Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

LETTERA AL CAVALIER MASSIMO D’AZEGLIO

Posted by on Mag 29, 2020

LETTERA AL CAVALIER MASSIMO D’AZEGLIO

SCRITTA DAL CAVALIER CARLO DE CESARE DEPUTATO AL PARLAMENTO

NAPOLI

STABILIMENTO TIPOGRAFICO Di G. GIOJA

Vicoletto Mezzocannone n.4.

1861

Stimatissimo Signore

Si può benissimo passar di sopra ad un articolo di giornale, ad uno scrittarello di persona di poco o niun conto, ad un proclama di un ministro di principe assoluto detronizzato, ovvero ai bestiali ordini del giorno di un Chiavone, allorché parlano delle infelici condizioni di queste provincie meridionali, dello svisceralo affetto che queste nostre popolazioni nudrono tuttora per la caduta dinastia e del desiderio di riporla in trono; ma non si possono  né deridere  né sprezzare ih egual modo le scritture di un uomo che innalzò il romanzo a scuola di morale e nazionale educazione, che abbellì i più gloriosi fatti della storia italiana con le grazie del racconto e l’arte de’ colori, che combatté da prode soldato per la indipendenza della patria, che preservò lo Statuto Sardo nucleo della futura costituzione italiana dagli eccessi dei partiti estremi e dalle insidie e prepotenze straniere.

Ella, o signore, che operò tutto questo, e per forza d’ingegno e di civili propositi si acquistò tanti e si nobili titoli alla benemerenza ed all’amore di tutta Italia, Ella non può disconoscere il peso delle sue parole allorché parla delle cose italiane.

Ma, se Ella vuol preservato il diritto di ragionare delle cose nostre, conceda ad un nativo di queste provincia napoletane, ad un deputato della illustre città di Napoli, ad un italiano non meno di lei devoto alla patria che preservi anche per sé il diritto di rispondere ad un Massimo d’Azeglio, allorché un Massimo d’Azeglio s’innalza a banditore di fatali errori in Italia. Dico fatali errori, perché non è permesso ad un d’Azeglio d’ignorare gli eterni veri del diritto e la costituzione politica dello Stato, la quale non disconosce i principii regolatori delle vie e dei messi più opportuni, perché lo stato medesimo possa adempiere ai suoi obblighi verso tutti gli ordini, tutte le istituzioni e la sicurezza della società.

Con profonda amaritudine dell’animo mio, io vedo intieramente disconosciuti da Lei codesti principii nella lettera indirizzata al Senatore Matteucci in data del 2di questo mese; alla quale non so, se per imprudenza, abuso di fiducia, o per sua libera volontà si ò data la più grande pubblicità cosi presso lo straniero, che in Italia.

Ella non può né deve ignorare, signor cavaliere, che le supreme regole della vita politica di un popolo nascente a libero reggimento nazionale incontrano naturalmente delle difficoltà, soprattutto quando le varie e diverse istituzioni anteriori si trasformano e tendono a stabilirsi sopra una base novella assai più in armonia coi bisogni sociali, con le aspirazioni nazionali e coi lumi e la civiltà presente.

Ma Ella ha fatto astrazione da tutto questo, allorché ha scritto al Matteucci le seguenti cose:

La questione di tener Napoli dipende, pare a me, soprattutto dai napolitani, salvo che noi volessimo, per comodo nostro, mutare i principii che abbiamo banditi finora. Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi, e con questa massima, che io credo e che crederò sempre vera, noi abbiamo inviato più sovrani a farsi benedire. I loro popoli non avendo punto protestato in alcun modo, si mostraron contenti dell’opera nostra, e potè notarsi che s’eglino non davano il loro consenso ai governi precedenti, lodavano invece a chi gli succedeva. Così i nostri atti furono di accordo coi nostri principii, e nessuno può farci alcuna obbiezione.

