Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Leonardo Sciascia,la Sicilia e il Risorgimento di Giuseppe Gangemi

Posted by on Feb 25, 2023

Leonardo Sciascia,la Sicilia e il Risorgimento di Giuseppe Gangemi

Presentazione del problema di ricerca

La più complessa, e di conseguenza interessante, commemorazione del centocinquantenario del- l’Unità d’Italia è certamente il numero monografico della rivista Meridiana. Questo per due motivi: il primo che il numero è fortemente influenzato dall’influentissimo auspicio che, giorno 9 aprile 2002, Carlo Aurelio Ciampi, Presidente della Repubblica in carica, manifesta in occasione dell’annuale incontro con i candidati al premio David, che si svolge al Quirinale, nel Salone delle Feste.

In quell’occasione, il Presidente invita i presenti a puntare su film storici centrati sulla “affascinante avventura del Risorgimento, la storia di un gruppo di giovani che dalla lettura dei grandi classici trovarono il coraggio di concepire e poi realizzare l’indipendenza nazionale”1. Probabilmente, in previsione del centocinquantenario dell’unità d’Italia, Ciampi ha voluto dare il tempo massimo necessario ai cineasti italiani di fare film che potessero ripetere il successo di pubblico che, nel centenario, aveva ottenuto Viva l’Italia di Roberto Rossellini; il secondo motivo è il fatto che Salvatore Lupo, a proposito di un saggio di Carmine Pinto ospitato nel numero monografico, osserva che, nel saggio in questione, “non ci sta la Sicilia luogo ideale della rivoluzione ottocentesca”2 e, di conseguenza, ci fornisce la chiave di lettura della prima parta del numero di Meridiana dedicata al Cento Cinquantenario.

L’intenzione dei due curatori del numero di Meridiana, Lupo e Marmo, di seguire la richiesta del Pre- sidente Ciampi è resa evidente da due fatti: sul piano della cinematografia, l’unico regista che abbia seguito le indicazioni è stato Mario Martone che ha prodotto un film, con la collaborazione di Giancarlo De Ca- taldo, con il significativo titolo di Noi credevamo. A questo film, il numero monografico dedica una ta- vola rotonda, che costituisce la seconda parte del numero. È nel corso di questa tavola rotonda che Lupo dichiara, a proposito del saggio di Pinto, collocato nella terza parte del numero monografico, che Pinto ignora del tutto la Sicilia in quanto luogo ideale.

La prima parte del numero monografico è costituita da numerosi saggi sulla cinematografia di Luchino Visconti (Senso e Il Gattopardo), sul romanzo di Tomasi di Lampedusa e sulla novella Senso di Camillo Boito e risponde all’esigenza di seguire l’indicazione del Presidente Ciampi, ma anche di colmare il vuoto relativo alla Sicilia mostrato dal saggio di Pinto che costituisce il contributo principale della terza parte.

L’impostazione dell’intero numero monografico risponde, come si è detto, alla sollecitazione del Presidente Ciampi ed è del tutto condivisibile mi sembra il giudizio di Lupo sul saggio di Pinto. L’unica cosa che non mi sento di condividere di questo pregevole numero è l’opinione che, per inserire la Sicilia come luogo ideale della rivoluzione italiana ottocen- tesca, siano sufficienti Senso e Il Gattopardo, sia come opere letterarie, sia come filmografia.

Ritengo, infatti, che la Sicilia come luogo ideale (o come metafora per usare il termine preferito da Leonardo Sciascia) sia completamente ed esaustiva- mente rappresentata solo dai quattro scritti che Sciascia ha dedicato al Risorgimento in Sicilia: Quaran- totto, una novella del 1958, Il consiglio d’Egitto, un romanzo storico molto documentato del 1963, e due saggi: l’Introduzione a un volume di Benedetto Ra- dice sulla rivolta Bronte e Brigantaggio napoletano e mafia siciliana, pubblicati nel 1968.

Prima del Risorgimento: Il Consiglio d’Egitto

Ne Il Consiglio d’Egitto, Sciascia fornisce una stu- penda metafora della storia che serve anche a spiegare il senso complessivo del lavoro dello storico:

1 La Repubblica,
10 aprile 2002 2 AA.VV. 2010, 159

la storia è come un albero, fatto di radici, di un tronco, di rami e di foglie. La storia delle foglie è importante, ma solo se ti aiuta a capire i rami, il tronco e le radici dell’albero. La storia di alcune o di tante foglie (per esempio la storia personale di tanti protagonisti che non sono all’altezza della storia che contribuiscono a costruire) non è sufficiente a mettere in discussione i rami, che le foglie nascondono, il tronco o le radici. Per mettere in discussione una narrazione storica occorre mostrare che rami, radici e soprattutto il tronco non sono costruiti dalla sostanza mostrata da poche foglie.

