensiero con le quali abbiamo introdotto l’argomento parrebbero confermare l’ipotesi. Ma dobbiamo rilevare che essi nascono all’indomani della caduta del regno meridionale e sviluppano delle tesi comunque in sostegno della nuova Italia. Anzi ne sono parte fondante. Per tale storiografia il passato è studiato e presentato in termini esclusivamente negativi: una negatività che trova il massimo responsabile nel mondo “borbonico”. Ora il termine “borbonico” diviene la quint’essenza di ogni male; la causa prima dell’arretratezza meridionale e, al tempo stesso, la conseguenza di tutte le sciagure. E fra tutti i sovrani della monarchia borbonica, il suo penultimo re, Ferdinando II, viene individuato per essere vituperato oltre ogni legittima critica.
Ferdinando II
Vi è una ragione profonda che spiega la demonizzazione di Ferdinando II. Il sovrano, dopo varie vicissitudini che avevano spinta la politica del regno verso un’economia contraddittoria dovuta, prima, all’occupazione del decennio francese e, successivamente, all’occupazione austriaca in seguito alla rivoluzione del 1821, aveva dato una vigorosa stabilità facendo sviluppare per la prima volta un’economia nazionale basata sull’industrializzazione del regno. Ferdinando II era riuscito a far sviluppare una nuova piccola borghesia a lui molto fedele. Il nuovo ceto cresceva e prosperava andandosi ad affiancare al vecchio ceto agrario che aveva consolidate le proprie fortune durante il decennio francese (1806-1815). Il nuovo ceto era costituito da piccoli artigiani, da tessitori, da modesti imprenditori navali che avevano allestito cantieri di piccolo cabotaggio nei mille porti del regno che andavano nascendo lungo le coste. Per la prima volta erano sorti macchinisti nazionali destinati a governare la nascente marineria a vapore, usciti dalla scuola di Pietrarsa. Lo sforzo fu grande e l’intuizione del re brillante, oltre che coraggiosa, se si pensa che fino ad allora le navi erano guidate da macchinisti inglesi che gestivano, in condizioni di monopolio, il traffico marittimo nel mediterraneo. Lo sviluppo di una marina mercantile delle Due Sicilie, fortemente voluta da Ferdinando II come premessa allo sviluppo successivo del Paese, soprattutto affrancata dall’Inghilterra, determinò la condanna a morte della nostra nazione. L’Inghilterra in quell’epoca, attraverso la politica del libero scambio, di cui deteneva il monopolio, era interessata ad introdurre in tutti i paesi del mediterraneo il liberalismo, di cui il libero scambio costituiva la struttura economica portante. Inoltre erano già allo studio i piani che avrebbero condotto all’apertura del canale di Suez, avvenuta qualche decennio più tardi. Il canale di Suez avrebbe comportato l’ulteriore esportazione della dottrina liberale e del libero scambio.
Sulla base di tali presupposti è logico comprendere che l’Inghilterra non poteva tollerare la presenza, nel cuore del mediterraneo, di un paese libero e non allineato alle tendenze politiche egemoni del momento. Nacque perciò la demonizzazione di Ferdinando II e del suo regno che, attraverso una concentrata campagna di stampa fatta a livello internazionale, divenne il “paradiso dei diavoli” secondo una pessima espressione di Edmondo Cione o, più esattamente, “la maledizione di Dio eretta a sistema di governo” secondo la perfida ed interessata definizione di lord Gladstone.
Il legittimismo
In Capitanata non furono estranei sentimenti di autentica devozione verso Ferdinando II e di effettivo attaccamento all’istituto monarchico. Del resto Ferdinando II ricambiò tali sentimenti soggiornando spesso nelle tenute di Tressanti e di Santa Cecilia. Raffaele De Cesare ricorda ne “La fine di un regno” che i foggiani: “consideravano Ferdinando II quale uno de’ loro, perché era andato più volte alla famosa fiera di maggio, in borghese, con stivaloni e con grossa mazza ad uncino, a comprar cavalli e a vendere i prodotti delle sue tenute di Tressanti e di Santa Cecilia. Egli, che ci teneva ad essere un latifondista del Tavoliere, conosceva quasi tutti a Foggia, vi stava con grande fiducia e aveva preso a voler bene al brigadiere dei gendarmi, certo Fujano, borbonico furente”1. Significativamente entusiasmanti furono i festeggiamenti che la Capitanata offrì allo stesso sovrano nel suo ultimo viaggio in terra di Puglia, effettuato nel gennaio 1859, andando incontro a Maria Sofia di Baviera, promessa sposa del duca di Calabria Francesco. E’ sempre De Cesare che ci ha tramandato i particolari del viaggio. Il Re attraversò il vallo di Bovino sotto una tormenta di neve. Era già sofferente di quell’ulcera che di lì a pochi mesi lo avrebbe portato alla morte. Alla salita di Camporeale, le carrozze furono svuotate e fatte passare così. All’ingresso della Capitanata, dove si ergono le montagne di Greci e di Savignano trovò ad omaggiarlo le autorità dei comuni del Vallo, le guardie urbane, le bande musicali e tanta folla giunta per acclamarlo. Al primo cambio postale presso Montaguto gli andò incontro l’Intendente della Capitanata, don Raffaele Guerra, il comandante militare ed altre autorità provinciali. Proseguendo il viaggio incontrò lungo la via deputazioni dei comuni vicini. Gli stendardi bianchi allietavano il percorso del corteo reale. Su ognuno di essi si leggeva il nome della rispettiva comunità con la scritta Viva il Re. Al ponte di Bovino vi fu un nuovo cambio di cavalli; a Pozzo d’Albero nuovo incontro, tra una moltitudine di folla plaudente. Gli architetti Rossi e Recupito avevano preparato fastosi addobbi: un arco trionfale sorgeva al principio di corso Napoli, detto successivamente corso Garibaldi. Era un arco grandioso, coronato da statue rappresentanti il genio borbonico nell’atto di coronare la giustizia e la virtù. Un altro arco si innalzava sulla via di Cerignola ed un tempio fu edificato vicino al palazzo dell’Intendenza, dove prese alloggio la famiglia reale. Su questo tempio, prosegue il De Cesare, erano dipinte sopra trasparenti le immagini dei Sovrani Ferdinando II e Maria Teresa. Vi era anche la seguente epigrafe:
A Sua Real Maestà
Ferdinando II Re del regno delle Due Sicilie
Monarca e padre augusto clementissimo
Foggia
Glorificata da un avvento sospirato memorando
Colma d’ineffabile gratitudine
L’omaggio avito di sua devota sudditanza
E d’incrollabile fede
Tributa reverente.
Ad attendere il sovrano si presentarono tutte le autorità della città; il sindaco, Vincenzo Celentano; il capo squadrone delle guardie d’onore, Gaetano della Rocca; il capo delle guardie urbane, Francesco Paolo Siniscalco. Vi era poi al completo la commissione dei festeggiamenti: Alessio Barone, Gaetano de Benedictis, Antonio Branca, il marchese Saggese, Lorenzo Scillitani ed il notaio Andrea Modula.
