Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

L’eruzione del Vesuvio sulle tracce del racconto di Plinio il Giovane

Posted by on Mar 17, 2017

L’eruzione del Vesuvio sulle tracce del racconto di Plinio il Giovane

“Campania felix” era chiamata dai romani questa regione, considerata il giardino d’Italia. Poeti e scrittori ne avevano lodato il clima salutare e temperato, i campi fertili, i colli assolati, i sani pascoli, gli ombrosi boschi, le abbondanti messi, i vini dall’aroma intenso. Fin dai tempi repubblicani i Romani si recavano per perfezionare i loro studi di retorica, oratoria e filosofia (a Napoli, Pozzuoli, Ercolano) sotto la guida di maestri greci. Alcune località della costa erano poi divenute mète predilette dai poeti in cerca di riposo e di “otium” creativo. Virgilio aveva preferito soggiornare nella villa di Napoli piuttosto che in quella sull’Esquilino a Roma, e frequentato i circoli filosofici epicurei facenti capo a Sirone a Napoli, e a Filodemo a Pozzuoli. Nella pace della residenza napoletana, lontano dalla vita turbinosa della capitale, aveva composto le “Georgiche” e descritto la terra di Campania come la più adatta ad assecondare la fatica dell’agricoltore e del pastore. Il poeta Stazio, aveva cantato le bellezze di Napoli, sua città natale, per convincere sua moglie a trasferirsi con lui da Roma in quella dolce patria che “…un mite inverno e una fresca estate rendono temperata, / un mare tranquillo accarezza con le sue placide onde”, città desiderabile perché qui si trova “la pace priva d’affanni, gli ozi d’una vita distesa, / la quiete mai turbata, e i sonni prolungati” (“Silvae”, III, 5, 83-86). Molti letterati avevano rivolto il loro sguardo ammirato al Vesuvio, solenne e maestoso, e ne avevano descritto le falde coperte da una folta vegetazione illuminata qua e là dal giallo intenso delle ginestre, e, in forte contrasto, la cima spoglia, cinerea, fuligginosa, ricordo di antichissime eruzioni delle quali nessuno aveva più notizia, ma che avevano reso le colline e le terre all’intorno ricche di minerali e così fertili da dare più di un raccolto all’anno. Nelle viscere del monte c’era dunque fuoco, l’elemento eterno e primordiale della natura, simbolo di vita e di morte, ma da tempo immemorabile esso sembrava essersi acquietato, e la popolazione non considerava quel monte un pericolo o una minaccia. Nel 63 d. C., in realtà, un terremoto, descritto anche da Seneca nel Libro V delle sue “Naturales quaestiones”, aveva sconvolto le città di Napoli, Ercolano, Pompei, ma nessuno aveva collegato quel terribile sconvolgimento tellurico a una ripresa dell’attività vulcanica del Vesuvio, lussureggiante di vegetazione e così ricco di vigneti da essere considerato come sede prediletta di Bacco. “Questo è il monte che Bacco amò più dei colli della sua patria” canterà Marziale (Epigrammi, IV, 44, 3). Agli inizi di quel secolo, il geografo greco Strabone così aveva scritto: “…su questi luoghi si erge il Vesuvio, popolato da poderi amenissimi, tranne la cima. Essa è per la massima parte pianeggiante, assolutamente sterile, mostra solo ceneri e presenta profonde cavità in macigni riarsi” (Geografia, IV,8). Sappiamo dagli storici che nel 73 a. C., fra queste cavità, Spartaco, capo della terribile rivolta degli schiavi, aveva posto la propria base e da qui partiva per i suoi spostamenti, attraverso l’intera penisola. Testimonianza questa dell’assoluta sicurezza del luogo di cui tutti allora erano convinti, tanto che quando ci fu l’eruzione nel 79 d.C. tutti furono presi alla sprovvista. La violenta eruzione del 79 d.C., e poi quelle successive, modificarono la morfologia della cima che ora non si presenta più pianeggiante, come la descrisse Strabone, o come è raffigurata in un affresco proveniente dagli scavi di Pompei. Di quella terribile eruzione abbiamo un documento