Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Leopardi e il suo antagonista

Posted by on Ott 29, 2018

Leopardi e il  suo antagonista

Quando all’aria molle dei centenari i prati sovrabbondano di malva e di camomilla, punge lo spirito un’acerba nostalgia di sapori forti, d’erbe piccanti, e , se si è un poco umanisti, ci si sorprende a scandire i due esametri di Virgilio, che esaltano, nei secoli, la panzanella: “Thestylis et rapido fessis messoribus aestu / allia serpillumque herbas contundit olentes.”

 

   Nascono fantasie incongrue di celebrazioni a rovescio. Si pensa a una commemorazione di Dante affidata, in parti uguali, a Cecco Angiolieri e a Cecco d’Ascoli. Si vorrebbe panegirista del Tasso il suo amico Galileo e, del Monti, il Foscolo o viceversa. Per dire le lodi del Carducci si richiamerebbero ai propri corpi le ombre invelenite di Mario Rapisardi e di Pietro Fanfani. Che affilatura di armi e di unghie! Che ridda di colpi mancini! Che magnifica scappata ffinale di lividi razzi! In quest’ordine di idee (o di capricci) il discorso ufficiale per il centenario del Leopardi  sarebbe spettato, a pieno diritto, a Niccolò Tommaseo.

   Che tra quel da Recanati e quel da Sebenico ci fosse una ruggine annosa è noto più o meno a quanti hanno una certa dimestichezza con la cronaca spicciola dell’Ottocento romantico. Però nessuno saprà mai quante se ne sian dette in pubblico e in privato, a voce e per iscritto, direttamente e indirettamente, quei due letteratissimi, che, in fatto di schermaglie, la sapevano lunga. Un’ampia raccolta, nondimeno, dellepiù significative contumelie uscite da quelle penne illustri si può trovare in un articolo del Moroncini, pubblicato nella “Nuova Antologia” del 16 marzo 1931. Però il Moroncini, benemerito per tanti aspetti, era uno di quei leopardisti non diremo arrabbiati, bensì idolatri, che non ammettono esserci nel loro nume macchia o imperfezione di sorta. Perciò nel racconto con cui accompagna la sua ghiotta silloge la colpa è tutta del Tommaseo, il quale sarebbe stato il primo ad attaccar briga per vanità offesa e al povero Leopardi non avrebbe perdonato né in vita né in morte, neppure trenta e più anni dopo il 14 giugno 1837. Lasciamo queste inquisizioni, che non approdano a nulla. Dato e non concesso che il Tommaseo sia stato il primo ad intingere la penna nel fiele, bisognerebbe provare che a fargliela intingere e a persistere nei severi giudizi sia stata la vanità ferita e non altra meno bassa ragione. Comunque, quell’attribuire al Leopardi la incontaminatezza di Cristo e al Tommaseo la bassezza di Giuda, come fa il Moroncini, è perlomeno opera di cattivo avvocato. Avesse il Leopardi opposto a uno sdegnoso silenzio o un generoso perdono alle acredini e ai malumori del Tommaseo! Invece il Leopardi aveva, anche lui, il suo fiele ed anche lui vi intingeva la penna volentieri. Prova ne è questo epigramma (ben temprato ed appuntato, benché un po’ lunghetto) che egli dettò nel 1836, quando il Tommaseo era a Parigi: “Oh sfortunata sempre / Itaòia, poi che Constantin lo scettro / Tolse alla patria, ed alla Grecia diede! / Suddita, serva, incatenata il piede /

  Fosti d’allor, Mille ruine e scempi /Soffristi: in odio universala e scorno / Cresci di giorno in giorno; / Tal che quasi è posposto/

   L’Italiano al Giudeo. / Or con pallida guancia / Stai la peste aspettando. Al fine è scelto / A farti nota in Francia / Niccolò Tommaseo.        

   Fiele per fiele, epigramma per epigramma, confessiamo che dal punto di vista dell’arte preferiamo, di molto, il distico fiero e snello del Tommaseo contro il Leopardi, che ancora oggi nuoce più alla reputazione del dalmata di quanto dia gloria al suo nome la sua magnanima opera a pro di Venezia nsl 1848 e nel 1849: “Natura con un pugno lo sgobbò: / Canta, gli disse irata; ed ei cantò.”

