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Leonardo Sciascia,la Sicilia e il Risorgimento di Giuseppe Gangemi (II)

Posted by on Feb 27, 2023

Leonardo Sciascia,la Sicilia e il Risorgimento di Giuseppe Gangemi (II)

La novella Quarantotto, ovvero il periodo dal 1848 al 1870

Con la novella sul Quarantotto, Sciascia mostra di avere intuito che il nodo centrale della metafora di
Tomasi di Lampedusa è quello di avere capito che essa è foriera di sviluppi possibili che potevano an- dare molto più avanti di quanto potesse avere pen- sato l’autore. Sciascia indica con la propria arte let- teraria la via per dare contenuto più radicale ai con- torni della metafora di Tomasi di Lampedusa. Scia- scia fa di più.

Traduce la metafora del cambiare tutto per non cambiare niente in un’interpretazione storico-scientifica: cambiare tutto a livello del governo centrale, senza cambiare niente a livello del governo periferico. Così Sciascia lascia la dimensione della pura arte letteraria metaforica per accedere con deci- sione alla concreta storia scientifica.

Per questo motivo, i suoi scritti vanno studiati come una originale e geniale interpretazione del processo di costruzione dell’Italia unita nel corso del Risorgimento. In altri termini, per Sciascia, la conquista sabauda delle Due Sicilie è rivoluzionaria nel governo centrale, la sede in cui si prendono le decisioni e si approvano le leggi, che viene modificato dall’incontro con l’illuminismo, e conservatrice e persino reaziona- ria nel governo periferico, il Decurionato Civico che gestisce e domina, senza interferenze efficaci del go- verno, la fase dell’implementazione delle politiche.

Sciascia, di fatto, nella novella Quarantotto analizza le varie forme che poteva assumere la corruzione (per esempio matrimoni estorti per far evitare san- zioni economiche o penali alle famiglie della sposa), mostra la situazione di emarginazione in cui si trovavano i veri liberali nel Regno delle Due Sicilie (per esempio, il personaggio di don Paolo Vitale) e fornisce una lezione politica improntata a una lettura ori- ginale di alcune analisi di Niccolò Machiavelli sul tema del governo

“Il Decurionato Civico aveva i poteri che oggi hanno i Consigli Comunali, ma a nominare i decurioni era il sottintendente, che aveva le funzioni che oggi ha il pretore”18. Tuttavia, i poteri del decurionato erano, nella sostanza della realtà effettuale della cosa, molto maggiori di quello che assegnava loro nominalmente la legge. Ed è per questo che, nella novella Quarantotto, Sciascia narra che il barone “quel che al mondo più temeva era di perdere la grazia del vescovo”19 perché, perdendola, avrebbe perso il potere di controllare il Decurionato Civico per impedire l’applicazione concreta delle decisioni del governo non gradite.

  1. Manduca 2020, posizioni 32-37 di 1.929
  2. Manduca 2020, posizione 42 di 1.929 17 Renda 2010, 31
  3. Sciascia 1976b, 116
  4. Sciascia 1976b, 117

E quando arrivano i Garibaldini, il racconto Quarantotto si spinge fino al 1860, il barone e gli altri che controllavano il potere locale al tempo dei Borbone si organizzano in Comitato Civico con presidente il vescovo e membro rilevante il barone. Tutti quanti si presentano come liberali.

A proposito dei veri liberali, Sciascia li rappresenta attraverso “don Paolo Vitale, così si chiamava il prete,

… inviso ai superiori e ai colleghi, in fama di liberale per i rapporti che manteneva con gli esuli e con gli inglesi di Marsala, dai quali riceveva gazzette che di- cevano delle cose del mondo e delle nostre: e queste notizie lui traduceva per gli amici di Castro [il Comune in cui è ambientata la novella]. Ma liberale ve- ramente non era … [a quelli che si dichiaravano li- berali e] si riunivano in farmacia diceva – voi volete far mangiare al popolo carta stampata, e quello in- vece vuole pane”20. Tanti erano detti liberali perché “erano noti per vaghi o provati sentimenti liberali”21. Dopo il 1849, ripristinato l’ordine, viene dato l’esempio con alcune condanne, qualcuno costretto all’esilio e la soluzione dei problemi di gran parte degli altri con lettere di contrizione inviate al vescovo e alle autorità e con il soprannumero di “ragazze bel- lissime e con ricca dote [che] furono sacrificate in matrimoni con vecchi giudici e funzionari … Tanto l’amore familiare può, oltre il giusto ed il lecito, nei paesi nostri”22.

L’arrivo dei Garibaldini creò una situazione di insicurezza perché “[i] gendarmi non c’erano più, si erano squagliati al primo avviso di rivoluzione … i ricercati dalla giustizia, dalle campagne dove stavano in latitanza e costituiti in bande, alla spicciolata erano rientrati in paese”23.