Il corteo reale entrò da porta Napoli. Sotto il primo arco erano ad attendere il Re le altre autorità, assieme al vescovo Berardino Frascolla, al clero ed alle confraternite. I sovrani, i principi reali ed i nobili componenti il seguito baciarono la mano del vescovo. Dopo l’omaggio, tutto il corteo si recò verso la cattedrale. All’entrata, il Re fu ossequiato dai vescovi di Sansevero e di Lucera. Sull’altare maggiore fu collocato il quadro della Madonna dei Sette Veli, protettrice della Città. Il re prese posto, assieme al seguito reale, sotto un ricco baldacchino dorato, retto da otto decurioni. Tutti si inginocchiarono e fu cantato il Te Deum a piena orchestra. Al termine della solenne cerimonia religiosa, il corteo reale si recò al palazzo della dogana, in mezzo a tripudi di folla.
Ma lasciamo la parola a De Cesare che potè raccogliere informazioni dalla voce di molti che avevano assistito alla visita di Ferdinando II a Foggia. “Dalla chiesa al palazzo della dogana, dov’è anche oggi la prefettura, fu un cammino trionfale in mezzo a tutta la popolazione stranamente esaltata. Saliti che si fu nell’appartamento, le ovazioni non cessarono. Il re dovette ringraziare dal balcone, che guarda la piazza san Francesco Saverio, mentre la regina rimase dietro i vetri”2. Durante il soggiorno a Foggia, il Re firmò un decreto di condono per coloro che avevano violate le leggi del regno. Furono ridotte le pene, condonate le ammende, ma furono esclusi dalla sovrana clemenza gli imputati ed i condannati per furto, per falso, per frode, per bancarotta e per reati forestali. In pratica e paradossalmente, ma non poi più di tanto, il Re demonizzato dal liberalismo e dagli unitari, aveva graziato i cospiratori politici lasciando nelle mani della giustizia tutti coloro che avevano commesso reati contro il patrimonio.
Era costui un tiranno? Non ci sembra proprio. Facendo questa scelta il re testimoniava il suo affetto per i sudditi e trascurava la capacità distruttiva dei suoi nemici. Eppure questo Re è passato alla storia come tiranno e nemico degli interessi della Nazione. Oggi, ad oltre 150 anni dalla sua morte, possiamo finalmente avvicinarci al ristabilimento della verità e rendere giustizia alla memoria di un sovrano che meriterebbe di essere appellato “padre dei suoi popoli” nonché “governante saggio ed illuminato”.
La borghesia dei “galantuomini”
In Capitanata, ma il discorso potrebbe coinvolgere l’intero Meridione d’Italia, nel corso di tutto il XVIII secolo e nei primi tre decenni del secolo successivo, si perfezionarono i caratteri, si misero a fuoco gli obiettivi, si concretizzarono gli interessi pratici di un particolare ceto sociale: quello della borghesia dei “galantuomini”. Costoro già alla fine del ‘700 si erano schierati con i giacobini non in nome di grandi ideali ma per interessi egoistici, al fine di usurpare le terre già feudali e demaniali. Con la successiva occupazione francese (1806 – 1815) si determina la totale francesizzazione delle mentalità di costoro. In cambio essi ricevono enormi estensioni terriere. Come è potuto avvenire tutto ciò è presto detto. Le leggi eversive della feudalità promesse dai napoleonidi avrebbero dovuto sancire l’abolizione del sistema feudale, la conseguente espropriazione di vaste estensioni di terre che appartenevano agli antichi baroni ed alla manomorta ecclesiastica e l’assegnazione ai comuni i quali dovevano distribuire queste terre, in piccole quote, ai contadini dietro pagamento di un canone annuo. In Capitanata veniva abolita anche la Dogana delle Pecore e si censiva il Tavoliere. Contrariamente alle attese, queste terre vengono trasformate in proprietà private restando nelle mani delle vecchie proprietà ormai da tempo divenute borghesi. Le nuove proprietà ora sono libere da servitù d’uso e dal pedaggio degli usi civici che svolgevano una positiva azione sociale in una economia di sussistenza nei confronti degli strati più poveri della popolazione. I proprietari terrieri ed i grossi allevatori, detentori anche del potere politico nelle civiche amministrazioni, ostacolano, insabbiano e fanno rinviare le operazioni di smantellamento del patrimonio demaniale perché sono interessati a mantenere i demani indivisi e liberi dagli usi civici al fine di sviluppare la pastorizia e sfruttare meglio i terreni. I contadini, i pastori, i piccoli coltivatori subiscono non solo un maggior limite all’utilizzo degli usi civici, ma non ottengono nemmeno i benefici tanto reclamizzati. In molti paesi della Capitanata, il ceto rurale si trova in una tale indigenza da non avere “il coraggio di divenire proprietario col peso di pagare la fondiaria, il canone, ed altre spese comunitative” 3. La segnalazione è dell’intendente della Capitanata al ministro delle finanze Zurlo in pieno regime napoleonide. I pochi agricoltori che riescono ad ottenere un appezzamento di terreno, poiché non dispongono di capitali utili per pagare i canoni e per sostenere le spese di conduzione, sono costretti a ricorrere al prestito usuraio e, per l’accumularsi del debito, ad alienare dopo breve tempo la terra ai detentori della ricchezza finanziaria.
Sempre durante il tempo dell’occupazione napoleonide, fallisce anche il tentativo di dare in enfiteusi le immense terre del Tavoliere. Dopo i primi anni, il terreno si inaridisce e i censuari, costretti ad indebitarsi, non sono in grado di pagare il fisco, quindi lasciano le quote di terra ricevute, che ora vengono acquistate dai grossi proprietari, tanto da ricostituirsi il vecchio feudo.
Il risultato di un decennio di occupazione sarà un profondo odio che dividerà irrimediabilmente i “galantuomini”, nelle cui mani si è concentrato un cospicuo patrimonio fondiario, ed il “popolo”, messo di fronte al fallimento delle proprie aspirazioni.
Con la restaurazione borbonica i “galantuomini”, forti del potere economico che detenevano, ostacolano come possono nuovi tentativi di quotizzazione delle terre demaniali. Ci riescono perché gli amministratori locali sono generalmente loro congiunti o aspirano ad esserlo attraverso matrimoni di convenienza.
Il trasbordo dei galantuomini: da borbonici ad unitari
Ha ragione Matteo Cassa quando scrive: “occorre innanzi tutto sgomberare il terreno da un trito luogo comune diffuso da una storiografia convenzionale ed apologetica, inquinata di romanticismo e di retorica patriottarda: e cioè che nel 1860 vivo fosse nel Mezzogiorno lo spirito unitario ed ardente nelle popolazioni meridionali l’anelito ad unirsi agli altri abitanti della Penisola, cui esse si sentivano legate da vincoli di sangue, di lingua e di religione”4. Per tornare alla Capitanata, oggetto del nostro studio, la realtà dei fatti è in linea con il giudizio sopra riportato. La corrente filounitaria di ispirazione democratica, rappresentata dai vecchi cospiratori del 1848,
è poco cospicua anche se ambisce ad attrarre nella sua orbita le masse contadine e rurali attraverso un programma avanzato di trasformazione economica e sociale del Paese. Nel giugno del 1860 in Capitanata i segni di inquietudine sono pochi; anche se gli echi dello sbarco di Garibaldi in Sicilia già si fanno sentire. Il nuovo intendente della provincia, Bernanrdo Sanfelice, duca di Bagnoli, esegue scrupolosamente le disposizioni ministeriali. La polizia è allertata e, temendo uno sbarco di uomini o di materiali di propaganda filounitaria, sorveglia i litorali. Ciò nonostante in molte città giungono volantini del seguente tenore: “Napoletani, voi siete figli d’Italia! L’Italia è dal Cenisio all’onde della Sicilia, che ora sono rosse di sangue! Sollevatevi nel nome dell’Italia, nel nome della libertà!”5.