   L’epigramma, scritto mentre il Leopardi era vivo, non è davvero impastato con lo zucchero, ma appare addirittura atroce perché consegnato  in una lettera a Gino Capponi, del 17 luglio 1837, cioè di appena un mese dopo la morte del Leopardi. E nella lettera è preceduto , tra l’altro, da queste parole: “Il Leopardi è morto: ho pregato un po’ anco per lui. Affettuoso di fondo, credo non fosse; e me lo prova il piacere al Giordani”. Il Moroncini, commentando, parla di empietà r di cinismo e, scandalizzato, per poco non si fa il segno della croce. Perché? Noi siamo sicuri che il Tommaseo avrà pregato davvero per il Leopardi morto e non già da tartufo, ma da quel sincero cristiano che era. Poi si è lasciato riprendere dal dèmone malefico e non ha potuto fare a meno di riferire al Capponi l’epigramma. Come un anno prima, scrivendo da Parigi al Cantù, non poté fare a meno di congegnare contro il Leopardi questo davvero atroce bisticcio, di un grottesco apocalittico, che  sfuggì all’attenzione del Moroncini: “Il Ferrari del Vico farà un ateo, come di Dante fu fatto un miscredente e un liberale alla foggia moderna Nel dumila gli eruditi rammentatevi dimostreranno il Manzoni panteista e il Leopardi quacchero. Ma nel dumila il Leopardi non avrà d’eminente nell’opinione degli uomini né anco la spina dorsale, perchè i bachi della sepoltura gli l’avranno appianata”. Quel dèmone era potentissimo nel Tommaseo, più potente, a volte, della sua stessa fede cristiana. non cè bisogno di psicanalisi per accorgersene : tanto è vero che il più noto aspetto di Niccolò è proprio quello del maldicente.

   Maledico egli era con voluttà, come solo può esserlo un filologo esperto di tutti i segreti della parola. La sua non è una maldicenza leggera, spensierata, da salotto : di quelle malicenze che rendono così amabilmente pepate le pagine di certi memorialisti mondani No, eccolo lì al suo tavolino:  scruta i vocaboli, li palpa, li fiuta: sceglie quelli più velenosi, ne  estrae i succhi che lascino sulla pelle il più irritante bruciore. Eccolo lì a distillare concetti, a combinare giochi di parole e bisticci, a pensare e a soppesare epigrammi. Eppure, vedete come nell’epigramma tristemente famoso la punta acuita dal Toimmaseo per ferire il Leopardi si ritorce contro il Tommaseo stesso. Aveva voluto offendere e, invece, loda. Chi è che fa i poeti? La natura: anzi la natura, ministra di Dio, di quel Dio – come dirà il Tommaseo stesso in un momento migliore – che manda i poeti e lr rose. “Poeta nascitur”. E qual è il privilegio dei poeti? Il cantto. Ora il Tommaeo riconosce che il Leopardi fu fatto poeta dalla natura, la quale gli impose di cantare. Ma la natura, si dirà, era irata. Sì. ma il canto non è mai iracondo, ha sempre in sè un fondo di dolcezza che annulla l’ira e la tramuta in consolazione, sia pure inconsapevole:  avviene, cioè, una catarsi. E allora, ecco che l’epigramma del Tommaseo, crudele quanto volete, si risolve nei versi dolcissimi che Alessandro Poerio, l’amico del Tommaseo e del Leopardi, compose in memoria del suo Giacomo: “Se per deserto strano / Il dubbio ti traeva senza riposo, / Morìa tremulo e lento / In arcana mestizia il tuo lamento. / Per precipite via / Se più dal sacro Ver givi lontano, / Non fu bestemmia il disperato accento, / E l’affetto il volgeva in armonia /Che al Cielo risalìa.”

   Si direbbe che dalle premesse del Tommaseo, poste là con intento di offesa,il Poerio abbia tratto la conseguenza vera: che la poesia è sempre consolatrice, che consolare è la sua funzione, nell’atto in cui essa nasce, può essere ferito, ma non già esacerbato e turgido d’odio. Questo aveva già detto il Poerio nel 1834, vivente il Leopardi, in alcune stanze abbozzate. bellissime, dirette proprio al Leopardi: “Ma, come il raggio che dounque offende / Si torce in alto ed alla patria torna, / Tale il tuo verso ascende;  / Ed il tuo disperar così si adorna/ E trasfigura di beata luce, / Che al Ver, cui chiami errore, altrui conduce. / E manda a’ tuoi lamenti innamorati / L’eterno verdeggiar dell’altra sponda / I suoi spirti odorati. / Spesso l’anima mia si fé profonda / Di gioia nel tuo carme, e sol mi dolsi / Che dall’affanno tuo pace raccolsi. “

   Diversità – si vorrà dire – di generi letterari, cioè ode o canzone nel Poerio ed epigramma nel Tommaseo? O meglio, per non incorrere in scomuniche critiche, stato d’animo lirico nel Poerio e satirico nel Tommaseo? No: la diversità è tutta morale: il Poerio non avrebbe mai scritto l’epigramma del Tommaseo; il Tommaseo avrebbe potuto scrivere le stanze del Poerio solo se fosse risalito a quella regione di pace e di luce in cui la sua nobile anima viveva la sua vera vita e da cui la tormentata natura lo traeva giù troppo spesso.