storico, paragonabile al resoconto di un moderno inviato speciale sul luogo di una catastrofe, scritto da Plinio il Giovane, che viveva a Miseno con lo zio Gaio Plinio il Vecchio, comandante della base navale di Miseno nella baia di Napoli. Il 24 agosto di quell’anno, riposava sdraiato sulla spiaggia. La calura del mezzogiorno lo aveva immerso in un sognante torpore, mentre una calma assoluta era scesa sul mare addormentato. Vogliamo immaginarlo mentre, affascinato dalla bellezza del luogo, insegue con il pensiero le favole del mito: nelle acque di quel golfo disteso davanti ai suoi occhi si credeva avessero la loro sede le Sirene, dalla voce melodiosa e ammaliatrice che spingeva i naviganti al naufragio contro gli speroni rocciosi. Veleggiando lungo quei litorali era passato Ulisse che, sfuggito agli incantesimi di Circe, per non lasciarsi tentare dalle lusinghe di quelle creature marine si era fatto legare all’albero maestro della sua nave. Nelle onde schiumose che s’infrangono contro quelle scogliere a picco sul mare, Miseno, trombettiere di Enea, aveva trovato la morte avendo osato sfidare nel suono del corno il dio marino Tritone, che s’era vendicato precipitandolo da una roccia. Enea aveva pianto quel suo fedele compagno, gli aveva innalzato un sepolcro, chiamando Miseno quel promontorio affinché il ricordo ne durasse nei secoli. All’una del pomeriggio Plinio era dunque sulla spiaggia dove lo abbiamo immaginato immerso a fantasticare sui miti del passato. Tornato a casa per un breve pasto e subito dopo per attendere allo studio, come era sua abitudine, fu raggiunto dalla sorella molto agitata. Lo informava che una nube di straordinaria grandezza era apparsa nel cielo. Senza esitare un attimo, Plinio raggiunse un’altura per contemplare quell’evento prodigioso. La nube aveva la forma di un pino: un altissimo tronco che alla fine si effondeva in una immensa chioma, bianchissima in alcuni punti, maculata in altri a causa della terra e della cenere che si era ad essa mescolata. Non era chiaro a prima vista se quella nube provenisse dal cratere del Vesuvio, nessuno sospettava che il fenomeno fosse collegato ad una ripresa dell’attività vulcanica. Ma a Plinio la cosa parve meritevole di un’osservazione ravvicinata; ordinò dunque che si preparasse una liburna, nave sottile e veloce a due ordini di remi, e invitò il nipote, allora diciottenne, a seguirlo. Ma questi rifiutò preferendo restare a casa a studiare, e ciò fu la sua salvezza, grazie alla quale in seguito poté narrare ciò che aveva visto e la morte dello zio. Mentre Plinio si accingeva a partire, da un servo trafelato gli fu recapitato un biglietto scritto in fretta dall’amica Rettina, la quale, terrorizzata perché la sua villa era ai piedi del Vesuvio, proprio sulla spiaggia minacciata da quell’ignoto fenomeno, lo pregava di raggiungerla con delle navi per soccorrere le altre persone in preda allo spavento. Rinviato ogni interesse scientifico, Plinio si mise in mare per correre in aiuto di Rettina e di quanti abitavano lungo il litorale. Mentre tutti fuggivano terrorizzati, fece salpare le quadriremi, salì egli stesso su una di esse e fece rotta proprio verso il cuore del pericolo. Non era per nulla intimorito, era anzi attento a tutte le fasi di quell’evento per poterle poi dettare a uno scrivano. Anche in quel momento di estremo pericolo, Plinio non rinunciava alla sua curiosità di scienziato. Quanto più le navi si avvicinavano alla mèta, tanto più su di esse cadeva una cenere calda e densa, pomici e pietre nere corrose e spezzate dal fuoco. Improvvisamente una frana della montagna impedì a quelle grandi navi di avvicinarsi a riva. Non era dunque più possibile accorrere in aiuto di Rettina. Plinio pensò per un attimo che sarebbe stato opportuno tornare indietro, ma poi puntò verso Stabia, sempre sul golfo, ma dalla parte