In seguito alla concessione delle libertà costituzionali, da parte di Francesco II, il raggruppamento filounitario radicale di Foggia, di notte, affigge un cartello nei pressi dell’Intendenza incitando il popolo foggiano ad insorgere. Naturalmente l’appello cade nel vuoto ma è sufficiente ad investire di panico le autorità costituite, già psicologicamente sotto pressione e di fatto politicamente isolate. Francesco II, pensando di fare gli interessi del proprio popolo e sotto la pressione della Francia, aveva concessa la costituzione e la libertà di stampa. Aveva anche liberato i detenuti per motivi politici e fatto rientrare i fuoriusciti. Improvvisamente sui giornali, divenuti quasi tutti filopiemontesi iniziò il dileggio e la persecuzione dei funzionari Napoletani che compivano il proprio dovere. La notte del 3 luglio il direttore del Tavoliere Filippo De Rossi abbandona il suo posto e fugge a Napoli. Dopo cinque giorni, è la volta del sindaco Alessio Barone. La sera del 9 luglio fugge a Lucera e di qui a San Marco in Lamis il vescovo di Foggia, mons. Bernardino Frascolla. A suo carico si attribuiva la sospensione a divinis di alcuni sacerdoti rei di professare idee liberali. Il 12 luglio anche l’Intendente della provincia, duca di Bagnoli, dopo aver saputo della cattura di un figlio nelle acque della Sicilia, manifesta una arrendevolezza verso i raggruppamenti filounitari. Ma nonostante i cedimenti, che fungono da cattivo esempio per i restanti, fedeli, servitori dello Stato, il comitato insurrezionale non riesce a far di meglio che caotiche quanto sterili chiassate di piazza. La situazione si evolve in senso rivoluzionario, ma sempre senza le masse popolari che restano estranee al processo unitarista, quando i radicali stringono un’alleanza strumentale con il ceto agrario sino a subirne l’iniziativa politica. I ricchi possidenti entrano in massa nel movimento liberale per controllarlo e per impedire eventualmente la trasformazione delle strutture economiche della provincia. A questo punto i liberali escono allo scoperto divenendo sempre più audaci nei confronti delle autorità costituite. A San Severo costringono alla fuga il commissario di polizia; a Foggia il 31 luglio impediscono di festeggiare in forma solenne il genetliaco della regina madre Maria Teresa; il 5 agosto, i liberali ottengono l’espulsione del conte Gaetani, colonnello di cavalleria, perché tacciato di essere una spia borbonica. Stessa sorte tocca al marchese Orazio Cimaglia ed al genero, Nicola Delli Santi. La sera del 16 agosto viene oltraggiato e malmenato il colonnello Rispoli, comandante militare della provincia. Costui, il giorno dopo, abbandona la città. Il 17 agosto anche il duca di Bagnoli si allontana da Foggia con la famiglia e si reca a Bovino Il suo posto sarà preso dal consigliere decano dell’Intendenza Pietro De Luca, confermato intendente della Provincia dal Ministero in seguito al rifiuto di rientrare a Foggia del Bagnoli. Da San Severo viene espulso il consigliere d’Intendenza Giuseppe Della Rocca, similmente al vescovo di quella diocesi, Antonio La Scala, che viene ferito ad un braccio da un colpo di fucile. A Lucera, ancora, si ordina l’espulsione dei gesuiti, insegnanti in un liceo e si attenta alla vita del maggiore Candida. L’ondata rivoluzionaria, che ricorda il furore giacobino di altri tempi, esercitata da una esigua minoranza di uomini fanatizzati, avviene sotto gli occhi impassibili della borghesia agraria, che lascia sfogare gli elementi della corrente radicale, pur attenta a che non vengano presi di mira i propri interessi. Con la corruzione del maggiore di cavalleria Maresca, comandante dei due squadroni del 2° dragoni di stanza a Foggia, si fanno ammutinare i sottoposti; ne consegue il loro rifiuto a muovere contro i rivoluzionari della Basilicata che hanno proclamato un governo dittatoriale. Ma, ancora, nonostante tante prove di prepotenza, i filounitari non riescono a giungere all’insurrezione. La Guardia Nazionale, allestita a Foggia, come nel resto del regno, in seguito alle concessioni costituzionali fatte da Francesco II, diviene l’elemento armato garante degli interessi della proprietà fondiaria ed essa rappresenterà in seguito l’elemento preso di mira, per eccellenza, dalle insorgenze popolari.
L’insofferenza popolare ed il crollo del regno
Il clima che si respira in Capitanata sul finire di agosto del 1860 è altamente esplosivo. Gli schieramenti si vanno delineando in dettaglio ed i partiti si contrappongono. Al movimento dei latifondisti, unitisi tatticamente ai democratici, entrambi sostenitori di una soluzione unitarista, con casa Savoia sul trono al posto del Borbone, si contrappone il partito delle plebi, dei diseredati, degli eterni delusi dalle mille suggestioni demagogiche. Costoro sostengono Francesco II e la monarchia nazionale napoletana. Dalla soluzione che si va prospettando, mentre i garibaldini risalgono la penisola, non hanno nulla da guadagnare, anzi tutto da perdere. I ceti più deboli da sempre hanno una protezione naturale dalla corona: l’unica istituzione che si è sempre fatta garante dei loro bisogni. E perciò, istintivamente, sono schierati in sua difesa.
Il 12 agosto scoppia un moto popolare a Montefalcone ed i contadini occupano le terre usurpate, gridando Viva Francesco II. I promotori della manifestazione vengono arrestati. Ma il giorno 15 a Ginestra vi è una vera e propria sollevazione. Gli episodi si ripetono a Panni e a Castelfranco. Nei primi giorni di settembre gli stessi episodi si ripetono a Faeto, a Savignano, a Montefalcone. Il 1° ottobre scoppia una rivolta popolare a Volturara. Altrettanto avviene sul Gargano. L’insurrezione coinvolge San Giovanni Rotondo e San Marco in Lamis. La rivolta più grave avviene a Bovino. Qui il 19 e 20 agosto le masse locali si danno appuntamento davanti al duomo e dichiarano apertamente di non voler più pagare i tributi. Verso sera il Vescovo, monsignor Giovanni Montuosi, durante la predica, rivolgendosi al popolo, afferma: “Avete ragione, figli miei, siete oppressi, avete ragione”6. Confortato dalle parole del vescovo, il popolo insorge. Interviene la Guardia Nazionale per cercare di disperdere la folla. Intanto un barbiere, tale Vito Melfi, di sentimenti liberali, tolto un fucile dalle mani del figlio di una Guardia Nazionale, secondo la versione ufficiale dei fatti, spara un colpo in aria. Gli insorgenti pensano che si voglia attentare alla vita del vescovo, che è affacciato al balcone dell’episcopio, e si scagliano sui militi, disperdendoli.