A Napoli noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per istabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma si vogliono, e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno 60 battaglioni, ed è notorio che, briganti o non briganti, ninno vuole saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? lo non so nulla di suffragio; ma so che al di qua del Tronto non sono necessarii battaglioni, che al di là sono necessarii. Dunque vi fu qualche errore; e bisogna cangiare atti o principii. Bisogna sapere dai Napoletani un’altra volta per tutte, se ci vogliono, sì o no. Capisco che gl’italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia; ma agl’italiani, che restando italiani non volessero unirsi a noi, credo che noi non abbiamo il diritto di dare delle archibugiate; salvo che si concedesse che, per tagliar corto, noi adottiamo il principio in cui nome Bomba, bombardava Palermo, Messina ec. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo; ma siccome io non intendo rinunziare al diritto di ragionare, cosi dico ciò che penso, e rimango a Cannero.

A queste poche parole potrebbonsi fare grandi commenti, ma, intelligenti pauca; e d’altronde a qual prò?

I commenti alle sue parole voglio farli io, illustre signore, e i commenti li caverò dalla sostanza di fatti inoppugnabili, e sono questi.

L’ultimo Sovrano di Napoli non è stato cacciato dal Piemonte, in quella guisa che gli altri sovrani d’Italia non sono stati invitati dai Piemontesi a farsi benedire. L’ultimo dei Borboni come tutti gli altri principi che dicevansi italiani sono stati espulsi dalla volontà del popolo, non tanto per le loro colpe, quanto per sentimento nazionale penetrato in tutte le menti, in tutt’i cuori, e che valse a rendere possibile il mirabile accordo delle volontà nel costituire la patria comune. Ella s’inganna, signor cavaliere, dicendo che bisogna sapere dai Napoletani un’altra volta per tutte, se vogliono o no i Piemontesi. Quello che vogliono i Napoletani è consecrato nel plebiscito, col quale dissero di voler fare l’Italia Una e Indivisibile. Per la qualcosa, Napoli non si diede  né ai Piemontesi,  né ai Lombardi,  né ai Fiorentini, ma all’Italia e col solo disegno di ricostituire la Nazionalità Italiana.

Che sia stato questo per dodici anni continui lo scopo determinato di tutti gli sforzi, di tutte le resistenze, di tutt’i pensieri degli abitatori delle due Sicilie non è chi no ’l vegga, ad eccezione dell’illustre Massimo d’Azeglio.

Dal giorno in cui Ferdinando II di Borbone rovesciò gli ordinamenti costituzionali da lui solennemente giurati; dal giorno in cui innalzò a principio di governo la vendetta e proscrisse dal Regno le intelligenze e gli studi, le scienze e le lettere, la libertà e l’ordine morale, da quel giorno Napolitani e Siciliani s’interrogarono a vicenda: perché le nostre rivoluzioni falliron mai sempre? perché i Borboni c’ingannarono e tradirono con false promesse di libertà, e trionfaron sempre di noi e della rivoluzione? perché toccò la medesima sorte agli altri Stati della Penisola? E la risposta fu questa: perché fummo e siamo divisi, e perciò deboli: perché le rivoluzioni italiane guardarono sempre alle libertà municipali, e non mai alla nazione: perché mirammo al campanile del proprio paese, e non all’unità della patria.

Allora gli Unitarii eran pochi, pochissimi in Italia, e tutti considerati per lo meno quali sognatori di cose impossibili. Ma le colpe gravissime di Ferdinando li valsero a persuadere i molti che l’unica nostra salvezza consistea nel rovesciare la dinastia de’  Borboni e metterci a capo del movimento unitario italiano, chiamando a reggere le nostre sorti un principe capace di compiere il nostro disegno; Ma più di noi e dei più dotti emigrati napolitani e siciliani, inconsapevolmente lavoravano intorno a questo disegno Ferdinando II e il Papa, la polizia e i preti.

Il movimento rivoluzionario apparecchiato dunque nel Regno era unitario; e poiché il principe desiderato lungamente dall’Italia erasi scoperto in Vittorio Emanuele, a questo prode leale e onestissimo sovrano si volsero gli sguardi dei Siciliani e de Napolitani. Così e non altrimenti voglionsi spiegare dalla storia i. moti rivoluzionarii del 4 aprile 1860 in Sicilia, a cui’ seguirono le miracolose vittorie dei Mille comandati da Giuseppe Garibaldi, i fatti d’arme di Marsala, Calatafimi e Milazzo, e le capitolazioni di Palermo e Messina.