I componenti il Decurionato Civico certo liberale non erano, almeno fino al 1859. Contribuirono a convertire i decurioni all’impresa garibaldina vari fattori: il fatto che i Garibaldini siano stati visti all’opera, a combattere contro le truppe regolari duosiciliane; il fatto che alcuni di loro hanno preso accordi con il neoproclamato dittatore per negoziare la conversione, a condizione di mantenere alcuni privilegi e acquisire dei vantaggi; il fatto che, come sempre in Italia, ma anche ovunque, tanti sono coloro che hanno sentito il bisogno di correre in soccorso del vincitore.

I membri che controllavano il Decurionato, controllavano anche il Comitato Civico e questo attendeva Garibaldi: il barone “vestito di scuro e con una coccarda tricolore al petto grande come una focaccia, il volto atteggiato a incontenibile gioia; … con lui erano tutti quelli del casino di compagnia, c’erano anche … i pochi veri liberali di Castro. Poiché il barone era davanti a tutti, Garibaldi a lui tese la mano, il barone la strinse tra le sue con devozione: e dava l’impressione che gratitudine e gioia stessero per esplodergli in pianto”24.

In soldoni, sono diventati liberali, per salvare il loro potere di interdizione locale alle decisioni del go- verno centrale, soprattutto quelli che fino al 1859 sono stati borbonici reazionari e legittimisti.

Bronte nella narrazione di Sciascia e la critica alla novella Libertà di Giovanni Verga

Quando i Garibaldini, con i loro proclami, autorizzarono il libero esercizio dei loro secolari diritti, i contadini siciliani si convinsero che solo la rivoluzione garibaldina potesse garantire il ripristino della giustizia e della legalità da sempre violate dai Baroni. Con Garibaldi dittatore, si diceva apertamente a Bronte, sarebbe caduta anche la donazione a Nelson fatta con beni comunali o dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo25.

La folla era talmente esacerbata verso i nobili e i loro complici che, in quei primi giorni di agosto, ne aveva fatto strage. Poi, è arrivata Bixio e vennero pronunciate ed eseguite cinque condanne a morte.

Questi fatti sono noti e non sono controversi. Mi soffermerò perciò, solo, su quelli controversi o non trattati nelle narrazioni degli storici accademici e sugli aspetti che servono a capire la posizione di Sciascia.

Le élite locali di Bronte hanno sempre commesso le peggiori illegalità e nefandezze ai danni del popolo [occupazioni di terra demaniale, tassazione pesante degli altri e quasi esenzione di se stessi e degli amici, e i diritti comunitari negati, quali la raccolta della legna etc.]. La duchessa non è “paga di avere per vent’anni avversato con tutti i modi ingiusti l’attua- zione di questi bisogni, taluni dei quali erano stati riconosciuti e soddisfatti dal Borbone, come si è detto, e poi mercé l’opera loro avversa, rea ed inumana non effettuati; oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivoluzione in virtù delle leggi dittatoriali me- desime, seguiva a contrastare l’esecuzione della legge rivoluzionaria …”26.

  1. Sciascia 1976b, 133
  2. Sciascia 1976b, 136
  3. Sciascia 1976b, 149
  4. Sciascia 1976b, 128
  5. Sciascia 1976b, 157 25 Radice 1963, 27

Bixio, appena arrivato, si rivolgeva alle autorità locali di Bronte, quelli che si erano sempre opposti alla divisione delle terre demaniali ordinate dal governo borbonico – l’arciprete, il delegato di polizia e i pre- sidenti del consiglio municipale e del municipio -, e ingiungeva “loro con minacce di confessare i nomi dei principali colpevoli. I nemici del Lombardo, del Saitta, del Minissale, quanti patirono negli averi e nella persona dei loro cari, colta l’occasione, macchi- narono la loro perdita, dicendoli aizzatori allo scom- piglio, alla strage e borbonici. Non bisognò più avanti per accendere nell’anima vulcanica del Bixio tutte le furie”27.

Le fonti degli storici accademici sono le deposi- zioni dei testimoni per l’accusa del 7 agosto (in par- ticolare la moglie di uno degli uccisi, Rosario Leotta, contabile della Ducea, per avere Lombardo trovato il marito nascosto e averlo convinto a consegnarsi alle autorità, provocandone così la morte), il diario, gli appunti e l’epistolario di Bixio. I testimoni per la difesa, come noto, non sono stati ascoltati perché il decreto del 28 maggio permetteva questa mancata “escussione dei testimoni quando i fatti in questione e i colpevoli fossero già stati accertati”28.

Radice sostiene che la verità di Bronte si trova ovunque tranne che nelle carte del processo e ricostruisce la vicenda con interviste ai vecchi del paese, i si dice successivi alla partenza di Bixio, che considera più affidabili di quanto ne scriveranno i Garibaldini presenti.

Radice riferisce anche un episodio che non è com- patibile con l’ipotesi che Lombardo fosse responsabile della rivolta e delle uccisioni: “Il Poulet stanco della marcia forzata, e ancora sofferente della ferita ripor- tata nell’attacco del 31 maggio contro i regi a Catania, affidò al Lombardo ed al Saitta la sicurezza della città e volle alquanto riposare. Vegliarono quelli tutta la notte, né alcuno incidente turbò la quiete del paese”29. Radice fa un’analisi impietosa del carattere di Bixio:  “il pensare e l’agire era tutt’uno per lui!”30; la sua qua- lità dominante era “l’impeto, che lo faceva mirabile ed eroico nelle battaglie; ma spesso per eccessivo amore di disciplina, giustiziere irremovibile e tre- mendo”31; a volte “egli perdeva il lume degli occhi, de- lirava”32; questo delirio lo portò più volte a “non pochi simili atti di violenza”33 paragonabili a quelli che gli saranno imputati a Bronte; l’impresa garibaldina “gli fu propizia per salvarlo forse da una vita ignobile”34 cui lo portava la legge ereditaria del sangue.