Nel romanzo, Sciascia mette a confronto l’azione dell’avvocato e intellettuale illuminista Francesco Paolo di Blasi e l’abate Giuseppe Vella per il grande imbroglio che quest’ultimo ha ordito. Un imbroglio che ha avuto risonanza europea e nel quale anche Di Blasi è cascato (al punto da inserire, in una sua opera, Prammatiche del Regno di Sicilia, dal 1339 al 1559, il falso volume di Vella tra le fonti di diritto pubblico). Il colpo di genio per il falso viene al futuro abate Giuseppe Vella in seguito alla casuale visita, dovuta a un fortunale che costringe la nave dell’ambasciatore marocchino Abdallah Mohamed ben Olman a rifugiarsi a Palermo, e alla scoperta che nessuno in quella capitale conosce l’arabo. Vella, che è maltese, dove si parla un dialetto arabo che si scrive in caratteri latini e ignora del tutto i caratteri della scrittura araba, porta in giro l’ospite per mostrargli i vecchi mano- scritti depositati in Palermo. L’ambasciatore si ferma a consultare un volume e lo mette subito da parte perché, dice, è l’ennesima vita di Maometto: “una vita del profeta, niente di siciliano: … ce ne sono tante”3. Giuseppe Vella traduce, al codazzo di reli- giosi e intellettuali presenti, in modo del tutto di- verso: “Sua eccellenza dice che si tratta di un prezioso codice: non ne esistono di simili nemmeno nei suoi paesi. Vi si racconta la conquista della Sicilia, i fatti della dominazione…”4.

È l’inizio dell’imbroglio. Un imbroglio, come Sciascia fa dire a Francesco Paolo Di Blasi, può diventare “uno di quei fatti che servono a definire una società, un momento storico. In realtà, se in Sicilia la cultura non fosse, più o meno coscientemente, impostura; se non fosse strumento in mano del potere baronale, e quindi finzione, continua finzione e fal- sificazione della realtà, della storia …”5. È Sciascia,

ovviamente, che parla esprimendo un giudizio che vale per il 1781-1786, periodo in cui è ambientata gran parte dell’azione del romanzo, e vale anche per il 1848 (novella Quarantotto nel volume Gli zii di Sicilia), per il 1860 (Bronte, su cui Sciascia scrive una introduzione a un vero libro di storia che si trasforma in critica letteraria alla novella Libertà di Giovanni Verga) e per gli anni successivi all’Unità (saggio su Brigantaggio napoletano e mafia siciliana).

Ne Il consiglio d’Egitto, così Sciascia fa proseguire il suo coprotagonista Di Blasi. “Voi ricordate quella dissertazione del principe di Trabia sulla crisi agri- cola. La crisi, diceva il principe, ha come causa l’ignoranza dei contadini …”6. Questa l’impostura della cultura siciliana: attribuire ai contadini la re- sponsabilità di una crisi, che è invece responsabilità dei baroni, della loro incapacità di aumentare la pro- duttività dei feudi, e non considerare che le usurpazioni di terre comunali e demaniali hanno trasferito i problemi dei feudi anche alle proprietà del demanio e dei Comuni.

Perché erano proprio queste usurpazioni che per- mettevano all’aristocrazia di partecipare “attivamente a un sistema finanziario complesso con rendite allo- diali, ovvero patrimonio libero da vincoli feudali, uti- lizzate in varie attività altamente proficue (finanza, commerci, traffici)”7.

Nella novella Quarantotto, semplificando e generalizzando, Sciascia sostiene che i feudi costituivano un terzo della proprietà terriera di un Comune, la proprietà della Chiesa un secondo terzo e l’ultimo terzo era distribuito in piccole proprietà o apparteneva al demanio e ai Comuni. Chiesa e baroni pagavano poche tasse per antichi privilegi o per false dichiarazioni dei redditi che nessuno smascherava (il controllo era affidato ai decurioni comunali e questi erano, spesso, uomini legati alla Chiesa o alla nobiltà).