Francesco Borbone richiamava in vita la costituzione del 48, e prometteva una politica italiana e l’alleanza col Piemonte. Le provincie napolitane derisero la costituzione: alla politica italiana ed alla colleganza non credettero affatto. Dal 25 giugno al 18 agosto 1860 la reazione tentò di alzar il capo per ben due volte: per ben due volte fu decretato lo stato d’assedio; e le popolazioni guardarono in faccia risolutamente alla riazione e risposero allo stato d’assedio col grido: viva l’Italia e Vittorio Emanuele.

L’Eroe di Marsala mentre combatteva in Sicilia, nel centro delle provincie napolitane già si levava la bandiera dell’Unità italiana. L’insurrezione lucana del 18 agosto cominciò quel movimento che in un baleno si estese alla vicina Terra Barese, al Salernitano, all’Avellinese, alla Capitanata, al Leccese, al Cosentino, e gradatamente a tutto il Regno. La Dinastia era già caduta, il Regno non aveva più principe di casa Borbone, quando Garibaldi entrò nella città di Napoli accompagnato da pochi suoi compagni d’arme, ed accolto e festeggiato da tutto quanto un popolo frenetico di gioia nel chiamarsi libero e italiano.

Vittorio Emanuele era già Re d’Italia assai tempo innanzi del plebiscito, e gli atti del Dittatore Garibaldi non furono che l’espressione del sentimento, della volontà, del pensiero e del voto di tutti gli abitatori del napolitano. Immensa e imperitura è la gratitudine di queste provincie meridionali verso il generale Garibaldi, verso i suoi prodi seguaci, verso il glorioso esercito nazionale perla loro cooperazione al movimento nazionale; ma Napoli, illustre signore, non deve la sua liberazione che alla ferma sua volontà di compiere i destini d’Italia. In quell’istante le nostre provincie non guardarono  né al Piemonte,  né alla Lombardia  né alla Toscana, ma alla sola Italia, a questa si vollero unire, con questa si vollero fondere, e votando il plebiscito con entusiasmo qual mai non si vide tra popoli risorti a libertà, furon prime a proclamar Roma per capitale del Regno italiano, prime a mandare un saluto di amore a Venezia, prime ad affermare che la nazione era fatta.

Si espugnavano dall’esercito Nazionale le ultime fortezze dei Regno tuttora in mano del Re decaduto, e mentre ancor tuonava il cannone, le popolazioni del Napolitano confidenti nell’avvenire d’Italia, affatto dubbiose delle loro sorti, liberamente, dirò col Presidente del Consiglio dei Ministri della Corona Italica, e regolarmente elessero deputati, fra i quali neppur uno se ne conta che rappresenti le opinioni o gl’interessi del reggimento caduto. Esempio questo forse unico nella Storia e che dimostra quanto sia universale e profondo negli animi dei Napoletani il sentimento della Nazionalità; poiché in tutti gli altri paesi dove la rivoluzione portò al Trono una nuova dinastia cacciando l’antica, non riuscì però a cancellarne ogni traccia nella rappresentanza Nazionale; e in tutt’i Parlamenti, fuorché nell’Italiano, si trovano sempre col nome di legittimisti i fautori dei principi decaduti ( Dispaccio-Circolare del Barone Ricasoli agli Inviati Italiani all’Estero,31 Luglio 1861.  ).

Non un solo dei Deputati Napoletani ha combattuto il concetto nazionale, non un solo si è opposto ai provvedimenti richiesti nell’interesse dell’unità, e se pochissimi osteggiarono il governo, questo accadde per vedute di amministrazione interna più o meno sollecita della pubblica cosa, non per combattere il principio dell’unificazione.