Queste componenti del suo carattere si rivelarono drammaticamente a Bronte, mostrando attraverso la sua natura anche la natura simile, se non peggiore, di molti Garibaldini. Bixio se ne rese conto e lo ammise in una lettera alla moglie di una settimana dopo le ese- cuzioni a Bronte. “Cara Adelaide, appena giunto (in Messina) eccoti che un tumulto, di nuovo genere scoppia [a Bronte,] a 70 miglia da Messina, si bru- ciano case e si assassinano chiedendo divisione di terre comunali. Il Generale mi spedisce sul luogo con parte della brigata… missione maledetta, dove l’uomo della mia natura non dovrebbe mai essere destinato”35.

E qual era questa sua natura, a giudicare dai fatti? Innanzitutto, non ascoltava nessuno e non seguiva la logica. Uno degli ufficiali garibaldini era talmente abituato a non essere ascoltato che non si rivolgeva a lui, bensì si rivolgeva direttamente a Lombardo per avvertirlo del tranello che gli si stava ordendo con- tro36. Purtroppo, Lombardo non gli credette, come pure non credette al rettore Palermo, che egli incon- trava quando si recò al Collegio Capizzi, dove era al- loggiato Bixio. Il rettore lo avvisò di fuggire all’istante. Sicuro della propria innocenza e di potersi difendere, Lombardo si presentò comunque davanti a Bixio. Probabilmente lo portò alla rovina il proprio essere liberale e la convinzione, errata, che i Garibal- dini fossero tutti liberali come lui. Riteneva che, nella peggiore delle ipotesi, avrebbe avuto un processo con tutte le garanzie di difesa tipiche di un sistema penale liberale. Si presentò spontaneamente a Bixio e si trovò davanti a una personalità autoritaria che dimostrò subito di considerarlo colpevole.

26 Sciascia in Radice 1963, 20, arringa del difensore Tenerelli Contessa 27 Radice 1963, 53 e 59
28 Riall 2012, 160-161
29  Radice 1963, 51
30  Radice 1963, 53
31  Radice 1963, 64
32  Radice 1963, 64
33  Radice 1963, 63
34  Radice 1963, 64
35  Radice 1963, 64
36  Radice 1963, 53

Ed era troppo tardi per Lombardo: il suo destino era segnato.

“Si narra che appena sentì essere quegli il Lombardo, fattosi in viso spaventevole e con voce che sembrò ruggito, proruppe: Ah! siete voi il Presidente della canaglia! Ignorasi che cosa abbia potuto rispondere il Lombardo, e se il Bixio gli abbia dato tempo a scolparsi; certo è che subito arrestato, fu messo nella stanza di disciplina del collegio e rigorosamente custodito da sentinelle”37.

Come il tribunale da lui nominato, Bixio non seguiva la logica. Per esempio, aveva imposto, tra le tante altre cose, che tutti i brontesi consegnassero le armi che si avevano in casa, pena la fucilazione38. Di conseguenza, tra i capi di imputazione di Lombardo, ci sarà anche l’accusa, di per sé già sufficiente per la condanna alla fucilazione, di non aver consegnato le armi tenute nella propria abitazione. Nella sua Posi- zione a Discolpa, la corte marziale aveva solo un’ora per leggere quelle di tutti gli imputati, Lombardo fa- ceva notare che essendo stato emanato l’ordine di consegnare le armi mentre era prigioniero, non aveva potuto consegnarle39. Viene comunque condannato anche per non avere fatto quello che Bixio, metten- dolo in prigione, gli aveva impedito di fare.

Bixio spinse la propria ostinata resistenza alla logica fino al punto da far condannare e fucilare anche il matto del villaggio: Nunzio Ciraldo Fraiunco. E già di per sé questo era ed è orribile. Talmente orribile che, da quando ne diverrà consapevole, Bixio comincerà a mentire spudoratamente.

Giorno 3 luglio 1862, in un suo intervento alla Camera, Bixio si autoassolveva della responsabilità di avere condannato a morte i 5 di Bronte: “Nel fatto di Bronte potrei provare che ho impedito, ho minacciato quelli che volevano la fucilazione, ho impedito i miei soldati col revolver alla mano di toccar la popolazione civile, ed ho minacciato i municipii e la guardia nazionale se versavano il sangue, quindi gli accusati sono stati giudicati dai tribunali del paese, a porte aperte, senza alcun militare, all’infuori della sentinella alla porta e dei soldati necessarii a mantenere l’ordine, e solo quando il tribunale ebbe pronunziato, dico, furono dolorosamente fatti fuci- lare da me”40.