Il personaggio letterario Di Blasi sviluppa ulteriormente il punto in una conversazione con Pietro Lanza Stella, principe di Trabia. Quest’ultimo dichiara la propria perplessità sull’opera del viceré Domenico Caracciolo che pretenderebbe di realizzare un censimento catastale siciliano, sul modello del Catasto Teresiano realizzato dagli Austriaci e attivo da un quarto di secolo, non su quello del Catasto Onciario realizzato, solo per il Regno di Sicilia di qua

  • Sciascia 1976a, 12
  • Sciascia 1976a, 12
  • Sciascia 1976a, 126
  • Sciascia 1976a, 126
  • Carrubba 2020, posizione 442 su 1.929

dal faro, quaranta anni prima. Questa la conversa- zione tra i due: “Se il progetto di un nuovo censimento, di un nuovo catasto, che il marchese Caracciolo ha mandato, riuscirà a passare, ne vedremo di belle: pagheremo le tasse sui nostri feudi né più né meno di come un qualsiasi borgese le paga sulla sua mezza salma … E non vi sembra logico – disse il Di Blasi – e più che logico giusto, che chi ha mezza salma paghi per mezza salma e chi ha mille salme paghi per mille?”8.

Ovviamente al principe di Trabia non solo non appare logico, ma persino sovversivo il pensarlo. Invece, quella dell’uguaglianza nel pagare le tasse, in proporzione a quanto si guadagna, è una delle tante riforme auspicate da Di Blasi, persona storica vera che su questa idea di uguaglianza ci rimetterà la vita da lì a dieci anni.

Il secondo punto è che l’imbroglio di Vella interferisce con una delle acquisizioni fondamentali del diritto pubblico del tempo: il diritto feudale siciliano era stato fondato su principi che giustificavano tutti i privilegi feudali perché il diritto pubblico che ne derivava sosteneva che i feudi erano assoluti, cioè sciolti da ogni vincolo rispetto ai sovrani Normanni e persino al Gran Conte Ruggero con cui i baroni avevano conquistato il regno.

Le opere dei principali giuristi siciliani erano favorevoli ai feudatari; la tesi contraria era sempre stata minoritaria. A Napoli, invece, era il contrario. Caracciolo cercava di smontare la tesi favorevole ai nobili per poter realizzare quelle riforme senza trovarsi contro i giuristi di ogni ordine e grado. Vella gli offriva la possibilità di farlo. Solo che l’abate non era interessato a offrire la possibilità al Viceré, bensì al sovrano, Ferdinando IV, non senza offrire delle eccezioni ai nobili che avevano trovato il modo di corromperlo.

Ecco come Sciascia narra la questione: “Loro, ba- roni e giuristi, affermavano che [il Gran Conte] Ruggero e i suoi baroni erano stati, nella conquista della Sicilia, come soci di una impresa commerciale, il re qualcosa di simile al presidente di una società; che i vassalli dovevano ai baroni la stessa obbedienza che al re”9. In altri termini, i feudatari erano sovrani nei loro feudi e, attraverso le usurpazioni, anche nelle terre di altri enti pubblici.

Nel codice arabo inventato da Vella le cose venivano raccontate da un punto di vista neutrale a feudatari e sovrano. Il punto di vista degli Arabi nel mentre che vengono cacciati dalla Sicilia. Secondo questo falso codice, che, in realtà, narra solo la vita di Maometto, “le cose della Sicilia normanna sarebbero apparse, per testimonianza diretta e disinteressata degli arabi, per lettere degli stessi re normanni, in tutt’altro ordine: tutto alla Corona, e niente ai baroni”10.

Quello che Sciascia non sa, e forse Vella sapeva, è che entrambe le tesi (baroni subalterni e baroni soci del sovrano) erano compresenti, prevalendo ora l’uno ora l’altro, già al tempo dei Normanni. Se ne trova traccia nelle due versioni della Chanson d’Aspremont fatte pubblicare dagli Altavilla (di importanti versioni di questa Chanson che sviluppano questo tema in epoca successiva agli Altavilla, ma non più in Sicilia, bensì in Toscana e in Veneto, ce ne sono almeno altre 4 fino a metà del XV secolo). Comunque, la prima Chanson d’Aspremont in assoluto viene manoscritta tra il 1165 e il 1196, la seconda viene manoscritta sotto il regno di Federico II. La prima considera il re come un socio dei baroni e la seconda i baroni come subal- terni che devono ubbidire come tutti gli altri sudditi11. Nessuno studioso della Chanson d’Aspremont ha mai riferito il problema alla sola Sicilia, ma sempre all’intero Regno di Sicilia (l’isola più la parte conti- nentale). Ed è, infatti, vero che il problema del- l’uguaglianza fiscale, nel XVIII secolo, e successivo, si presenta identico in Sicilia, in Calabria, in Puglia, etc. Questo è presumibilmente chiaro anche a Scia- scia che introduce nella consapevolezza con cui ha presentato Caracciolo, Vella, Di Blasi, e il sovrano, i quali erano mossi dalla convinzione che, risolvendo il problema in Sicilia, lo si sarebbe risolto anche nel Napoletano mentre, non risolvendolo, sarebbe rimasto non risolto ovunque.