   Iroso, ringhioso, uggioso, a volte, per l’arguzia sofistica che metteva nelle sue censure, è però giusto riconoscere che se il Tommaseo fu maledico, e acerbamente maledico, malevolo non fu, nel senso almeno che non desiderò mai deliberatamente il male di alcuno. Gli fu familiare la malignità (una malignità inquisitoria, di rigorista, acuita, come si è detto, da una sorta di sadismo tutto filologico), ma l’odio non lo conobbe e la cupezza del rancore gli fu estranea. Pronto a perdonare e a riconcilòiarsi, riconobbe, d’altra parte, i prori torti con una generosità che è veramente di pochi, confessò con sincera umiltà le proprie colpe e ne chiese perdono non solo a Dio, ma agli uomini. E, comunque, vi era quasi un bisogno di soffrire per gli altri e una sete di sacrificio così grande che quelle ombre quasi scompaiono in questa luce. Degno veramente che “ in un momento d’affetto “ il Manzoni gli dicesse (è il Tommaseo stesso che riferisce) “una di quelle parole che vanno intese senza vanità perch’è appunto l’affetto che le detta. ma che compenserebbero una intera vita di ben più duri sacrefizi: – Ell’è un diamante”.

   Insomma, una tempra generosa fino all’eroismo. E fu proprio quel suo eroismo d’uomo del Risorgimento che gli fece stimare nociva la lettura del Leopardi alla gioventùitaliana del suo tempo. “troppo abbisognante”, come egli si espresse, “d’affetti e d’idee che dalla sconsolata diffidenza e dall’ozioso lamento la muovano alle operose speranze e agli atti animosi”.Sbagliava. forse, ché il pessimismo del Leopardi non induce fiacchezza e può tramutarsi, come abbiamo sentito dal Poerio, in alto conforto. Ma è quel che pensavano , con il Tommaseo,altri grandi uomini della sua generazione: il Mazzini, il Capponi e, almeno per quel che spetta alle “Operette morali”, lo stesso De Sanctis. Si intende, però, che nessuno di questi mise nelle proprie censure l’acredine con cui formulò le sue il Tommaseo.

   E nondimeno dalla presenza del Leopardi egli non riusciva a liberarsi. Il senso che egli aveva della propria vocazione, in quanto poeta annunziatore del vero, il desiderio tutto umanistico di mostrarsi esperto di ogni segreto dell’arte e quel suo bisogno tra pedagogico e pedantesco di correggere l’opera altrui, di riplasmarla secondo un archetipo etico ed estetico, lo indussero, più di una volta, a misurarsi con il Leopardi poeta. Se qualcuno pensa  che da questa emulazione sia venuto fuori un Leopardi riveduto e corretto moralisticamente, un uggioso e mostruoso Leopardi “ad usum Delphini, questo qualcuno sbaglia in pieno. Ne è venuto fuori un Tommaseo originalissimo, concitato o grave, nostalgico o scherzoso, che forse sarebbe rimasto nell’ombra senza quello stimolo ad entrare in gara con il Leopardi. Intendiamoci bene: qui non si tratta di giudicare una tenzone poetica tra pastori di Teocrito o di Virgilio, con relativo conferimento di ptrmi. Ma qualche indicazione potrà consigliare una rilettura di questa o quella poesia del Leopardi e del Tommaseo: ne verrà al lettore avveduto un senso più preciso di quel che è caratteristico nei due poeti quanto all’animo e ai mezzi espressivi.