Non era affatto vero! Vari particolari mostrano che non era stata per lui dolorosa la decisione di fu- cilare i cinque: a) una lettera scritta da Bronte in cui Bixio chiariva cosa sarebbe avvenuto: “i capi saranno fucilati e i complici condotti a Messina innanzi al consiglio di guerra”41; b) il diniego ai parenti dell’avvocato Lombardo di “poter dare l’ultimo abbraccio al condannato”42; c) “il povero garzone, andato a portar[e all’avvocato Lombardo] delle uova, fu riman- dato con dure parole: – Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte!”43.

Unica eccezione tra i Garibaldini che scrivono di Bronte è stata quella di Francesco Grandi, garibaldino tra i Mille. Soffermandosi sulla morte del Fraiunco, il pazzo del villaggio, confessava: “uno di loro, che mi era vicino, mi andava sussurrando queste parole: ‘A Madonna mi farà la grazia’. Caso vuole che questi, nella scarica del picchetto comandato per la fucila- zione, riceva una leggera scalfittura e cada bocconi a terra44. Quando l’aiutante maggiore chiama il medico per l’atto di morte, egli, puntando i pugni e rizzan- dosi, dice a Bixio: ‘La Madonna mi ha fatto la grazia, adesso fatemela voi’. Ma Bixio, voltandosi al sergente Nicutti, disse: ‘ammazzate quella canaglia’; e quello, spianato il fucile, lo finì”45. Più credibile questa narra- zione di Grandi e, persino, più rivelatrice, in quanto volutamente esagerato, il modo in cui descrive il “do- lore” di Bixio per avere fatto uccidere quei Brontesi: “Bixio, impressionato di quelle uccisioni, che dovette far eseguire a sangue freddo, cadde da cavallo sve- nuto”46. Il che è più uno sberleffo che una vera narra- zione. Ed infatti, aggiunge un secondo sberleffo, un particolare realistico e rivelatore, in conclusione della narrazione: “Riavutosi, [Bixio] ricompose i ranghi e partimmo, lasciando i cadaveri nella strada”47.

37  Radice 1963, 54
38  Radice 1963, 54

  • Radice 1963, 59, nota 81
  • Atti Parlamentari, 3 luglio 1862, p. 2925 41 Radice 1963, 80

  • 42  Radice 1963, 60
    43 Radice 1963, 60-61
    44 È molto probabile che nessuno del plotone di esecuzione se la sia sentina di sparare su quel povero demente. 45 Grandi 2020, 30 su 67
    46  Grandi 2020, 30 su 67

Quel “lasciando i cadaveri nella strada”, non necessario alla narrazione, spazza via senza pietà tutte le retoriche risorgimentali dei testimoni garibaldini. Dicevo degli altri che, in tutti i modi, corrono in soccorso di Bixio, per giustificarlo: Giuseppe Guer- zoni, nella Vita di Bixio, non solo utilizza come fonte principale per l’episodio di Bronte il diario di Bixio, ma corregge anche il testo di un suo editto, in alcuni passaggi, non del tutto gradevoli48; Giuseppe Cesare Abba scrive citando un testimone che riferisce quanto gli è stato raccontato da uno che è stato nel plotone di esecuzione – che nell’occhio di Bixio “gli parve vedervi brillare qualche lacrima”49; l’allora ser- gente Francesco Sclavo gli fa da eco sostenendo che “Nino Bixio nell’ora del triste dovere, cioè durante la fucilazione del Lombardo Nunzio e compagni, avesse gli occhi pieni di lacrime”50.

Lo stesso Sclavo, che chiuderà la carriera militare come colonnello, nel 1907, scrive allo storico Radice che ne sollecita la testimonianza: “spero che pensandoci bene non ritornerà ai fatti dell’agosto 1860”51. Egli fu presente a Bronte nei giorni 6, 7, 8 e 9 agosto1860 52.

Radice conclude che Guerzoni e Abba hanno fa- voleggiato per i fatti di Bronte. Lo hanno fatto sia nel descrivere i misfatti compiuti, oltre agli omicidi innegabili, sia nel descrivere il ruolo di pacificatore di Bixio il quale, invece, sarebbe arrivato a pacifica- zione già realizzata, da Poulet. “Il Guerzoni fantastica di reazione fratesca e borbonica, di stupri di donne, di orribili ma storici squartamenti di bambini! e l’Abba di chierici trucidati nel seminario a piè del vecchio rettore, di monache violate nei monasteri, di seni recisi e maciullati di fanciulle, mentre Bixio, prorompeva in piazza e caricava alla baionetta quei dementi”53. Del resto, i primi resoconti parlano di una rivolta ben più grande e più truce di quella che è stata: “10.000 insorti, [ed] episodi di cannibalismo (peraltro controversi e mai confermati)”54.
Radice riferisce le risposte dei cosiddetti testimoni di parte risorgimentale ancora vivi mentre conduce le proprie ricerche: “L’Abba, a cui scrissi, mi rispondeva che avea avuto quelle notizie da testimoni oculari, (avevano le traveggole!!) e il colonnello Sclavo afferma che era vero quanto scrissero il Guerzoni e l’Abba!!”55. Non chiede a Grandi, perché non sa di lui, non avendo questi ancora pubblicato il proprio diario.