Il 19 agosto a Bovino, le cose non vanno diversamente. Qui sono di stanza i gendarmi comandati dal capitano Barra – Caracciolo, di sentimenti legittimisti. Nel giorno dell’insorgenza, i gendarmi non intervengono per sostenere la Guardia Nazionale o per reprimere i moti di piazza. Anzi, stando ai resoconti giacenti nell’archivio di Stato di Foggia, sezione di Lucera, il Barra – Caracciolo chiama i gendarmi e grida “Viva Francesco II, abbasso la costituzione” poi rivolgendosi ai dimostranti li esorta a cacciare i galantuomini7. In breve gli insorti sono padroni del paese: vanno alla ricerca del barbiere che aveva sparato i colpi di fucile. Lo trovano nella sua bottega e lo uccidono. Il furore per i patimenti sofferti non fa ragionare la folla. Essa vuol distruggere le abitazioni di coloro che si sono arricchiti con l’usura e le usurpazioni. Il sacerdote don Annibale Reale guida le masse popolari. E’ assalito il magazzino di Michelangelo Cera. Dalla casa del Cera si spara ed un insorgente, Nicola Venuto, viene colpito a morte. Si passa all’abitazione di Vincenzo Masciello, un ricco proprietario. La casa fa resistenza e viene sottoposta ad un nutrito sparo di fucili. Un proiettile uccide il Masciello. Per tutta la notte e nel giorno seguente gli insorgenti, padroni del campo, sfogano l’odio, accumulato in anni di angherie, contro i galantuomini. Si fanno consegnare le armi, saccheggiano ed incendiano le case ed i magazzini dei notabili, ma non si registrano altri fatti di sangue.
Il mezzogiorno del giorno 20 giungono 75 gendarmi da Foggia e dal Vallo. Tra loro vi è l’Intendente ed il sottointendente. Gli insorti di Bovino, assieme al reparto di gendarmi del Barra – Caracciolo, vanno incontro alla Guardia Nazionale per fermarla. All’alba del 21 giunge in soccorso della Guardia Nazionale uno squadrone di cavalleria comandato dal capitano Ernesto Acton. Esso riesce a penetrare nel paese, soffocando ogni resistenza. Viene proclamato lo stato d’assedio e disarmati i capi dell’insurrezione.
Il 7 settembre giunge in Capitanata la notizia che Garibaldi è entrato in Napoli e che il re Francesco II si è ritirato a Gaeta. I Galantuomini ed i liberali scendono per le strade con la coccarda tricolore al petto, inneggiando a Garibaldi ed a Vittorio Emanuele. La massa della popolazione, al contrario, assiste passiva agli eventi, preoccupata del potere che continua ad accumularsi nelle mani dei galantuomini.
L’11 settembre giungono a Foggia i primi decreti dittatoriali. Vengono licenziati i funzionari governativi fedeli a Francesco II e si procede al giuramento dei restanti verso il nuovo regime e lo Statuto sardo, promulgato come legge fondamentale dello Stato. Il 17 settembre è destinato a Foggia, in qualità di governatore, Giuseppe Ricciardi, che rifiuta ed al suo posto, il 26 dello stesso mese, giunge Gaetano Del Giudice da Piedimonte di Alife. A fine settembre, senza che vi sia stata alcuna sollevazione della Capitanata in direzione filounitaria, il governo garibaldino è pienamente padrone della situazione.
L’insorgenza
La causa della rovesciata monarchia trova immediatamente dei sostenitori in ogni angolo della Capitanata. Ora il nemico è al potere e lo scontro diviene aperto e violento. In verità, tale scontro, latente nei mesi di luglio ed agosto, avendo assunto a volte forme violente in alcuni paesi, ora trova maggiori ragioni per diventare più radicale. Chi sono gli uomini legati alla rovesciata monarchia delle Due Sicilie? Gli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, il clero diocesano, i vecchi dirigenti ed i funzionari governativi licenziati (giudici, cancellieri, ricevitori delle imposte, capi urbani e gendarmi, veterani, stipendiati e pensionati dello stato) ed anche possidenti terrieri lealisti che non hanno effettuato il trasbordo ideologico dei galantuomini. Con loro, per scelta naturale e non di convenienza, vi sono le masse rurali che già hanno dato un assaggio della loro potenzialità aggressiva. Il Re, che resiste da Gaeta, è un incitamento a combattere per liberare il regno dall’occupazione garibaldino-piemontese e dai suoi sostenitori. La rivoluzione unitaria è sempre un evento eversivo agli occhi dei lealisti e ciò induce a far prevalere le ragioni dell’insorgenza. Sino all’uscita del re da Napoli, le rivolte della Capitanata, come quelle delle restanti regioni del Sud, sono state istintive; ora assumono un nuovo aspetto perché costituiscono la risposta del paese reale al legalismo filounitario.
Dalla fine di settembre in tutta la Capitanata si ripetono manifestazioni in sostegno di Francesco II. Ad Apricena, la sera del 28 settembre, si raccoglie una moltitudine di persone che, gridando “Viva Francesco II, a morte Garibaldi”, percorre il paese. Interviene la Guardia Nazionale che disperde circa 500 persone, procedendo all’arresto dei capi. Una manifestazione dello stesso genere si svolge il 30 settembre nel comune di San Marco la Catola. Vengono arrestati 8 uomini del posto. Lo stesso giorno si solleva Monte Sant’Angelo. Segue l’esempio il vicino villaggio di Mattinata. Il popolo calpesta e brucia i quadri di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Destituisce le autorità civili e militari e, secondo le leggi delle Due Sicilie, ricostituisce la Guardia Urbana. Accorrono i dragoni che arrestano 47 capi della rivolta. Ai primi di ottobre è la volta di Peschici ove l’insorgenza è soffocata dalla Guardia Nazionale di Vieste accorsa tempestivamente, unitamente alla colonna mobile Garganica, un raggruppamento armato costituito da una settantina di uomini e comandato da Vincenzo Tondi di San Severo e fortemente voluta dal nuovo governatore della Capitanata, Del Giudice, per reprimere le insorgenze del Gargano. E’ la volta di Vico. Si comincia a notare che un po’ dovunque, a capo delle rivolte vi sono i cosiddetti “soldati sbandati. Costoro sono i giovani chiamati alle armi nell’esercito delle Due Sicilie. Quando i reparti sono stati sciolti, in seguito al crollo dell’esercito regio, essi sono stati rimandati alle proprie case. Nei loro cuori vi è la consapevolezza di quanto sta accadendo. Avrebbero voluto combattere, ma non ne hanno avuta la possibilità. La minoranza che è riuscita ad essere presente sul Volturno, in quei giorni sta dando prova di coraggio, lealismo e sincero eroismo, anche se quest’ultimo valore non è mai stato riconosciuto dalla nuova Italia. A Vico, 4.000 persone scendono in piazza gridando, come altrove, “Viva Francesco II, a morte Garibaldi” e bastonano alcuni malcapitati che portavano sul petto la coccarda tricolore.