   Rileggete, dunque, del Leopardi, nella canzone “Sopra il monumento di Dante”, le stanze famose sugli italiani morti nella  campagna di Russia e poi del Tommaseo le strofette intitolate “Gl’Italiani morti in Ispagna” e ditemi se in codesti ottonari a terzetti monorimi, esemplati  sul “Die irae”, il Tommaseo non ha voluto contrapporre la sua idea cristiana della patria a quella anticheggiante e uman9istica che si delinea nelle ampie volute della canzone leopardiana. Rileggete, del Leopardi, la canzone “Nelle nozze della sorella Paolina”  e del Tommaseo l’ode “A una marchesa partoriente” e soprattutto la poesia “La Donna”, dedicata alla scrittrice francese George Sand: ls contrapposizione, anche qui, è evidente: quel che della donna, della sua natura, dell’amore, della maternità Il Leopardi aveva detto con animo di filosofo antico, il Tommaseo lo ridice con animo e accento di cristiano. Dall’ “Inno ai patriarchi” del Leopardi, e segnatsamente dai versi idillici su Adamo che contempla , beato, il giovane mondo, il Tommaseo trasse certo ispirazione per quella parte del suo inno “I Santi”, in cui tocca, anch’egli, la vita dei Patriarchi: “O tempi primi! Oh gioventù del mondo, / Quando fra terra e ciel venìa più lieve, / Più rilucente un velo, e le foreste /Vergini ancor nell’alito di Dioi; / Piena d’arcane vision la nottr, /Piene di sacri mormorii le fonti, /  E ildolor di fatidiche speranze. / E’ sublime il dolor nella speranza. /Come il Battista della madre inn seno, /Tale esultava a’ Patriarchi in cuore / La viva fè de’ secoli venturi.”

    Il Tommaseo, come era da aspettarsi da lui, ha cristianizzato il primitivismo del Leopardi. La speranza dei suoi primitivi non viene da ignoranza ed illusione, come nel Leopardi, bensì da scienza: dal sapere, cioè, che  verrà un Liberatore. E bisogna riconoscere che il suo quadro del mondo primitivo ha un non so che di più vergine e luminoso, di più misteriosamente poetico che non quello datoci dsl <leopardi nell’inno.

   I lettori del Leopardi sanno bene  che egli mise in caricatura il Tommaseo, senza pur nominarlo, nella “Palinodia” a Gino Capponi: è proprio Niccolò quel letterato saccente e pedante che consiglia al Leopardi di mutare ispirazione: “Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco / Di poetar maestro, anzi di tutte / Scienze ed arti e facoltadi umane, / E menti che fur mai, sono e  saranno, / Dottore, emendator, lascia, mi disse, / I propri affetti tuoi. Di lor non cura / Questa virile età, volta ai severi / Economici studi, e intenta il ciglio / Nelle pubbliche cose. Ilproprio petto / Esplorar che ti val? Materia al canto / Non cercar dentro te. Canta i bisogni / Del secol nostro e la matura speme. /Memorande sentenze! ond’io solenni / Le risa alzai quando sonava il nome / Della speranza al mio profano orecchio  / Quasi comica voce, o come un suono / Di lingua che dal latte si scompagni.”

   Ebbene, se togliamo via, da questi versi, i colori della satira, resta il consiglio magnanimo che il Tommaseo diede mille volte a se stesso e agli altri, di vincere l’egoismo, di uscire dalla solitudine dell’io (“esci din te”, diceva con potente espressione), di ritrovare la pienezza della vita nella comunione con la vivente natura e con gli uomini fratelli. Si leggano di lui, trale altre, due poesiole gemelle, “Non si rinchiudere in sé” e “Vita nuova”: m meno bella la prima, bellissima la seconda, sono tutte e due una trascrizione lirica del consiglio messo in burletta dal Leopardi nella “Palinodia”.

 Per il Leopardi, però, non solo la speranza, ma anche la natura era morta. Lo dice,indimenticabilmente, nella stupenda canzone “Alla primavera”, in cui pure non si rassegna a quella morte e rievoca il tempo in cui l’anima umana comunicava con la natura in beata familiarità e chiede disperatamente un segno di vita al mondo muto e sordo. Per il Tommaseo, invece, la natura era così viva che nel senso religioso con cui egli, cattolico,, la canta, pare di sentire, a volte, come un soffio di esaltazione panteistica. Tutta la chiusa della poesia “Espiazione” (dedicata all’amico del Leopardi e suo, Alessandro Poerio) è come una concitata ed inebriata confutazione del canto leopardiano: “Questa che muove e sta, suona ed olezza, / E in sette brilla ed in mille color’, / E palpita di morte e di bellezza, / Materia arcana, pregnante d’amor, / E’ aura che da lunge, messaggera / D’ignote terre, volando ne vien; / E’ di voci armonia, che non intera / Giunge, e si perde nell’ampio seren./ Questo, che me di tanto amor circonda, / Ampio universo, e si curva su me,  / Spirito è tutto: e, come sole in onda, / Dio vi penetra e lo compie di sé. / Come del nostro sol corrono i giri  / Immensi intorno  a più splendido sol, /Tal d’amor mille io veggo e di martiri  / Rote scontrarsi, e con mistico vol / Di mondo in mondo, e d’una in altra prova / Scendere a schiere gli spirti e salir; / E ogni cosa rifarsi, e sempre nuova  / Onda di spirti e di mondi venir. “