Torno, di nuovo, a Leonardo Sciascia che, nella sua Introduzione al libro di Radice, accoglie per buone tutte le denunce del Radice e, poi, presenta una stupenda critica ideologico-letteraria della bellissima novella Libertà di Giovanni Verga.

Sciascia nota che sono vari i punti in cui il realista Verga si discosta dalla verità dei fatti: 1) quando so- stiene che è stato il generale [Bixio] a pacificare il paese. “Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lenta- mente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe ba- stato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse”; 2) quando dichiara che non c’è stato processo e i cinque sono stati fucilati prendendoli a caso. Il generale “ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono”; 3) quando il matto diventa, nella novella, il nano; 4) quando sparisce dalla novella ogni riferimento all’avvocato Lombardo, ben noto a Catania, dove vive lo scrittore, come liberale determinato e convinto.

Sciascia niente commenta sul punto 1 (di cui parla ampiamente il Brontese Radice) e si limita a espri- mere un tenue giudizio sui punti 2 e 3, prima di abbattere la propria più pesante critica, perché coin- volge il mondo letterario verghiano, sul punto 4.

Relativamente ai punti 2 e 3, scrive Sciascia: “Ci si può obiettare che, a carico di Bixio, Verga fece di peggio, nella novella: eliminò quel simulacro di processo, gli fece sbrigativamente ordinare la fucilazione dei ‘primi che capitarono’; ma in effetti non è così: ché la rappresentazione, sia pure in una sola frase, del processo, lo avrebbe obbligato a caricare il generale di feroce ipocrisia; e voleva invece, a conferma della leggenda, darlo soltanto, e con indulgenza, come un intemperante.

47 Grandi 2020, 30 su 67
48 Radice 1963, 75, nota 120, mette a confronto il vero testo, custodito negli Archivi di Bronte e il testo, emendato, riportato nel diario di Bixio.
49 Radice 1963, 61

  • Radice 1963, 61, nota 85
  • Sciascia 1963, 16
  • Sciascia 1963, 16 53 Radice 1963, 64-65 54 Riall 2012, 5
    55 Radice 1963, 65, nota 101

E come la sua coscienza, certamente, era turbata, non volle turbare quella del lettore scrivendo ‘il pazzo’; e scrisse ‘il nano’, dissimulando in una minorazione fisica la minorazione mentale; e anche in ciò, si noti bene, affiorando quel suo profondo sentire popolare: il pazzo investito di sacertà e il nano ritenuto invece essere pieno di malizia e cat- tiveria”56. Il nano ha una menomazione fisica che, nella cultura popolare, lo rende più credibile come colpevole e malvagio.

Relativamente al punto 4: “Ma la mistificazione più grande (in cui, ripetiamo, le ragioni della sua arte venivano a coincidere con le ragioni diciamo risorgi- mentali, cioè di una specie di omertà sulla effettuale realtà del risorgimento) è nell’avere eliminato dalla scena l’avvocato Lombardo: personaggio che non po- teva non affascinarlo in quanto portatore di un de- stino, in quanto vinto. Né poteva, Verga, confonderlo col personaggio che ne fece la letteratura gari- baldina (Abba: ‘l’avvocato Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame’): ché il Lombardo era ben conosciuto negli ambienti liberali catanesi, e nessuno a Catania aveva mai creduto alla storia, accreditata presso Bixio dai notabili di Bronte e diffusa a scarico di coscienza tra i garibaldini, di un Lombardo reazionario, o ‘realista’ (cioè partigiano di Francesco II: quasi i siciliani non stessero per avere un altro re)”57.

Bronte si era sollevato, insieme ad Adernò, Bian- cavilla e Nicosia. Solo che, a differenza che a Bronte, in questi tre paesi, alcune terre del Comune erano state subito divise tra i contadini senza terra58. Segno che qui le classi dirigenti locali opponevano poca o nessuna resistenza o che i notabili locali avevano usur- pato di meno, al punto che si percepiva subito che si poteva concedere, tanto le cose potevano cambiare poco in termini di ricchezza e influenza politica.

A Bronte, “il governo garibaldino si trovò stretto fra i contadini e i proprietari terrieri, i due opposti schieramenti in lotta per la terra … i democratici si- ciliani avevano anche vissuto l’esperienza delle vio- lenze del 1848-49. La triste fine di quella rivoluzione, seguita da lunghi anni d’esilio, aveva convinto molti
di loro, e soprattutto Francesco Crispi, che sarebbero stati perduti senza l’aiuto dei ceti proprietari, e che inoltre quel sostegno non sarebbe mai arrivato se il governo si fosse mostrato indeciso nell’affrontare le agitazioni contadine o incapace di proteggere i loro beni e i diritti di proprietà”59.