Da questo processo logico della rivoluzione Napolitana fatta nell’interesse nazionale scaturiscono ben diverse conseguenze di quelle ch’Ella deduce da certi principii falsi propugnati nelle sue scritture. Dico nelle sue scritture, perché Ella nelle Questioni Urgenti già tentò di gettare il fatal pomo della discordia nell’animo dei Napoletani, e col dichiarar prematura e violenta l’unione all’Italia delle provincie meridionali, e col voler a capitale del Regno d’Italia la illustre città di Firenze che per grande amore alla Nazione e meglio consigliata di lei ripudiò il dono ch’ella intendea farle. In quell’opuscolo ella cercò di ridestare il municipalismo antico colla proposta di una Capitale non consentita dal voto nazionale, e Napoli con sublime abnegazione rispose colla magica parola: Roma. Ora colla lettera al senatore Matteucci non fa che ribadire il primo errore col dichiarare che il plebiscito racchiuse qualche sbaglio. No, illustre Signore, un milione e trecento mila cittadini che liberamente votano per la libertà per l’indipendenza e per l’Unità della Patria al cospetto di diecimila schiavi corrotti che pur liberamente votano pel servaggio d’Italia, non s’ingannano  né commettono errori. E non potevano ingannarsi ed errare quando saggiamente pensavano che con l’Unità avrebbero rifermate sopra stabile ed inconcussa base le loro libertà, e giovandosi delle forze vive e intelligenti, delle ricchezze e delle risorse di tutta quanta la Nazione avrebbero visto solcate le loro provincie da varie e diverse rete di ferrovie, restaurati e fatti sicuri i loro porti, abbellite le loro città, istruite le popolazioni, bonificate e restituite all’agricoltura le terre paludose, dissodate e rendute feconde le terre di scarso pascolo, purgata l’aria con le nuove piantagioni negli stagni infetti da cui si esalano miasmi micidiali, acclimato piante novelle, esteso il commercio, vegliate da un potente naviglio guerresco le coste, richiamato il traffico d’Oriente nell’antica via del Mediterraneo, accresciute le loro ricchezze, risvegliato l’ingegno e guidato da un’ordinata libertà verso le industrie più fruttuose, accresciuto il lavoro, innalzato l’uomo a dignità di libero cittadino sopra una terra prediletta dalla natura per sorriso di Cielo e fecondità di suolo. Tutto questo videro i Napoletani nel voto della loro unione all’Italia, e non s’ingannarono. Perché queste cose saranno una realtà permanente non più che tra dieci anni, ed allora ella non ci gitterà sul volto l’insulto di non comprendere i vantaggi che provengono dall’Unità d’Italia.

Ma dirà forse che codesti beni futuri per le provincie Napoletane costeranno molto al rimanente d’Italia, perché a mantenerle tranquille vi si richiedono più di 60 battaglioni di soldati, mentre per le altre provincie italiane non son necessarii; e quasi volesse togliersi dal collo un gran peso, ci fa l’oltraggio di crederci sforniti d’ogni sentimento patriottico.

È vero 60 battaglioni si richiedono per distruggere il brigantaggio nelle provincie meridionali; è vero noi manchiamo di sicurezza pubblica; è vero noi siamo insidiati e minacciati nella vita e nella roba dagli assassini sguinzagliati contro di noi dal governo di Roma che copre con religioso mantello le cospirazioni borboniche; ma sono queste conseguenze di nostre colpe; o non piuttosto per una buona parte e sotto certi aspetti conseguenze di parecchi errori governativi? Nondimeno gli abitanti del Napolitano soffrono incendii, rapine, morti, e lungi dal mandare un lamento contro il governo italiano, lungi dal pentirsi della loro unione all’Italia con coraggio indomabile affrontano tutt’i pericoli e si battono da eroi contro questa nuova specie di orde barbariche che c’invia il Re di Roma e il suo alleato, si battono al grido di Viva Italia e Vittorio Emanuele. Quanti sagrifizii, quante fatiche, quante perdite di uomini e sostanze non si sopportano in pace dai possidenti, dai professori di arti liberali, dagl’impiegati, dai commercianti, dagli artigiani, da’ pacifici ed onesti agricoltori, in breve da tutte le classi intelligenti ed operose che compongono la guardia nazionale!

