L’ETA’ DELL’ORO DI FERDINANDO IV (QUARTA PARTE)
NAPOLI FRA VIENNA E PARIGI
Maria Carolina, messo fuori causa il Tanucci, diede alla cor¬te e al Consiglio di Stato quella sterzata che la madre si aspettava e, in poco tempo, allineò il Regno sulla politica dell’Austria. Nel 1779, plasmato il Consiglio secondo il suo volere, vi nominò Primo ministro John Acton, uno straordinario ufficiale di marina che ave¬va bruciato le tappe della sua carriera. Acton aveva quarantadue anni, Ferdinando ventotto, Carolina ventisette: era il più giovane terzetto che avesse mai governato un regno.
John Acton, di famiglia inglese, era nato in Francia e in Francia s’era arruolato in quella marina dalla quale era passato a quella toscana per finire in quella napoletana. Solo un anno a bordo e poi, a corte, era riuscito a incantare la Regina che l’aveva voluto Segretario di Stato facendogli affidare dal marito, man mano, la Marina, la Guerra, la politica estera e infine tutte le forze militari.
Ferdinando era al settimo cielo, una moglie affascinante, vivace e capace di essere al suo fianco in ogni circostanza. Per un giovanotto che già a otto anni era rimasto solo come un orfanello, quella donna rappresentava tutto il suo mondo.
Il padre dalla Spagna, privo del suo fido Tanucci, non aveva più potere sul figlio che ormai seguiva la via che gli pareva. Almeno questo credeva: ormai il destino del Regno si decideva a Vienna.
Dall’Austria si dispiegava l’influenza culturale che, complice il mondo artistico di cui possedeva i migliori talenti, aveva facile gioco sugli orientamenti napoletani. La Francia restava sempre la patria dei “maïtre á pensée” ma la dialettica dissacrante dei parigini si stemperava nel più ponderato e austero discettare dei pedagoghi della corte imperiale. Una miscela di talenti e d’ingegno, d’estro e d’assennatezza che fece di Napoli la capitale d’Europa dell’intelligenza.
Il napoletano diventava lingua da salotto non solo nel Regno ma ovunque nel resto d’Italia, e non raramente fuori, si volesse dare un tono alla conversazione.
L’Abate Galiani aveva lavorato sodo per mettere su carta regole, stile e vocabolario da contrapporre al toscano che stentava a diventare lingua esemplare.
La parentela con gli Asburgo Lorena del Granducato, con quelli imperiali della Lombardia e con quelli di Parma e Piacenza già faceva vagheggiare a qualche sognatore un grande stato italiano retto dalla dinastia napoletana.
Oltre alla fama di splendore, arte e cultura, e la più grande capitale italiana, il Regno aveva, comunque, mezzi più di chiunque altro anche, se occorreva, per usare la forza delle armi.
Oltre a un buon esercito e al denaro per assoldare truppe all’occorrenza, su tutta la costa tirrenica stavano vigili i suoi Stati dei Presidi con piazzeforti a Porto Santo Stefano, a Talamone, Piombino, Porto Longone.
Del resto, sul grande stemma dei Borbone di Napoli, a ricordare quanto grandi fossero le pretese, campeggiavano sempre ammonitrici le armi d’Austria e degli antichi Medici di Toscana.
fonte
la storia che non si racconta