opposta a Miseno, per andare in soccorso dell’amico Pompeiano che aveva già imbarcato le masserizie e si preparava a fuggire appena si fosse quietato il vento contrario. Plinio, che aveva invece il vento favorevole, riuscì ad approdare, abbracciò l’amico, lo confortò, lo rassicurò con il suo atteggiamento sereno, e anzi, fingendo allegria, sedette a tavola per la cena come se non ci fosse nulla da temere. Scese la sera. Lungo le falde del Vesuvio risplendevano strisce di fuoco e s’innalzavano bagliori sullo sfondo delle tenebre notturne. Per placare lo sgomento di Pomponio, Plinio cercò di convincerlo che si trattava di fuochi lasciati accesi dai contadini nell’affannosa ricerca di salvezza, o ville abbandonate che bruciavano nella campagna. Poi andò a riposare e dormì così profondamente che il suo respiro era chiaramente udito da coloro che passavano davanti alla sua stanza. Gli altri della casa invece non riuscivano a chiudere occhio. Il cortile su cui si affacciavano le stanze andava riempiendosi di cenere mista a lapilli, e il livello del pavimento si alzava sempre più fino a ostruire l’accesso alle stanze. Soltanto allora Plinio si destò. La casa tremava per frequenti scosse di terremoto, e sembrava ora pendere da una parte, ora tornare al suo posto. Fuori cadeva una pioggia di cenere e pietre pomici leggere e porose. Tra i due pericoli, la gente preferiva stare all’aperto, proteggendo il capo con guanciali. Altrove cominciò a far giorno, ma lì era notte più scura e fitta di qualunque notte, sebbene molte torce e fiaccole fossero state accese. Tutti correvano verso la spiaggia per vedere se era possibile mettersi in mare, ma le acque erano sconvolte e i venti contrari. Plinio, che soffriva d’asma, sentendosi soffocare per il fumo denso sprigionato dalle fiamme, si distese a terra su un lenzuolo, chiese e bevve due volte dell’acqua fresca. Sorretto da due servi cercò di sollevarsi, ma ricadde esanime: l’aria impregnata di ceneri gli aveva arrestato la respirazione. Tutti fuggivano. Due giorni dopo, quando alfine riapparve la luce del sole, il suo corpo senza vita fu trovato intatto e illeso, il volto sereno, simile a quello di un dormiente più che a quello di un morto. Questa la fine di Plinio, secondo il racconto, riportato qui con una libera traduzione, del nipote Plinio il giovane. (Epistole, VI, 16). Plinio il Vecchio morì all’età di 56 anni. Aveva sempre vissuto con ammirevole “spirito di servizio”, distinguendosi in operosità, sete di sapere, interesse per ogni forma di conoscenza. Si era imposto di dedicare ogni momento disponibile del giorno e molte ore della notte allo studio e alla composizione della sua monumentale opera “Naturalis Historia”. A memoria dei due Plinii, i vulcanologi hanno classificato come “pliniane” le eruzioni di tipo esplosivo, quale fu quella del 79 d. C., tipiche dei vulcani che si risvegliano dopo una lunga fase di quiescenza, e che sono caratterizzate da una violenta riapertura del condotto con espulsione delle pietre che lo ostruivano. Anche il termine di “pino vulcanico” introdotto nella vulcanologia è ricavato dalla descrizione fatta da Plinio il Giovane per indicare la forma di quella strana nuvola che, fuoriuscita dal cratere del Vesuvio, si era paurosamente innalzata nel cielo. Dalla colonna pliniana caddero pomici e altri materiali eruttivi in direzione di Pompei e Stabia, dove nel giro di poco tempo si accumularono formando un alto strato che seppellì interamente la città. Ercolano invece non fu investita nella prima fase, ma quasi dodici ore dopo, per cui gli abitanti del posto avrebbero avuto tutto il tempo di salvarsi allontanandosi dalla zona, ma molti fecero ritorno alle loro case che erano state lasciate incustodite, e ciò determinò la loro misera sorte.

Maria Pellegrini

 

 

 

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