Come ad Alcara Li Fusi, anche a Bronte la rivolta si svolse, con varie riprese, limitandosi, agli inizi, a manifestazioni poco o per niente violente e si protrasse così per due mesi finché non scoppiò con feroce violenza ai primi di agosto. Bixio, incaricato di sedare la rivolta, arrivò che questa è già stata sedata dal Colonnello Giuseppe Poulet comandante mili- tare della provincia di Catania, ma si comportò come se fosse stato lui a domarla. Finì che i Garibaldini fucilarono anche il capo della fazione brontese degli an- tiborbonici (avvocato Nicolò Lombardo) che aveva aiutato Poulet a ripristinare l’ordine.

Lombardo, inizialmente, si era illuso di frenare il movimento mettendosene a capo nei mesi precedenti le prime violenze. Quando scoprì di avere fallito avrebbe voluto tirarsene fuori, ma una parte dei con- tadini si sentiva persa senza la sua guida. Ebbe il torto di lasciarsi convincere. Lo tirò fuori dall’ambiguità l’arrivo di Poulet. Questi era timoroso di entrare in paese anche se guidava un drappello di 400 soldati più 80 uomini di Catania direttamente ai propri or- dini. Lombardo lo aiutò negoziando il suo ingresso a Bronte. La rivolta ebbe fine. Il giorno dopo, arrivò Bixio e apprese subito, dai nemici di Lombardo, quelli che più temevano il suo ascendente sui conta- dini, delle ambiguità di Lombardo. Tanto bastò per farlo apparire come il fomentatore delle violenze.

Lo schema mentale di Bixio era semplice, soprat- tutto se rapportato a quello di Lombardo. Il primo ragionava in modo semplice: ai violenti occorreva ri- spondere con la violenza e, una volta data una lezione esemplare, il problema era risolto. Il secondo era stato costretto ad adottare uno schema mentale più complesso perché sapeva che la questione della ri- volta di Bronte era legata alle usurpazioni delle terre demaniali, alle inique tassazioni, alle pratiche di usura, agli usi civici, etc.

Questi fattori erano da circa due secoli il motore del conflitto sociale interno a Bronte. Siccome i Brontesi avevano sempre considerato i boschi compresi nella tenuta regalata a Nelson come appartenenti a loro, in quanto appartenenti al Comune (il re non poteva regalare terre comunali, ma solo le terre demaniali), essi finirono per ritrovarsi intrecciati alla storia del paese che era storia di controversie e querele reciproche.

56 Sciascia 1963, 17
57 Sciascia 1963, 17-18
58 Radice 1963, 31
59 Riall 2012, 159-160
L’amministratore Philip Thovez lo riconobbe quando scriveva: “negli ultimi duecento anni una serie di violente dispute, invariabilmente conclusesi con lunghe e costosissime cause legali, senza che poi si sia deciso alcunché”60. Ma Thovez aveva avuto anni per comprenderlo. E Poulet aveva avuto bisogno della guida di Lombardo per capirlo, se mai lo avesse capito del tutto in sole 24 ore di presenza a Bronte. Il “liberale” Bixio non lasciò il tempo a Lombardo di spiegarglielo.

Il problema era che, negli ultimi anni, i Borboni si erano cominciati a muovere con più decisione per risolvere la situazione di illegalità nei Comuni mentre gli usurpatori di terre comminavano contravven- zioni e tassazioni arbitrarie. Leonardo Sciascia, nella Introduzione al lavoro dello storico locale brontese, Benedetto Radice, di esempi ne cita molti: “cadevano contravvenzioni (generalmente per evasioni al bal- zello del macinato e quasi sempre convertite in car- cere), pignoramenti per usure non pagate, tassazioni arbitrarie, accuse di furto (di solito per legna raccolta nei boschi ducali o comunali)”61; Sciascia riferisce di due ricorsi da lui trovati negli archivi: un primo pre- sentato da un piccolo proprietario costretto a pagare due once e quindici tarì, mentre i decurioni, le fami- glie a cui appartenevano e i grandi proprietari paga- vano pochi baiocchi per molte più terre; un secondo che pagava una salata tassa in quanto considerato produttore di vino, mentre la sua attività consisteva nel vendere erbe selvatiche raccolte nei campi62 (tutte decisioni ingiuste che i decurioni prendevano perché ogni Comune doveva garantire un certo numero di entrate e, se facevano pagare di più i loro avversari politici o quelli senza potere o agganci con chi aveva potere decisionale locale, loro riuscivano a pagare di meno. Era nel potere dei decurioni distribuire le tasse tra i cittadini del Comune); “[e] quando i guardabo- schi della signora duchessa di Bronte o quelli del comune sorprendevano qualcuno a far legna [nei bo- schi che erano di proprietà del Comune], erano guai grossi: un’ammenda pari al valore dell’albero vivo e non della legna, e non meno di un mese di carcere. Si trovano registrate ammende fino a 39 ducati: somma che il bracciante non riusciva a buscare in tutta una vita”63 (anche la ducea di Bronte, nel tempo, aveva dato adito a intrighi e abusi, a imita- zione di quelli che alcuni civili avevano fatto al pa- trimonio del Comune che era grandissimo).

