L’ETA’ DELL’ORO DI FERDINANDO IV (TERZA PARTE)
L’ECCLISSE DEL REGNO ILLUMINATO
Per la sedicenne Maria Carolina discendere dall’”Austria felix” alla felicissima Napoli fu come passare da un monastero di clausura ad un ballo mascherato. Come tutto, a cominciare dalla reggia, nel suo paese era sobrio, solenne, misurato, così a Napoli, a cominciare dalla natura, era fastoso, leggiadro, esagerato. Lo sposo, il diciassettenne Ferdinando era tenero e allegro e la corte faceva di tutto per procurare agli sposini ogni letizia.
Il rigido “cerimoniale spagnolo” di Schönbrunn, i rigidissimi orari dell’Imperatrice madre, restarono solo un ricordo uggioso da cancellare fra feste, ricevimenti, colazioni sull’erba e giochi con le dame e i cavalieri fra i boschetti e le cascate di Caserta, a Capodimonte, a Portici, nei “siti reali”, nei teatri dove si esibiva la massima fioritura di musicisti e di cantanti d’Europa. Il popolo di Napoli, poi, come ancora adesso, sapeva farsi amare: una divertente emozione, per quella figlia del Nord, ogni uscita in carrozza per la capitale, fra la folla che, come si scioglieva in brodo di giuggiole per il suo reuccio, ora andava in visibilio per quella coppia di giovanissimi sposi sempre pronti a ricambiare gli applausi dei sudditi con feste a mare, luminarie, regalie e indulti, distribuzione di cibi, concerti a Piedigrotta, fuochi artificiali.
Una beata incoscienza che, se si vuole, è cosa normale, anche per una Regina quando, tutto sommato, è ancora una bambina. Ferdinando, felice e innamorato, non tralasciava comunque i doveri di stato. Le nubi dell’anima si erano dissolte nella soddisfazione di vedere la «sua grande famiglia», come glie la suggerivano i cortigiani, crescere felice e prospera, il paese pacifico e sicuro, l’economia sempre in salita e la fama del Regno crescere in ogni dove attirando da tutt’Europa il fior fiore degli artisti, dei letterati, dei musicisti, dei divi del teatro, dei ricchi imprenditori, dei banchieri, dei giramondo, degli intellettuali.
Nonostante l’età, “Padre della Patria” si sentiva davvero, come dimostrava quel famoso editto del 1769 in cui tracciava un vasto programma di riforme tutte imperniate sull’educazione del popolo e sulla sua elevazione mora¬le e materiale. Ferdinando era sicuramente in buona fede né si accorgeva di quanto, nella corte, si brigasse per renderlo docile strumento, dopo esserlo stato di Tanucci, della consorteria di intellettuali che, a Napoli come a Parigi, oltre che in ogni altro stato, brigava per mandare ad opera un disegno di potere che andava, in nome della Ragione, oltre ogni ragionevole speranza umana.
Tanucci, del resto, aveva ancora potere e riuscì a tenerlo saldo anche quando Carolina, partorito il primo figlio, Carlo Tito, entrò di diritto a far parte del Consiglio di Stato. La fissazione del giurisdizionalismo, al vecchio uomo di stato, non era mai passata: pur essendo ormai riuscito a tenere nel pugno i sovrani di due dei più grandi regni del Mediterraneo, gli sembrava di non essere riuscito a rifinire il suo capolavoro fin quando non avesse eliminato ogni antico diritto e privilegio della Chiesa sul reame.
Inquisizione, tribunali ecclesiastici, esenzioni fiscali del clero, nulla che, dopo l’espulsione dei Gesuiti, odorasse ancora di papismo poteva rimanere in santa pace. L’ultimo atto, mentre nasceva il principino, fu l’abolizione della Chinea, nel 1775. Ma, tanto a Ferdinando che alla Regina, la cosa non andò giù e, così come brigava intanto la diplomazia asburgica, l’anno dopo quel laico Savonarola fu definitivamente giubilato.
Ferdinando, giovane padre orgoglioso, ormai emancipato dal baliatico del padre e dall’invadenza di quel vecchio gufo del Tanucci, innamorato come non mai, era fiero di quella moglie che, così pazzerella pure, in fatto di tener testa a cortigiani e consiglieri, mostrava già tutta la stoffa della genitrice. Ormai, pensava, la nascita dell’erede al trono avrebbe calmato ogni suo bollore.
Napoli era sempre più in festa, la corte sempre più giovane e senza malumori. L’anno dopo, 1777, riprendeva la cerimonia della Chinea. Anche con la sua coscienza e con il Papa sembrava ormai tutto essersi calmato. Non sapeva quel venticinquenne atletico sovrano che dalla padella del toscano, il Regno cadeva nella brace degli inglesi.