Comunque, Vella affrontava il problema per la sola Sicilia dato che gli Arabi che osservavano la que- stione dei feudi normanni dall’esterno lo facevano, secondo il falso codice, solo nell’isola (perché gli emirati arabi sul continente erano già stati liquidati prima dei Normanni, dai Bizantini).

Il canonico Rosario Gregorio, altro vero personag- gio storico contemporaneo di Vella, aveva notato al- cune contraddizioni nel Consiglio di Sicilia, nome con cui Vella ha battezzato la traduzione del falso co-

  • Sciascia 1976a, 37
  • Sciascia 1976a, 43
  • Sciascia 1976a, 43
  • Per approfondimenti su questo tema, cfr. Gangemi 2022

dice: gli Arabi del manoscritto si comportavano poco da Islamici (non pregavano secondo il modo dovuto, non si dividevano il bottino secondo le regole cora- niche, non facevano le abluzioni richieste). Gregorio, messo in sospetto da questa constatazione, si era messo a studiare l’arabo, ovviamente, da autodidatta. Cosa per la quale aveva bisogno di tempo.

Intanto, la questione si andava aggravando perché Vella aveva scoperto che i baroni temevano la sua opera anche per altri motivi, meno confessabili. Per esempio, temevano “che nel Consiglio di Sicilia ci fosse qualcosa che riguarda un [proprio] feudo … che quel feudo apparteneva alla Corona e che [il feu- datario lo deteneva ancora] in forza di un’antica usurpazione”12. Con il vento che tirava da Napoli e con Caracciolo come viceré, non c’era da stare tranquilli. Molti feudatari capivano e hanno cominciato a riempire di regali e inviti il Vella. La soluzione al problema, ci vuole dire Sciascia con il suo romanzo, verrà dalla corruzione.

Sciascia si è documentato sulla storia della Sicilia e sa, ovviamente, che, dopo i governi riformisti di Caracciolo e Francesco d’Aquino, il governo successivo del viceré e arcivescovo di Palermo, Filippo Lopez y Royo, sarà uno dei più corrotti di Sicilia e nemmeno il governo napoletano, in quel periodo, scherzava in tema di corruzione, essendo il primo mi- nistro, Giuseppe Beccadelli di Bologna, marchese della Sambuca, anch’egli coinvolto nella vendita dei beni dei Gesuiti.

“I gesuiti in Sicilia, quando furono espulsi, posse- deano fondi, i quali nel primo anno dell’amministra- zione regia diedero centocinquantamila ducati di rendita, nel secondo anno ne diedero settantamila, nel terzo quarantamila: ed a questa ragione furono calcolati allorché si vendettero. Ab uno disce omnes”13. Coloro che hanno venduto questi beni, dagli agenti locali agli agenti del governo nazionale più fedeli a se stessi che al re e alla nazione, hanno spogliato la collettività per il proprio interesse privato (per pagare a un quarto del valore, gli acquirenti hanno certamente spartito il guadagno con coloro che hanno avuto il potere di decidere se vendere e come vendere).

Lo storico Giuseppe Renda butta sulla vicenda il carico da 11: “La gran parte [dei beni dei Gesuiti] era stata venduta a grossi acquirenti, fra i quali, mediante persone terze, il Primo Ministro Sambuca, e i contadini concessionari dei lotti erano stati per lo più cacciati via”14.