Lo conferma la storica inglese Lucy Riall che dichiara che la duchessa gestiva i propri 16.000 ettari, il 48% di tutte le terre del Comune, esattamente come facevano gli altri affittuari o psuedoproprietari che avevano usurpato le terre del Comune. Solo che l’espressione che usa, “come una proprietà irlandese” è più vicina all’esperienza di un Inglese che a quella di un Siciliano. E questo modo irlandese si caratte- rizza per il fatto che “l’affittuario si arricchisce, il su- baffittuario fa la fame e i beni vanno in malora”64. L’amministratore della Ducea si circonda di guardie armate, “ladri consumati come pochi altri nel regno di Sicilia”65. Appunto come fanno gli altri grandi proprietari e, soprattutto, quelli che hanno, come la Ducea, usurpato terre demaniali e comunali.

La duchessa e questi civili sono visti con malanimo in quanto usurpatori dei diritti della plebe. Ma “il tempo sembrava giocare a sfavore dei brontesi. In tutta l’Italia meridionale e in gran parte dell’Europa l’accesso della popolazione alle aree forestali non po- teva più essere considerato scontato, e i diritti comu- nali sulla proprietà delle stesse erano considerati alla stregua di costumi barbari, forme di confusione e di conflitto nonché di freno al progresso economico”66. Quando Garibaldi e Bixio, con i loro proclami, au- torizzarono il libero esercizio dei loro secolari diritti, i contadini siciliani si convinsero che solo la rivoluzione garibaldina potesse garantire il ripristino della giustizia e della legalità che i Borboni non erano riusciti a ga- rantire per almeno mezzo secolo. Con Garibaldi dit- tatore, si diceva apertamente a Bronte, doveva cadere anche la donazione a Nelson fatta con beni comunali o dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo67.

60 Riall 2012, 97

  • Sciascia 1963, 14
  • Sciascia 1963, 14
  • Sciascia 1963, 14 64  Riall 2012, 75 65  Riall 2012, 75 66 Riall 2012, 106 67 Radice 1963, 27

La folla era talmente esacerbata verso i nobili e i loro complici che, in quei primi giorni di agosto, assalì tale “D. Luigi Spedalieri, reo di avere [con una mediazione] immesso la duchessa Nelson nel possesso dei beni contrastati[. L]egato per i piedi fu strascinato per le strade; ma accorso a tempo Sebastiano De Luca, ebbe salva la vita”68. È stato solo il primo tentativo di linciaggio. Molti, questa volta riusciti, ne seguirono e produssero sedici vittime, proprietari, notabili, notai e loro famigliari.

Le élite locali di Bronte avevano sempre commesse le peggiori illegalità e nefandezze ai danni del popolo [occupazioni di terra demaniale, tassazione pesante degli altri e quasi esenzione di se stessi e degli amici, e i diritti comunitari negati, quali la raccolta della legna etc.]. La duchessa non era “paga di avere per vent’anni avversato con tutti i modi ingiusti l’attua- zione di questi bisogni, taluni dei quali erano stati riconosciuti e soddisfatti dal Borbone, come si è detto, e poi mercé l’opera loro av- versa, rea ed inumana non effettuati; oggi, dopo essere stata dichiarata nemica della rivoluzione in virtù delle leggi dittatoriali medesime, seguiva a contra- stare l’esecuzione della legge rivoluzionaria …”69.

Il giorno dopo l’entrata di Garibaldi a Palermo (28 maggio) “erano scappati dalle carceri, non più ben custodite, molti delinquenti, che, sparsisi per i paesi, correvano la campagna, sobillando i popolani contro i borbonici. Erano borbonici i possidenti ed i nemici, dei quali bramavansi i beni e il sangue, spe- rando impunità al mal fare nell’universale trambusto; giacchè facilmente sperdonsi nei tumulti e colpe e colpevoli”70. Rientrarono a Bronte vari delinquenti, ladri e assassini, fuggiti dalle carceri: “Arcangelo At- tinà, Citarrella, Francesco Gorgone, Nunzio Franco Cesarotano. Andavano costoro per le vie con berretti e fiocchi tricolori, fieri della ricuperata libertà, sobil- lando per le campagne e per le case il popolo minuto alla sommossa, prendendo a pretesto la mancata di- visione, fraintendendo e interpretando secondo il loro malvagio animo le parole del Dittatore contro i Borboni, che era cioè dovere dare la caccia ai realisti per rendersi benemeriti della patria”71.

Furono questi i responsabili della rivolta e delle uccisioni che ne seguirono, ma il processo sommario ad altri non ci permetterà mai di appurarlo. I veri re- sponsabili delle uccisioni, non vennero condannati e condannati furono al loro posto dei capri espiatori, tra cui un liberale e un demente. Ci dovettero co- munque essere capri espiatori perché lo richiedevano autorità straniere di un paese, la Gran Bretagna, che stava finanziando l’impresa di Garibaldi.

La maggioranza del popolo di Bronte non era in- teressata a uccidere. Era, semmai, interessata a com- battere coloro che resistevano ancora all’applicazione delle leggi approvate dai Francesi e, negli ultimi tempi, sostenute dai Borboni; coloro che non vole- vano che le vigenti leggi sulla distribuzione delle terre comunali fossero applicate. Gli amministratori della duchea si rivolsero al console inglese. E questo com- plicò molto la situazione.