  Avremmo voluto accennare soltanto e non abbiamo potuto fare a meno di citare. Ancora due citazioni e finiamo.

   Notissima è la poesiola del Leopardi intitolata “Imitazione” (“ Lungi dal proprio ramo, – Povera foglia frale, – Dove vai tu?” ecc. ) e che è, infatti, una libera traduzione della “Feuille” di Arnaut: senonché, come ha ben osservato Mario Fubini nella sua bella edizione dei “Canti” leopardiani, la foglia che per il poeta francese è un’allegoria di lui stesso, esule dalla Francia, per il Leopardi “acquista una vita autonoma,  diventando una delle infinite creature, che la natura nel suo ordinario corso senz’altra forza travolge”; e però l’accento di quei versi non potrebbe essere più leopardiano. Il Tommaseo ha, anche lui, dei versi “A una foglia”, che non possono non far pensare, per contrasto, a quelli del Leopardi “Foglia, che lieve a la brezza cadesti  / Sotto i miei piedi, con mite richiamo / Forse ti lagni perch’io ti calpesti. / Mentr’eri viva sul verde tuo ramo, / Passai sovente, e di te non pensai;/  Morta ti penso, e mi sento che t’amo. / Tu pur coll’aure, coll’ombre, co’ rai / Venivi amica nell’anima mia; / Con lor d’amore indistinto t’amai. / Conversa in loto ed in polvere, o pia, / Per vite nuove il perpetuo concento / Seguiterai della prima armonia. / E io, che viva in me stesso ti sento, / Cadrò tra breve, e darò del mio frale / l fiore, all’onda, all’elettrico, al vento. / Ma te, de’ cieli nell’alto, sull’ale / Recherà grato lo spirito mio; / E, pura idea, di sorriso immortale / Sorriderai nel sorriso di Dio.”

   Poesia francescana, per quel senso delle cose come di esseri vivi e cari che hanno una vita simile, in parte, alla nostra (non cose, ma creature) e insieme poesia platonica, anzi rosminiana (non a caso essa reca la data del 1855, l’anno della morte di Antinio Rosmini9, per quel risalire dalla foglia all’idea della foglia e da questa a Dio. Comunque, vi è un grido di resurrezione, chee vuol essere  una risposta al senso di morte che c’è nella poesia del Leopardi: se questi si affratella alla foglia, nella comune condanna all’annientamento, il Tommaseo sente che la medesima promessa di rinascita in Dio è fatta all’uomo e alla foglia sorella. Nell’edizione dei “Canti”, uscita nel 1831, il Leopardi accompagna la canzone “Alla sua donna” con un’avvertenza in prosa, tutta piena di una grzia sinuosa e leggera, con qualche lampo di briosa ironia, che, tra quelle liriche eloquenti o appassionate, sorprende e ricrea come un felice scherzo o allegretto, dalle note serene: “La donna, cioè l’innamorata dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e di virtù celeste ed ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la “donna che non si trova”. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare che questa) sia mai stata finora, o debba mai nascere: sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi cintemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei dei sistemi delle stelle. Se questa canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà per certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, poiché fuor dell’autore, nessuno amante tenero vorrà fare all’amore col telescopio”.

   Il Tommaseo prese lo spunto dalla canzone “Alla sua donna” per la sua poesia “L’ideale” (il titolo stesso dice la parentela): più ancora  che dalla canzone, dalla nota che abbiamo riferito. Si intende che anche qui egli cristianizza il Leopardi e dove questi dice Platone egli direbbe volentieri Rosmini.  

Alfredo Saccoccio

 

1 Comment

  1. bellissimma la dissertazione di Saccoccio con un finale illuminante: non esiste la donna, se non nel sogno dell’uomo… Infatti Eva nacque da una costola di Adamo mentre lui dormiva!… lo dice anche la Bibbia! siamo fregate!…o piuttosto siamo tutti uguali?
    Caterina Ossi

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