Ora qual colpa è nei napoletani, se per tre mesi il nostro augusto e generoso alleato Napoleone III per un atto di suprema convenienza in circostanze dolorose, secondo la frase di quell’ottimo galantuomo che è il principe Napoleone Girolamo ( Discorso al Senato Francese nella seduta del 1 Marzo 1861.), per un sentimento di pietà copri col naviglio e la bandiera francese innanzi a Gaeta la propaganda riazionaria che gli agenti segreti del Borbone, monaci e preti, fomentarono nella Terra di Lavoro e nel Contado di Molise?

Qual peccato è nei napoletani, se la stessa pietà proteggendo i Borboni e l’indefinibile governo del Papa in Roma, lascia agli aperti nemici d’Italia ed occulti della Francia una illimitata libertà d’azione nell’ordir congiure a danno della libertà della indipendenza e dell’unità del nostro Stato? Nostro debito era, ed è di combatterli e disperderli, e questo facemmo e facciamo tuttora, e faremo sempre con fermezza coraggio e perseveranza finché da Roma ci verranno i Giorgi, i Chiavoni, i Cipriani, i Mircanti, i Bavaresi, i Belgi, e tutto il rifiuto delle galere e degli ergastoli di Europa.

Infine qual colpa è nei napoletani se il governo centrale ignorando le vere condizioni delle provincie meridionali e non prestando ascolto alle voci ed ai consigli degli uomini più autorevoli di questa parte d’Italia, commise parecchi errori che valsero ad accrescere i nostri mali? D’altronde, io non dirò che dopo una rivoluzione sia facile il governare un popolo qualunque; che la via da percorrere non debba presentare degli ostacoli risultanti dalle stesse conseguenze della rivoluzione; e che le difficoltà non crescano sotto la mano di un governo ordinato allorché succede ad un governo rivoluzionario. Queste difficoltà c’erano senza dubbio in Napoli e di diversa natura, nelle quali soffiavano i vescovi, una parte del clero regolare, i monaci, i soldati sbandati e gli uffiziali superiori del disciolto esercito Borbonico, taluni nobili fedeli servitori dell’espulsa dinastia, e gli impiegali destituiti. Ma nei mutamenti di antiche dinastie e governi, qual popolo non ha presentato sempre le stesse difficoltà, non ha avuto schierati in campo gli stessi nemici, non ha lottato con i partiti avversi o rivali?

La Francia compiva nel secolo passato una rivoluzione che sotto varie e diverse forme farà il giro del mondo, e con essa gettò le fondamenta della nuova civiltà europea. La Brettagna attaccata alle antiche credenze politiche alzò Io stendardo della guerra civile e pugnò da forsennata contro il novello ordine di cose, mentre alle frontiere, si addensava un formidabile esercito nemico. In tal guisa ella strappò Hoche e Pichegru dalle guerre di Sambra della Mosa e delle Fiandre, scemò la forza dei battaglioni nazionali che combattevano per la gloria della Francia e la libertà del mondo intiero, versò il sangue degli eroici figli della rivoluzione, perturbò la nazione tutta quanta. Ma la Brettagna fu vinta: dal legittimista marchese de la Rochejaquelein all’ultimo sciuano caddero tutti, perché i Brettoni non erano la Francia, ma un partito che si opponeva alla libertà e alla grandezza della Francia.

Fu questa eziandio la sorte dei difensori degli Stuardi in Inghilterra, dei Confederati del Reno in Germania, de’  Carlisti nelle Spagne, dei Miguelisti nel Portogallo, degli uomini del Sonderbund in Elvezia, e di tutti coloro che alle universali e nuove credenze opposero le vecchie e individuali. E nelle provincie del Piemonte stesso, quando formavano il Regno Sardo, che cosa non si ebbe a soffrire, quali ostacoli non si dovettero superare per raffermare il reggimento costituzionale? Insidie gesuitiche nella Corte, lotte nel Senato, cospirazioni nel Clero, atti di ribellione da parte dei Vescovi, opposizioni dei nobili, proteste dei monaci, e fin dimostrazioni sediziose contro il governo iniziatore di nuove leggi. Ci volle la virtù eroica, la fermezza, la lealtà, l’annegazione, l’amore all’Italia di Vittorio Emanuele, vero miracolo di Re, se Io Statuto Sardo fu preservato cosi dalle mene dei riazionarii, come dagli eccessi dei democratici di nuovo conio.