“Il console inglese in Catania, sapendo minacciati gl’impiegati e la proprietà della duchessa Nelson, tempesta [Garibaldi] di telegrammi perché inviasse a Bronte sollevata, pronto soccorso di soldati. Il Ditta- tore, e per sentimenti di umanità, e per le relazioni di amicizia tra la nuova Italia e l’Inghilterra, avendo questa con denari e consigli favorita la nostra rivolu- zione, ordinò al generale Bixio di recarsi a Bronte per soffocarvi la rivolta”72.

Lucy Riall, che ha consultato i documenti della Ducea, inserisce la rivolta di Bronte in una questione più ampia e più specifica. Sostiene che perlomeno un amministratore della Ducea di Bronte, Thorez, guar- dando il contenzioso legale precedente, si era reso conto, già negli anni Venti, che una buona metà dei boschi era fondata su diritti incerti e poteva essere persa in tribunale73; ciononostante ricevette la dispo- sizione di ignorare il fatto e di comportarsi come gli altri notabili locali, determinati a usare tutto il loro potere politico locale per non mollare le terre usur- pate. “Nel 1846, la ducea riuscì a convincere la Corte di Cassazione ad annullare in parte la normativa in materia di terre comuni, ma il diritto della colletti- vità a ottenere un’indennità venne confermato”74. Il diritto di proprietà del Comune venne riconosciuto su metà dei boschi, su un quarto dei pascoli e dei col- tivi e su un terzo delle distese di lava dell’Etna, e si trattava di “una parte consistente della terra di mag- gior pregio”75.

68  Radice 1963, 48
69 Arringa del difensore Tenerelli, pubblicata nel 1863 e citata da Sciascia 1963, 20 70 Radice 1963, 32
71  Radice 1963, 33
72  Radice 1963, 52
73  Riall 2012, 116
74  Riall 2012, 119
Solo che il Comune era in mano ai grossi proprietari terrieri, ai loro parenti o sodali. I decurioni aspiravano ad acquisire per se stessi quelle terre. “Nel 1848, il comune affermò che la distribuzione delle terre comuni veniva ritardata dalla necessità di otte- nere da Napoli l’assenso di Ferdinando II”76. Nel 1855, una petizione di cittadini “accusava i membri del consiglio municipale di essersi appropriati delle terre comuni. L’anno seguente venne riferito che il sindaco Bernardo Meli ha venduto dei terreni … ad alcuni pastori”77. Negli anni successivi, il Comune ri- fiutava un arbitrato, posticipava un’udienza chie- dendo di visionare un archivio medioevale e sollevava delle obiezioni al parere di alcuni periti. Nel maggio del 1860, si attendeva ancora la sentenza del primo ordine di giudizio. Ed è a questo punto che, dopo lo sbarco dei Garibaldini a Marsala, arriva il primo editto di Garibaldi a favore dei contadini.

La conclusione di Lucy Riall è perentoria a questo proposito: “Ed è proprio nei conflitti del 1848 che possiamo rintracciare le origini delle terribili violenze del 1860”78. Qui, 1848 va inteso come moto popo- lare che inizia a Palermo, prima città in Europa, il 12 gennaio 1848, ma va indirettamente legato alle ri- vendicazioni popolari contro le élite locali che, mal- grado la legge del 1841 e la sentenza della Corte di Cassazione del 1846, ancora ostacolavano la distri- buzione della terra ai contadini. “I dodici anni tra il 1848 e il 1860 possono essere considerati un unico, prolungato periodo di agitazioni, che produssero un diffuso disordine nelle campagne siciliane e porta- rono al collasso dell’autorità politica a Palermo”79. Per tutti quegli anni, a Bronte, “il controllo delle terre e del potere locale continuò senza diminuire d’intensità nei dodici anni seguenti”80.

Il nodo da sciogliere, insiste Riall chiarendo che i Borbone non sono riusciti a scioglierlo, è il fatto che “[i]l potere a livello locale assicurava il controllo dei lavori pubblici, della spesa e dell’imposizione fiscale, nonché, a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento, della cruciale questione delle divisione e della ripartizione delle terre comuni. In questa situazione, la politica locale diventò un gioco molto conflittuale, nel quale il vincitore prendeva tutta la posta”81.

Si sviluppa, di conseguenza, un conflitto che con- tribuisce a scatenare la rivolta, tra due parti contrap- poste che si definiscono liberali. Entrambi gli schie- ramenti, sia i “ducali” sia i “comunisti” [coloro che proclamano la distribuzione delle terre usurpate ai contadini], nel 1860, proclamano “la fine della mo- narchia borbonica in Sicilia[. Il che] testimonia che all’interno della società brontese erano in atto mano- vre di vario tipo per prendere il controllo della situa- zione”82. Si tratta di due opposti orditi basati sul- l’operazione trasformista di passaggio, dei “ducali” dal filo borbonismo all’anti borbonismo per sconfig- gere i “comunisti” guidati da un vero liberale: Lom- bardo che finisce fucilato mostrando che, dovendo scegliere, tra trasformisti e veri liberali, i Garibaldini preferivano i primi. Con buona pace della rivolu- zione liberale promessa dagli invasori……continua

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