A San Marco in Lamis, il 7 ottobre le autorità proibiscono la processione della Madonna del Rosario per paura di un tumulto popolare. Ma ciò che non avviene al mattino, avviene alla sera. Un gruppo di bambini, sventolando fazzoletti bianchi che ricordano la bandiera biancogigliata delle Due Sicilie, percorrono le strade del paese. L’innocente corteo si ingrossa con uomini e donne. In breve è l’insorgenza. La Guardia Nazionale abbandona il corpo di guardia e fugge dal paese. Gli insorti si impossessano delle armi, distruggono le suppellettili e le bandiere e rimettono ai loro posti i ritratti di Francesco II e Maria Sofia. Nelle movimentate ore dell’insorgenza è ferito mortalmente il sarto Angelo Calvitto, di sentimenti liberali, reo di non aver voluto gridare viva il re. Ma il giorno dopo una forza mobile si concentra a San Giovanni Rotondo per stroncare l’insorgenza.
Simultaneamente manifestazioni di legittimismo avvengono ovunque, anche fuori dal Gargano ed in tutta la Daunia. A Casaltrinità, l’odierna Trinitapoli, il 6 ottobre si sparge la voce che Francesco II è tornato a Napoli. Il popolo, abbandonate le campagne piene di gente per la vendemmia, percorre le strade cittadine gridando “Viva Francesco II”. Sedata l’insorgenza, vengono arrestate sette persone.
La sera del 7 ottobre a San Paolo di Civitate una massa di uomini e donne, munita di scuri e di bastoni, preceduta da Michele Meschiti che porta una bandiera bianca, va gridando per il paese “Viva Francesco II”. Viene assalito il corpo di guardia, abbattute le nuove insegne e ripristinati i ritratti dei sovrani napoletani. Negli scontri che seguono muore Giuseppe Alberino che si era schierato con i liberali. L’insorgenza viene domata dalle Guardie Nazionali accorse da San Severo. A Biccari avvengono fatti più gravi. Dal 14 al 16 ottobre si sviluppa una sommossa organizzata da alcuni soldati napoletani sbandati, rientrati alle famiglie. Essi scendono in piazza seguiti da molti popolani. Gridano “Viva Francesco II” e sono muniti di armi da fuoco. Una pattuglia della Guardia Nazionale cerca inutilmente di disperderli. Ormai padroni del paese, iniziano a vessare i galantuomini locali. E’ devastata la bottega del sergente della Guardia Nazionale Francesco Tummolo; è poi la volta dell’abitazione di Pasquale Pescrilli, un negoziante che aveva alzato i prezzi nell’ultimo rigido inverno trascorso. Il giorno seguente, temendo il sopraggiungere della Guardia Nazionale, si rinforzano le difese del paese. Il giorno 16 le autorità liberali della Capitanata ingiungono il disarmo, ma tutto è inutile. Il giorno 17 trascorre tranquillo. Il 18 si parlamenta nel bosco di Santa Maria. Il giorno 19 il procuratore del re entra in Biccari e provvede al disarmo e all’arresto dei fautori della sommossa.
Il plebiscito
In questo clima, che assume tutti i connotati del momento politico preinsurrezionale, si giunge al plebiscito. Con decreti dei giorni 8 e 11 ottobre del profittatore Pallavicino, si fissava il plebiscito per le province continentali dell’Italia meridionale per la domenica 21 ottobre. Il popolo che aveva formato il regno delle Due Sicilie doveva accettare o respingere con un “SI” o con un “NO” la seguente volontà: “Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele, Re Costituzionale, e suoi legittimi discendenti”. Il voto doveva essere espresso su una scheda prestampata raccolta in tutti i comuni da apposite giunte composte dal Sindaco, dal Decurionato e dal Comandante della Guardia Nazionale. Il 17 ottobre, in ogni centro abitato si affiggono le liste di coloro che, avendo 21 anni e trovandosi nel pieno godimento dei diritti civili e politici, dovevano intervenire al plebiscito. Il plebiscito si svolge in un clima fortemente fazioso. Il voto non è assolutamente segreto perché chi votava per il “SI”, vale a dire per l’annessione delle Due Sicilie al Piemonte, doveva inserire la scheda nell’urna dei “SI”, chi rifiutava l’annessione doveva mettere la scheda nell’urna dei “NO”. L’arbitrio era stato voluto dal governo piemontese. Infatti l’articolo 4 del decreto 8 ottobre 1860 stabiliva che tre urne dovevano essere poste su un tavolo. Una delle quali, vuota, nel mezzo e le altre due, piene di schede, ai lati. Una conteneva le schede di carta bianca col “SI”, l’altra le schede di carta rosea col “NO”. L’elettore, accettando o respingendo la formula plebiscitaria, doveva estrarre la scheda da una delle due urne laterali, deponendola in quella di mezzo.
Domenica 21 ottobre, giorno del plebiscito, in molti comuni della Capitanata, i comitati legittimisti riescono a promuovere violente manifestazioni che impediscono la legalizzazione del regime unitario. Non si vota nei comuni di Accadia e Castelfranco; a Poggio Imperiale e a Panni si hanno maggioranze contrarie all’annessione; ad Ascoli Satriano su 1210 aventi diritto al voto, si recano alle urne in 528 e a Roseto in 63. A San Marco in Lamis nessun elettore si presenta alle urne per cui il plebiscito non ha luogo. A Cagnano scoppia una violenta sommossa popolare ed il plebiscito non ha luogo. A San Giovanni Rotondo i soldati sbandati organizzano una sommossa e riescono ad impedire lo svolgimento del plebiscito. Negli scontri che seguono muoiono 22 “galantuomini”.
Il 29 ottobre, a Foggia, nel clima insurrezionale descritto, sia pure a grosse linee, una giunta provinciale procede all’apertura delle schede dei comuni di Capitanata che hanno portato le urne. Si verbalizza che mancano le urne dei comuni di San Giovanni Rotondo, S. Marco in Lamis, Cagnano, Accadia e Castelfranco. Ma in quei giorni, sedate le rivolte, si vota anche in questi comuni per cui alla fine delle operazioni la Capitanata esprime i seguenti voti: 60.062 per il “SI” e 1005 per il “NO”.
La repressione del dissenso
Il governatore della Capitanata, preoccupato per la crescente opposizione all’unità, più che appagato dal successo delle urne, chiede al Ministro dell’Interno e di Polizia i pieni poteri. Ottenutili, il 26 ottobre con un proclama ai cittadini della Capitanata annuncia l’assunzione dei pieni poteri per ristabilire la “legalità”. Stabilisce la fucilazione immediata per i rei di uccisione, ordina la presentazione entro il 3 novembre dei soldati sbandati, pena il considerarli disertori con la conseguente sanzione prevista dallo Statuto penale militare. Al clero, infine, intima di attenersi esclusivamente all’espletamento delle funzioni religiose.