Tornando al romanzo di Sciascia, Vella finisce per diventare pericoloso per tutti. Quando ha annunciato di aver trovato un altro codice, con nome pro- grammato il Consiglio d’Egitto (da cui Sciascia ricava il titolo del proprio romanzo), e che si apprestava a tradurlo, molti intuirono che egli potesse dare origine a un altro giro di ricatti anche per chi lo aveva già corrotto. Era stato chiamato un professore di Vienna (Joseph Hager) che l’Arabo lo conosceva bene. Ma siccome nessun Siciliano conosceva l’Arabo, non c’era chi potesse controllare chi dei due avesse ragione circa il cosa stesse scritto ne il Consiglio di Sicilia (i manoscritti del Consiglio d’Egitto, versione Vella, non ancora pubblicati, erano stati opportunamente nascosti dal falsario). Ci vorranno anni perché l’abate venga smascherato e condannato e il suo falso dichiarato tale.

Nel frattempo, Di Blasi, nel romanzo, e anche nella realtà, ha avuto modo di rendersi conto che la soluzione del Vella, la corruzione, sarebbe stata la soluzione adottata per “risolvere” la questione dell’uguaglianza a favore del principe Trabia. Glielo confermava il fatto che Caracciolo veniva rimosso come viceré e sostituito da un uomo più diplomatico, Francesco d’Aquino, principe di Caramanico. Quest’ultimo proseguiva, con più accortezza, la stessa azione riformatrice di Caracciolo. Purtroppo, moriva il 9 gennaio 1795 e forti sospetti erano ancora avan- zati da alcuni storici che sostengono che fosse stato avvelenato.

Con la morte di Caramanico, si chiudeva dopo 15 anni la stagione riformista in Sicilia. Il seguente viceré è l’arcivescovo di Palermo, Filippo Lopez y Royo, che darà vita ad uno dei governi più corrotti mai avutosi in Sicilia. Di Blasi intuiva che la corru- zione era la soluzione adottata e si convertiva dal riformismo alla rivoluzione, naturalmente a quella giacobina sull’esempio della Francia rivoluzionaria.

Di Blasi ha cominciato a partecipare a una con- giura che è stata scoperta e lo ha portato a essere giu- stiziato insieme a tutti i suoi compagni che non hanno tradito i complici, malgrado la tortura subita. Joseph Hager, secondo quanto racconterà Giuseppe Pitré, ha assistito alla sua esecuzione.

  1. Sciascia 1976a, 63
  2. Cuoco 1913, 55, nota 1 14 Renda 2010, 39

Nel romanzo, Vella, intanto, perdeva la cattedra universitaria di arabo che gli era stata concessa a Pa- lermo e finiva condannato a 15 anni di arresti, la gran parte dei quali passati ai domiciliari.

Sciascia si immagina un rapporto molto stretto tra Di Blasi e Caracciolo. Secondo Francesco Renda, questo rapporto non c’è stato in quanto Caracciolo aveva fatto due errori: si era avvalso solo di due col- laboratori napoletani e governava con molta diffi- denza nei confronti dei Siciliani; non aveva alcuna conoscenza della storia siciliana e, soprattutto, della storia costituzionale siciliana. Se l’avesse avuta, avrebbe fatto meno errori e avrebbe potuto fare rife- rimento al rafforzamento delle posizioni minoritarie del diritto pubblico siciliano, quelle che erano dalla parte del sovrano e contro i nobili. Ed era questo il punto sul quale Caracciolo poteva essere aiutato da Di Blasi: la storia del diritto costituzionale siciliano. La Sicilia alla fine del XVIII secolo appariva il luogo dove confliggevano due visioni giurisdizionali, quella della corona e quella del baronaggio, che si riteneva non un semplice corpo privato ma il depositario del vero e genuino spirito della nazione siciliana, ingiustamente preso di mira dal corso politico riformatore. Una posizione giustificata nella nota tesi, elaborata negli anni Quaranta [del Settecento] da Carlo Di Napoli, di una giurisdizione baronale come diritto originario fondamentale e non come semplice potere delegato del sovrano”15.

Tuttavia, pur con i suoi limiti di conoscenza della questione giuridica siciliana, Caracciolo aveva capito che la riforma fiscale migliore per la Sicilia sarebbe stato il catasto, che avrebbe “potuto cambiare i ter- mini stessi su cui si reggeva il potere aristocratico”16. Ovviamente, non il Catasto Onciario realizzato a Napoli, bensì il Catasto Teresiano che egli conosceva molto bene perché era stato molto discusso a Parigi, la città dove ha vissuto a lungo, e perché ne aveva parlato spesso con Pompeo Neri a Torino dove soleva incontrarsi e discutere della riforma17……..continua

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.