Ella, senza dubbio, ricorderà il proclama di Moncalieri, in cui la lealtà del futuro re d’Italia commosse tutta quanta la nazione oppressa dai luogotenenti dell’Austria; ricorderà le aperte lotte del Clero Subalpino contro le leggi Siccardi; ricorderà i cristalli

15 infranti alle finestre del Conte Cavour da un popolo furibondo e cieco; ricorderà infine i calunniosi e sciocchi versi ( Sono questi, se ben li ricordo.

Tu l’autor dei Fieramosca

Non è vero, non è vero;

Un’immagine assai fosca

Di quel Massimo sei tu.

Chi il Beai del Trocadero

Con le lodi porta in cielo,

No, di libero vangelo

Mai l’apostolo non fu. ) a Lei indirizzati nello stesso istante che si affaticava col buon re Vittorio a rinvenire i mezzi più efficaci e salutari per salvare lo Statuto Sardo, germe fecondo della futura costituzione italiana.

Ed in Piemonte, chiarissimo signore, non si mutava una dinastia, non si rovesciavano intieramente ordini antichi, non si spostavano ed offendevano interessi vistosi, non si mutavano d’un tratto i codici, le leggi di amministrazione, gli uffizii, i regolamenti e tutto un sistema di governo. Il Piemonte non aveva sulla frontiera un principe espulso inteso ad armare assassini, non il governo del Papa che purga gli Stati di Europa di tutt’i borsaiuoli e facinorosi che vi sono, per armarli e sguinzagliarli contro di noi. Il Piemonte infine non aveva sulla stessa frontiera un esercito francese che chiude gli occhi per non vedere tutto quello che si ordisce a nostro danno, anzi mostra di proteggere con la sua bandiera i nostri implacabili e feroci nemici.

Messe a riscontro le difficoltà che presentò il popolo Subalpino nel nuovo reggimento politico con quelle che oggi creano tra noi i masnadieri che c’inviano i Borboni e il Papa, bisogna conchiudere che le prime furon di gran lunga maggiori delle altre, e nondimeno furon superate e vinte.

E se oggidì le virtù patriottiche delle popolazioni Subalpine sono tali e tante da richiamare la più seria attenzione e l’ammirazione di tutta Italia, verrà tempo, egregio cavaliere, e non è lontano, che le popolazioni del napoletano si acquisteranno le simpatie, l’amore e l’ammirazione non solo della patria comune, ma di tutta Europa, perché formeranno la parte più viva, più ingegnosa, più forte e più generosa d’Italia.

Questo non è un augurio; ma coscienza di capacità, di vigoroso ingegno, e serena confidenza nell’avvenire; che non potrà entrare giammai in mente di coloro che senza carità di patria falsando il vero con manifesta ingiuria al buon senso, pigliano i briganti per i rappresentanti di un principio politico e del popolo napoletano.

La politica non è romanzo, non è poesia, non è arte, ella lo sa da maestro: i suoi veri stanno nell’ordine del possibile, subiscono la legge dei fatti, le condizioni della realtà. La politica è un risultamento d’idee, di forze e d’interessi; e la politica italiana comunque condotta da abili mani si svolge affannosa in mezzo all’urto delle idee, delle forze e degl’interessi di tutta Europa; donde scaturisce che ella è tenuta a farne il debito conto per non precipitare in imprudenze e falsi concetti. Per la qualcosa il vero patriota lungi dal creare imbarazzi al governo del proprio paese, ovvero all’azione progredente della Nazione, studia i mezzi come facilitare il compito e spianare la via all’uno e all’altra. Invece ella cammina per un sentiero opposto, e pare che provi un gran diletto nel creare ostacoli ali Unità Nazionale.

Io non sono uomo da dar consigli a chicchessia, e molto meno ad un Massimo d’Azeglio, ma giova ricordare che non sempre quello che forma pregio e virtù in un governo dispotico, come per esempio il coraggio di propugnare più o meno per un libero reggimento e per le proprie idee, sia tale anche in tempi in cui si forma una Nazione.

