L’equità come filo conduttore dell’illuminismo napoletano di Giuseppe Gangemi
Nel 1720, Vico pubblica il De Uno in cui formula l’idea che la società non si reggerebbe se gli uomini fossero solo quello che immagina Machiavelli. La società non esisterebbe se gli uomini non fossero guidati da un istinto – frutto della Provvidenza – che li porta a passare dal privilegiare esclusivamente l’interesse personale al privilegiare anche l’interesse universale.
Entrambi traggono ispirazione dalla storia di Roma e Vico accetta in toto l’idea di Machiavelli che il centro propulsore della storia romana sia stato l’avere istituzionalizzato il conflitto tra patrizi e plebei. Istituzionalizzare la plebe tumultuosa addestrando la categoria dei togati all’uso della Dottrina Civile e dell’Equità Sociale è il principale obiettivo di Vico.
Questi indaga il diritto romano e la genesi della lingua latina per trovare la causa di quella capacità di istituzionalizzare i conflitti interni che, nei Discorsi, Machiavelli dà per scontata e, ne Il Principe, considera definitivamente persa nei tempi moderni. Per Vico, il naturale originario spirito italico, guidato dalla Provvidenza, aveva permesso che si formasse la grande capacità di Roma di istituzionalizzare i conflitti interni. Il ricorso, da parte dei togati e dei governanti, alla Dottrina Civile e all’Equità Sociale permetterebbe all’originale spirito italico, sempre guidato dalla Provvidenza, di riassumere la propria naturale influenza sulla storia della penisola italiana. Di fatto, con il De Uno, Vico ingloba dentro la propria visione del mondo I Discorsi di Niccolò Machiavelli, ma non Il Principe che egli non considera testo al servizio dell’equità sociale.
Nel 1762, nel Contratto Sociale, Jean-Jacques Rousseau spiega che, ne Il Principe, fingendo di dare lezioni ai re, Machiavelli ne dà di buonissime ai popoli. Anche Il Principe viene messo, così, al servizio dei popoli, ma solo di quelli che aspirano a governarsi da soli liberandosi dai monarchi.
Simon Nicolas Henri Linguet, nella Theorie des lois civiles edita nel 1767, e Jean Baptiste Robinet, nel Dictionaire universel des Sciences morales, economiques, politiques et diplomatiques edito nel 1777, ribadiscono le tesi di Rousseau. Solo che nessuno dei due diventerà per questo repubblicano o rivoluzionario. Il primo si terrà in disparte durante la rivoluzione francese e il secondo scriverà una difesa di Luigi XVI e verrà condannato a morte, con processo sommario, durante il Terrore. L’accusa quella di avere glorificato le monarchie inglese e austriaca. Insomma, le loro vicissitudini mostrano che si possono mettere Il Principe e I Discorsi al servizio dei popoli senza inevitabilmente aderire a posizioni rivoluzionarie repubblicane.
L’interpretazione de Il Principe di Rousseau viene portata a Napoli di Giuseppe Maria Galanti, nel 1779, con l’Elogio di Niccolò Machiavelli, cittadino e segretario fiorentino. Galanti ripropone la lettura di Rousseau, Linguet e Robinet che cita esplicitamente. Ciononostante, nel 1799, egli si manterrà favorevole alla casa regnante napoletana e sceglierà di tenersi nascosto. La sua fedeltà non viene riconosciuta dai Borbone dopo il loro ritorno. Contribuisce alla sua emarginazione il pregiudizio, che si diffonde nella Napoli ritornata borbonica, secondo cui la lettura del Principe proposta da Galanti avesse contribuito a preferire il rivoluzionario Machiavelli al riformista Vico. Il che avrebbe favorito lo scoppio della rivoluzione.
Vincenzo Cuoco, allievo diretto di Galanti, conferma solo a metà questo pregiudizio. Cuoco ammette che la lezione del suo maestro lo ha avvicinato a Machiavelli e gli ha precluso Vico, ma dichiara Galanti responsabile solo del fallimento della rivoluzione non del suo scoppio. Se i Patrioti repubblicani avessero assunto Vico come guida, insiste Cuoco, la rivoluzione avrebbe avuto più possibilità di successo.
In altri termini, se ascoltato, Vico avrebbe aiutato i rivoluzionari a capire che la rivoluzione, per non essere una mera sostituzione di volpi e leoni con altre volpi e leoni, avrebbe dovuto farsi guidare da Dottrina Civile ed Equità Sociale. E l’equità insegnata da Vico non ha molto a che fare con l’uguaglianza rivoluzionaria. Come mostra, appunto, il caso di Mario Pagano i cui Saggi Politici (editi nel 1783 e nel 1785) sono, dichiaratamente e nell’impianto stesso, di ispirazione vichiana. Per questi Saggi, Pagano viene accusato di avere travisato Vico. Ci tiene tanto a difendersi che pubblica un’accurata difesa che convince i suoi critici. Nessuno nega che, al tempo, si muova ancora nell’ambito del dispotismo illuminato. Anche perché, nel 1789, viene nominato avvocato dei poveri e poi giudice del Tribunale dell’ammiragliato. Nel 1792 ripubblica, in tre tomi, i Saggi Politici. Qualcuno vuole vedere in questa riedizione il distacco dalla dinastia dei Borbone senza considerare che, in quello stesso anno, egli partecipa alla fondazione di una Società Patriottica il cui obiettivo fondamentale è quello di spingere Ferdinando IV verso una più decisa politica riformista. Altri datano nel 1794, il distacco dai Borbone, quando assume la difesa di giovani congiurati che saranno, poi, condannati a morte. Solo che la sua difesa sembra suggerire il contrario: “sono giovani ingenui che qualcuno ha illuso, spingendoli a progettare progetti velleitari”. Più credibile che il suo distacco dai Borbone cominci nel 1796, quando viene arrestato per l’accusa di un avvocato già condannato per corruzione. Tenuto in prigione per 29 mesi, viene prosciolto per mancanza di prove e costretto all’esilio. Torna per aderire alla rivoluzione napoletana. Non sostituirà mai il suo concetto di equità con quello di uguaglianza, come mostra la sua posizione sul tema dell’eversione della feudalità dove sostiene che solo le terre illecitamente usurpate andrebbero redistribuite al popolo. Fu comunque giustiziato.
Pagano mostra che la cultura politica vichiana, coerentemente sviluppata dalle premesse, come egli fa nei Saggi Politici, è di per sé sufficientemente radicale da dare sostanza a una rivoluzione che aspira a realizzare la massima equità possibile. Il suo inserimento dell’Eforato nella Costituzione mostra che non è stato un imitatore della rivoluzione francese e che ha saputo andare oltre perché l’illuminismo napoletano di ispirazione vichiana gli ha fornito il retroterra culturale per farlo.
Pagano ci ha tenuto molto a sostenere di essersi mosso nel solco tracciato da Vico e a definirsi patriota. Il fatto che lo si definisca giacobino è stato ed è ancora oggi solo un modo per diminuirlo e denigrarlo.