La mattina del 25 ottobre il generale Liborio Romano, omonimo del discusso ministro di Polizia, d’accordo col governatore, con una imponente forza, si dirige da Foggia a Rignano per muovere poi contro i comuni “ribelli” di San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo e Cagnano. Il 27, una deputazione di religiosi e di “galantuomini” si reca a Rignano dal generale Romano per offrire la resa. Il Romano pretende il disarmo generale, lo svolgimento del plebiscito ed una somma per i danni subiti dalla truppa. Il popolo di San Marco in Lamis intende respingere le condizioni, ma l’intervento di uno dei capi della sollevazione, il pastore Agostino Nardella, induce tutti a più miti consigli ed il popolo depone le armi. Avvenuto il disarmo, la brigata Romano entra in San Marco in Lamis. Si procede al plebiscito che da il seguente risultato: 3.032 voti per il “SI”, nessun voto per il “NO”. Lo stesso giorno il generale Romano, d’intesa con il governatore Del Giudice, impone al paese una tassa di 6.000 ducati per le spese di guerra. Il 29 ottobre il generale Romano lascia San Marco in Lamis per occupare militarmente San Giovanni Rotondo. Anche qui il giorno seguente si svolge il plebiscito con 856 voti per il “SI” e 9, coraggiosi o strumentali voti per il “NO”. I soldati “sbandati” e i contadini più poveri subiscono una severa repressione. Un consiglio di guerra formato da ufficiali della brigata Romano e della Guardia Nazionale, riunitosi il 6 novembre nella chiesa di San Giacomo, condanna all’unanimità 13 soldati alla pena di morte mediante fucilazione. Altri soldati e molti contadini vengono condannati a lunghi anni di carcere. Il giorno dopo la sentenza viene eseguita per 10 dei tredici soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie, a questi ultimi la pena viene commutata nei lavori forzati a vita. Il governatore impone al paese una tassa di 10.000 ducati. Il 30 ottobre il generale Romano con i suoi garibaldini si dirige verso Cagnano ove riesce ad avere la meglio sui pochi insorti. Anche qui si ripetono gli stessi programmi: viene svolto il plebiscito che da 426 voti, tutti per il “SI”; è imposta una tassa di guerra di 4.000 ducati, metà sul clero e l’altra metà sulla popolazione. Viene eseguito un indiscriminato numero di arresti in palese violazione delle leggi. Il consiglio di guerra allestito, condanna due contadini alla pena di morte mediante fucilazione ed altri 21 imputati alla pena di 30 anni di carcere. Motivi di opportunità politica internazionale impediscono le due condanne a morte, commutate nei lavori forzati a vita.
Ma gli avvenimenti maggiormente faziosi e crudeli avvengono a Roseto Valforte dove le ultime elezioni politiche avevano portato ai vertici della municipalità la famiglia Capobianco che pensò bene di utilizzare gli ideali del liberalismo per disfarsi dei nemici personali. Anche qui vi erano dei soldati sbandati che il sindaco Capobianco, con minacce ed insulti, vuol richiamare al servizio militare, pena l’arresto. La provocazione era palese perché in materia di richiamo vi era una grande confusione giuridica e legislativa. La questione degli sbandati diviene un chiodo fisso dell’amministrazione comunale. Il 4 novembre, domenica, il figlio del sindaco, Gennaro Capobianco, capo plotone della Guardia Nazionale, si reca con gli armati suoi sottoposti alla casa dei fratelli Zita per arrestare i soldati sbandati che qui avevano trovato rifugio. La casa è chiusa ermeticamente. Una delle Guardie Nazionali spara un colpo verso l’interno dell’abitazione da un foro della porta. Le persone che erano in casa, a questo punto della situazione, escono all’improvviso e con scuri e coltelli si gettano sugli assedianti, ferendone alcuni, compreso il Capobianco. Gli sbandati recuperano le armi da fuoco lasciate dal nemico e assieme ad altri armati accorsi a dar loro man forte hanno la meglio. E’ l’ora dello scontro tanto atteso. Vanno alla ricerca degli altri componenti della famiglia Capobianco e feriscono mortalmente un fratello del sindaco. Il governatore, lo stesso giorno, chiede al generale Romano di inviare sul posto un distaccamento. Il Romano giunge a Roseto la mattina del 6 novembre e si presta subito ad essere strumentalizzato dal Capobianco. La truppa del Romano saccheggia le case dei legittimisti e poi si da alla caccia dei soldati sbandati. Negli scontri resta ucciso il soldato sbandato Giuseppe Zita. Il giorno dopo il Romano istituisce un consiglio di guerra senza comunicarlo al Governatore. E’ una palese illegalità perché viola le leggi del tempo, sia piemontesi, sia napoletane. In seguito alla sentenza emessa, nella stessa sera, il Romano fa fucilare cinque giovani rosetani: Giuseppe Cotturo, Liberato Farale, Leonardo Matrrone, Vito Sbrocchi e Nunziantonio Zita. Dopo aver estorti 5.000 ducati, per tassa di guerra, lascia nella stessa notte il paese. La violazione delle leggi fatta dal Romano induce il governatore Del Giudice a contestare i fatti al generale garibaldino il quale risponde da Avellino gettando più di un sospetto sulla complicità dello stesso governatore.
Origine, sviluppo e tramonto del brigantaggio politico in Capitanata
Fallite le insorgenze dauno – garganiche, sin dai primi giorni di novembre, sotto la spinta del terrore attuato dalle autorità del nuovo regime, non per questo cessa la resistenza antipiemontese ed antiunitaria. Gli oppositori del processo unitario cambiano tattica. Ora si vanno a nascondere nelle fitte boscaglie. Tutti coloro che si vogliono sottrarre alla carcerazione, ai Consigli di Guerra, ai plotoni di esecuzione, devono fuggire dai centri abitati trovando rifugio sugli inaccessibili monti e negli intricati boschi. Così nascono le prime bande armate. Sono prive di cibo e vestiti. Devono razziare le vicine masserie imponendo riscatti sai galantuomini. Le prime bande vengono ingrossate dai soldati borbonici che tornano dal fronte, dall’assedio di Gaeta e di Civitella del Tronto. Essi serbano nel cuore il ricordo di Francesco II. Al ritorno a casa, trovano i paesi cambiati. Si attendevano il pubblico encomio per aver difesa la patria, per aver fatto il proprio dovere anche se era mancata la fortuna finale. Invece trovano una classe politica dirigente che li disprezza, li respinge, li offende, ride e diffida di loro. Braccati come reietti, salgono le montagne e diventano briganti.
La Capitanata, col nuovo regno, sprofonda in una povertà senza precedenti. Muore il commercio; i ricchi “galantuomini” diventano sempre più ricchi con i denari che lo stato elargisce; i poveri diventano nullatenenti. Un ulteriore motivo che determinò l’aumento di uomini che si diedero al brigantaggio fu il decreto regio del 20 dicembre 1860 col quale il governo di Torino richiamò sotto le armi, secondo le modalità della legge napoletana del 19 marzo 1834, gli appartenenti alle leve degli anni 1857, 1858, 1859 e 1860, oltre ai già renitenti. Dovendo scegliere tra una destinazione in regioni lontane e sconosciute e le montagne di casa, la stragrande maggioranza dei giovani della Capitanata scelse la strada della montagna.