LA MASSONERIA NAPOLETANA
C’è qualcosa di diverso nell’anima dei meridionali. Tanto misterioso da essere oggetto di romanzi, di poesie, di teatro, di canzoni. Tanto affascinante da attrarre per millenni popoli d’ogni razza, lingua e religione fino a fondarvi un regno e a diventar nazione. Mistero tanto complesso da aver creato su questo paese, quando infine fu ridotto a provincia depressa di uno staterello tronfio e pettoruto, (caso unico nel mondo nelle scienze politiche) una «questione meridionale» che dura irrisolta ormai da centoquarant’anni, migliaia di volumi e un’intera schiera di serissimi accademici e studiosi: i «meridionalisti».
Come l’illuminismo meridionale si sciolse al sole quando il popolo si accorse che, con i signori ormai non ci si capiva più, e i giacobini furono cacciati da Napoli a suon di “pernacchi” (anche questa “volgarità” cosa troppo seria per essere capita da chi non è meridionale), così la Massoneria nel Regno, nata tenebrosa, si dipinse dei colori del Sud. Se, come dicono molti, finanche Maria Carolina fu ammessa in una loggia ad onta della rigidissima misoginia che ancor’oggi distingue i “fratelli muratori”, beh, questo la dice lunga su come le cose, a Napoli, sarebbero finite.
Nata nel 1717, la «libera società dei framassoni» si era presto diffusa, sull’onda del “libero pensiero”, per tutta Europa. Prima ad accorgersi della pericolosità di questi allucinati che, anzitutto, si dichiaravano credenti, fu, come al solito, la Chiesa che, già nel 1738, li bollò di scomunica. Carlo di Borbone, che allora era cattolico devoto, si affrettò, con un editto a dichiararli fuorilegge e ancora, nel 1751, quando d’essere ancora cattolico voleva provarlo a tutti i costi, dopo un’altra enciclica del Papa, dettò da Madrid un altro editto al Tanucci il quale, ancora nel 1775, fece pressioni su Ferdinando perché il bando ai massoni fosse rinnovato.
A Ferdinando, da buon napoletano, le cose sembravano da prender molto meno seriamente e, forse, cominciava a chiedersi se suo padre e il suo ministro non soffrissero un po’ di paranoia di fronte a chiunque, Gesuiti o frati muratori, sembrasse cospirare contro lo stato. Per quel che gli riguardava, si trattava di una «stravaganza intellettuale» né più né meno come le pastorellate della corte di Versailles.
A parte la sposina, del resto, si trattava di bandire dal regno tutta la corte a cominciare dai ministri, i nobili, i figli di papà perché ormai la moda era dilagata e la “Napoli bene” andava alle riunioni segrete come al teatro e come al caffè. Era «segreto di Pulcinella» il fatto che, da qualche parte, anche a Palazzo, si tenessero i riti con i drappi a lutto, i candelieri, i compassi e i grembiulini.
Un “caporuota” troppo zelante aveva fatto irruzione, con i suoi sbirri, nel pieno di una riunione ed aveva arrestato un bel po’ di rampolli di gente altolocata. Tutto fu messo a tacere, i “fratelli” rimandati da papà, e il poliziotto finì in qualche gendarmeria dimenticata.
Ma se a Napoli la Massoneria (che si dichiarava addirittura «cattolica e monarchica», tanto che vi erano molti i frati, i canonici e i preti squinternati) non riuscì mai ad essere presa troppo seriamente se non dai pochi “intellettuali” che ci fecero carriera, a Londra dov’era nata, sul modello delle antiche corporazioni dei tagliatori di pietra, assunse un’importanza straordinaria giacché vi confluirono tutte le idee misteriche e gnostiche che l’illuminismo aveva rispolverato dalle antiche religioni e tutte quelle che il “libero pensiero”, in un’orgia di elucubrazioni, andava partorendo da chiun¬que, nel mettersi a pensare (come aveva indicato Cartesio), volesse affermare di esistere anche lui.
E poiché, a differenza dei napoletani, gli inglesi le cose le prendono molto seriamente, insieme ai “mistici” e ai visionari d’ogni categoria, vi trovarono posto “scienziati”, cabalisti, indovini, agnostici e apostati d’ogni religione che, nella fede in un “grande architetto” d’ogni cosa creata ed in rituali buoni per ogni fantasia, potevano dire di aver trovato finalmente una “super religione”.
Ferdinando, Carolina e tutti i pittoreschi framassoni napole¬tani di quel tempo erano ben lontani dal pensare che, quello che sembrava un gioco di società, sarebbe diventato il più grande complotto mai ordito. Un piano diabolico che, solo un secolo più tardi, sarebbe stato capace di cancellare il reame più bello del mondo per farne semplicemente “le Provincie napoletane” del Regno d’Italia e tutt’al più “il Mezzogiorno” , eterno minorenne soggetto di tutela, di riprovazione e, al meglio, di studio sotto l’implacabile lente dei sociologi.
fonte
la storia che non si racconta