Il 19 marzo 1861, da Cagnano, il comandante della locale Guardia Nazionale, Antonio Palladino, invia un rapporto al conte Bardesano, nuovo governatore della provincia, affermando: “I reazionari, segnatamente gli sbandati, colpiti da mandato di arresto, scorrono impunemente le campagne, rubando, incendiando e scannando quanto loro capita innanzi di liberali. Le comitive armate rese forti per la debolezza del paese, ricattano ogni giorno, ora sequestrando persone, ora armenti. Il principio di fanatismo per i Borboni non si è punto spento, il che sovente suscita voci sediziose ed allarmanti da compromettere l’ordine pubblico e la pace dei buoni”8.
Nel 1861 in tutto il montuoso e boscoso Gargano si sviluppa un brigantaggio i cui connotati di rivolta politica antiunitaria sono ben evidenti. Le bande sono già numerose. Nel territorio di Monte Sant’Angelo e Mattinata opera la comitiva di Luigi Palombo; in quello di Vico agiscono le bande di Pietro Iacovangelo, detto il Pezzente, e di Giuseppe Patetto (detto il Generale); le campagne di Rodi sono battute dalla comitiva del vichese Vincenzo Scirpoli; quelle di Apricena dalla compagnia di Nicandro Barone, detto Licandruccio. Nel territorio di San Marco in Lamis agisce la banda di Angelo Maria Del Sandro, detto Lu Zambro; quella di Agostino Nardella (il Pecoraio); di Angelo Raffaele Villani (Recchiamozzo); di Nicandro Polignone (Nicandrone); di Michele Battista (Inconticello) e di Angelo Gravina (Angelone) che agisce con i suoi 5 figli.
Le bande attaccano i paesi innescando violente insorgenze popolari, che si concludono con l’uccisione dei liberali, il saccheggio delle case dei “galantuomini” la liberazione dei detenuti e la distruzione degli archivi comunali. Spesso vengono proclamati governi provvisori borbonici che durano pochi giorni, perché subito repressi dalle forze militari che accorrono al primo allarme. Seguono violente ritorsioni che, comunque, non placano i sentimenti di dissenso. Anzi, le repressioni producono numerose nuove leve che vanno ad alimentare il brigantaggio, reintegrando così le perdite subite.
Mattinata subisce per prima un’invasione di briganti. Qui agisce una comitiva armata formata da ex soldati del regno delle Due Sicilie sfuggiti al richiamo della leva imposta dal nuovo regime. Sono guidati da Luigi Palombo, un ex soldato che ha assolto agli obblighi di leva. Nei primi giorni di maggio del 1861 costoro invadono il paese al grido di “Viva Francesco II” e con alla testa una bandiera biancogigliata. Si impossessano delle armi della Guardia Nazionale e passano, casa per casa, per il disarmo degli abitanti. Poi strappano lo stemma dei Savoia e quindi si ritirano in campagna. Ma ora contro i briganti non intervengono più esclusivamente le forze militari locali. Entra in campo la fanteria dell’eserrcito italiano.
Il 2 giugno, una domenica piena di sole, viene invasa San Marco in Lamis. Qui i liberali stanno per festeggiare per la prima volta la festa dello Statuto. Giungono 50 uomini a cavallo che, dopo aver bloccate le vie di uscita dal paese, al comando di Angelo Maria Del Sambro, Agostino Nardella e Nicandro Polignone, seguiti da tanti soldati sbandati, entrano nel centro gridando “Viva Francesco II, Viva Pio IX°” tra gli applausi della popolazione. Viene assaltato il corpo di guardia della milizia nazionale e distrutto il ritratto di Vittorio Emanuele. Viene abbattuto anche l’altarino preparato per celebrare lo Statuto. Vengono quindi attaccati i soldati presenti. Uno viene ucciso, gli altri imprigionati. Passano successivamente a rastrellare le armi casa per casa, ed impongono l’esposizione di bandiere bianche. Il giorno seguente attaccano la casa Tardio, l’unica ad opporre resistenza, dove hanno trovato rifugio il capo famiglia, medico Giuseppe Tardio, comandante della locale Guardia Nazionale, dieci soldati e tre guardie mobili. Con la complicità di un paesano che era nella casa, i briganti entrano nella stalla e di qui passano nella casa di Tardio. Procedono al disarmo, arrestano i soldati ed uccidono le tre guardie mobili perché quel corpo è da loro ferocemente odiato.
Il 4 giugno giungono da Foggia due compagnie di bersaglieri. I briganti sono circa 4.000, tra uomini e donne. Forti del numero attaccano i soldati piemontesi. I bersaglieri sono umiliati perché vengono messi in fuga. Sul terreno restano tre soldati e 14 sammarchesi, unitisi ai briganti, assieme al capo comitiva Agostino Nardella.
Il 1° giugno del 1861 scade il termine di presentazione degli ex militari borbonici richiamati, ma quelli che si presentano costituiscono una esigua minoranza. I più si danno alla macchia e vanno ad alimentare ulteriormente le formazioni brigantesche. In una nota di polizia presente nell’archivio di Stato di Foggia si rileva che su 770 soldati sbandati rientrati nei loro paesi della Capitanata, alla data del 27 giugno 1861 solo 110 vengono spediti al Deposito personale di Napoli per completare il servizio militare9. Né miglior sorte avrà in Capitanata la chiamata alle armi per le classi dal 1836 al 1841 ordinata per le province meridionali dal governo di Torino nello stesso mese di giugno. Insomma: nell’estate del 1861 tutta la Capitanata è in fiamme. Ovunque scoppiano insurrezioni antiliberali con l’appoggio delle comitive brigantesche.
L’8 luglio una banda di 30 briganti, comandata da Giuseppe Manella, di San Marco la Catola, raduna i contadini di Carlantino che, essendo tempo di raccolto, si trovano nei campi, ed entra in paese preceduto da un tale Pasquale Pisani che su di un bastone porta un fazzoletto bianco per bandiera, gridando “Viva Francesco”. I briganti si impossessano del posto di guardia della Guardia Nazionale e distruggono lo stemma di casa Savoia. Si recano in comune e distruggono tutti gli atti con lo stemma sabaudo, poi obbligano il parroco, don Francesco Pisani, a cantare in chiesa l’inno ambrosiano in onore di Francesco II. In serata saccheggiano la casa di Giovanni Iosa, capitano della Guardia Nazionale; poi è la volta della casa di Giacomo de Maria. Dopo aver raccolto danaro, armi, munizioni e vivere si allontanano.
Sul Gargano è Vieste il “vero centro della reazione garganica”10 . Il comitato borbonico è attivo sin dal luglio 1861 e coordina l’attività dei briganti. Una nota di polizia elenca i maggiorenti del paese che organizzano le operazioni militari dei briganti. La storia di quanto accade a Vieste meriterebbe un lungo racconto che potrebbe dimostrare, se ve ne fosse bisogno, la caratterizzazione in senso filoborbonico dell’azione militare, nonché l’adesione della popolazione ai moti insurrezionali e la successiva repressione ad opera del generale piemontese Bartolomeo Pinelli giunto a Vieste alla fine di luglio del 1861, con fucilazioni, dopo un processo sommario senza appello. Negli scontri di Vieste è comunque da ricordare la coraggiosa morte di una donna del luogo, Leonilda Azzarone, uccisa dalle guardie mobili sul terrazzo della propria casa da dove i briganti stavano sostenendo uno scontro a fuoco per entrare nel centro del paese.
E’ poi la volta di Vico dove i briganti entrano la sera del 28 luglio, dopo che alcuni giovani del paese erano andati in giro con una bandiera bianca al grido di “Viva Francesco II, morte a Vittorio Emanuele, morte a’ carbonari”. La folla va incontro ai briganti sventolando fazzoletti bianchi. Giunti in piazza il capo della comitiva, Luigi Palombo, restando a cavallo, estrae di tasca un fazzoletto bianco e copione consolidato, vengono distrutti i ritratti di Vittorio Emanuele e Garibaldi presenti al corpo di guardia della Guardia Nazionale e sostituiti con quelli di Francesco II e Maria Sofia. E’ poi la volta della visita alle carceri dove vemgono liberati i detenuti.
Nella sezione di Lucera dell’Archivio di Stato di Foggia è presente una nota che dimostra come sin dall’epoca in cui accadevano i fatti, la coloritura politica degli avvenimenti briganteschi era ben chiara. Vi è la testimonianza di quanto aveva dichiarato un abitante di Vico, Francescantonio Maratea, di idee borboniche, ad un tal Pietro Ruberti e gli aveva detto: “Vai dai soldati di Francesco II nel Parchetto di D. Dionisio – perché quelli sono soldati e non briganti, briganti sono invece loro (alludendo ai liberali) – e ci dirai che possono venire benissimo in paese, perché tutti l’aspettano, che non facessero sangue, giacché tutti quelli che dovevano essere sacrificati se ne sono fuggiti. Dà questa nota ai soldati, e dì loro che queste sono le case da saccheggiarsi che vengano presto”11. In serata, i briganti ordinano agli abitanti di Vico di accendere i lumi ed esporre le bandiere di Francesco perché era tornato a regnare. Il giorno seguente viene proclamato un governo provvisorio nel nome di Francesco II, si abolisce la Guardia Nazionale e si ricostituisce la Guardia Urbana. Ma il 31 luglio i briganti lasciano il paese per l’arrivo dell’esercito piemontese, rinforzato il 1° agosto dall’arrivo del generale Pinelli.
L’arrivo di questo generale coincide pressappoco con l’inizio della luogotenenza di Enrico Cialdini (14 luglio – 31 ottobre 1861). E’ la svolta nella lotta contro il brigantaggio in Capitanata e nelle altre regioni storiche del Sud.
Viene istituita la Guardia Nazionale mobile che in breve arruola gli ex garibaldini. Essi appoggeranno l’azione delle truppe piemontesi. E lo faranno meglio della vecchia Guardia Nazionale.
Seguono arresti in massa, espulsione dei vescovi dall’ex regno, degli alti ufficiali del disciolto esercito reale e dei vecchi notabili e burocrati legittimisti. La “conquista regia” rivela ora il suo vero carattere. Si susseguono senza sosta arresti di massa, esecuzioni sommarie, feroci spedizioni punitive contro le inermi popolazioni. I briganti catturati vengono passati per le armi sul posto; i cadaveri esposti per giorni nelle piazze dei paesi. In seguito all’azione terroristica delle autorità piemontesi, nei paesi subentra la paura. Cessano gli appoggi della popolazione alle bande ed il brigantaggio diventa una guerra sporca fatta di sequestri, estorsioni, furto di animali ed altri reati contro il patrimonio.
Mutano gli obiettivi militari dei briganti: ai liberali e “galantuomini” presi di mira nel primo periodo, ora si sostituiscono indiscriminatamente i possidenti.
Il brigantaggio di Capitanata durerà ancora per tutto il 1862, per il 1863 e per il 1864, ma gli ideali politici attorno ai quali era sorto si allenteranno per lasciare il posto alla protesta dalle fosche tinte anarcoidi. I briganti sopravvivono come gli ultimi rappresentanti di una società che non vuol scomparire; come i sopravvissuti di un’epoca che non è giunta al termine del suo ciclo vitale, ma che è stata mortalmente ferita dall’arbitraria violenza del vicino.
Il brigantaggio assurge quindi a protesta: una grande protesta del popolo meridionale contro la violenta distruzione delle proprie leggi, dei propri usi e costumi, perpetrata dai piemontesi. La classe dirigente meridionale non capirà quei fatti e si presterà ad essere docile strumento dei piemontesi per distruggere le memorie patrie.
Dei 1459 briganti, riconosciuti come tali ed operanti in Capitanata, ne moriranno 505 tra fucilati ed uccisi in combattimento. La cifra è impressionante perché costituisce la terza parte delle forze in campo12. I due terzi restanti finiranno i loro giorni nelle prigioni italiane. Odiati dalle autorità, dimenticati dai concittadini, disconosciuti dalla storia essi attendono ancora la giustizia che la storia, come Tacito insegna, col tempo giunge.
Le mogli, i figli, i congiunti tutti dei briganti si faranno dimenticare anch’essi fuggendo dalla patria che non c’è più: essi pagheranno all’unità d’Italia l’amaro prezzo dell’esilio. Gli eredi dei briganti inaugurano la triste stagione dell’emigrazione verso terre sconosciute e lontane morendo chissà quando, chissà dove, per ricongiungere il loro amaro destino con quello dei congiunti caduti per Francesco II e per la Patria dissolta.
Autori
Dott. Gianfranco Nassisi, Primario Cardiologo Idoneo in Lucera, presidente Lions e coordinatore del movimento Neoborbonico in Lucera.
Dott. FrancescoMaurizio Di Giovine, Libero Professionista e profondo cultore della storia delle Due Sicilie ha scritto numerosissimi testi sull’argomento e può considerarsi tra i relatori di riferimento nei molti convegni che si tengono annualmente in tutt’Italia ispirati ad una chiara rilettura storica dei fatti pre e post-unitari.
Cap. Alessandro Romano, Capitano della Piazzaforte di Civitella del Tronto è tra i più profondi conoscitori italiani della storia dell’ insorgenza post-unitaria nel mezzogiorno.
1 R. De Cesare, La fine di un regno, Milano, Longanesi, 1969, pag. 432
2 R. De Cesare, op. cit. pag. 433
3 L’Intendente di Capitanata Charron al ministro Zurlo, in P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario, Bari, Laterza, 1968,pagg. 106 – 107
4 M. Cassa, Reazione e Brigantaggio in Capitanata (1860 – 1861), tesi di laurea in pedagogia, Università degli studi di Bari, anno accademico 1974 – 1975, pag. 35
5 Volantino conservato presso l’Archivio di Stato di Foggia e riportato da M. Cassa, tesi citata, pag. 44
6 A. S. F., sezione di Lucera, riportato da M. Cassa, tesi citata, pag. 70
7 cfr. M. Cassa, tesi citata, pag. 71
8 A.S.F., polizia, s. I, 339/2563, riportato da M. Cassa, tesi citata, pag. 210(
9 M. Cassa, tesi cit., pag. 241
10 M. Cassa, t.c., pag. 248
11 riportato da M. Cassa, pag. 265
12 Cfr. Il brigantaggio in Capitanata, a cura di Giuseppe Clemente, Roma, Archivio Guido Rizzi, 1999
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