I politici che non sanno o non vogliono intendere questo sono doppiamente colpevoli, perché prepongono il trionfo della propria opinione al trionfo di una grande idea nazionale. So ben io che la libertà del pensiero e delle opinioni è uno dei fondamenti e delle più salutari guarentigie del reggimento costituzionale. So ben io che in Inghilterra maestra del governo parlamentare è dato ad ognuno di mostrare che ella è in decadenza, che la sua flotta non vale quella dell’Impero francese, che le Indie un giorno o l’altro saran perdute, che le Isole Ionie si emanciperanno dal suo protettorato, che l’Irlanda aspira a diventare indipendente. Ma so pure che niuno ardisce affermare che il governo inglese impera colla sola forza materiale nelle Indie, a Corfù e a Dublino, che nei popoli soggetti alla signoria britanna manca il concorso morale della maggiorità, e che bisogna interrogarli se vogliono o no restare uniti coll’Inghilterra.

Qual razza di nuovo diritto pubblico sarebbe mai quello che ad ogni querela e dirò pure malcontento di partito, permettesse a questo di convocare in pubblici comizii il popolo di una provincia per votare se vuole o no restare unito al rimanente della nazione?

Il vero politico, il grande carattere patriottico, l’uomo di genio non si lascia offuscare dalle facili gloriuzze del momento, dalle attrattive di un suo concetto, dall’egoismo, dalle magre vedute; egli invece è collocato a tale altezza che i volgari errori, le codarde passioni e l’egoismo non arrivano sino a lui,  né possono involargli lo splendore permanente della giustizia, del bene, della verità.

Quando una Nazione ripone ogni sua salvezza nei grandi caratteri che la rappresentano e che possono preservarla dagli aspri conflitti di forze rivali e repugnanti che spesso sogliono ingenerar partiti estremi; quando l’ingegno ha il sublime mandato di regolare anche la propria e l’altrui collera; quando è indispensabile che ogni cittadino comprenda che al di sopra dell’individuo, del governo, della rappresentanza, sta l’uomo collettivo, lo Stato, la Nazione, la Patria, vedere un uomo per natali, per ingegno, per servigi prestati al paese, e per autorità di nome, chiarissimo, propugnare per cose impossibili, ed affacciare idee che messe in atto rovinerebbero lo Stato e scioglierebbero l’Unità della Patria, è cosa non solo che addolora, ma non potendosi dubitare della sua onestà e del suo patriottismo, si è costretto quasi a temere ch’ei fosse infermo.

Io scrivo con profonda tristezza queste parole; ma non posso fare altrimenti quando una lettera di Massimo d’Azeglio come quella scritta al Matteucci è conforme nella sostanza alle circolari dell’ultimo re di Napoli espulso dalla volontà del popolo, e non di questo o quel partito, o da sognate tradigioni; quando la opinione d’un d’Azeglio ancorché erronea, ha un gran peso nella bilancia politica di Europa; e quando una sua scrittura può far tanto male all’Italia quanto non ne fanno i Bosco, i Chiavoni, i Giorgi e gli Antonelli.

Le provincie napolitane fin dal 1856 furono eccitate dagli agenti segreti di Murat a pronunziarsi per quel pretendente, il quale prometteva ai Napoletani l’alleanza francese e l’ausilio di Napoleone III. Le provincie Napoletane sotto il più esecrabile giogo dispotico, risposero che di stranieri non ne volean sapere, e dovendo fare una rivoluzione intendevano compierla nell’interesse della Nazionalità Italiana, e non già in quello di un pretendente forestiere. Le provincie Napoletane eccitate dal partito Mazziniano nel 1857 a fare un movimento repubblicano unitario, risposero che nell’interesse dell’Unità d’Italia aderivano al movimento, ma non già per fondare una repubblica, perché la repubblica guastava l’indirizzo politico del Piemonte inteso a cacciar lo straniero dall’Italia e compiere le sorti della Nazione.

L’eroe di Calatafimi era già in Napoli col nome di Dittatore, quando il principe Murat volendo pescare nel torbido indirizzò una famosa lettera a un Duca Napoletano, nella quale prometteva il ben di Dio ai regnicoli, se i regnicoli lo eleggevano a loro Sovrano. I Napoletani risposero a questi nuovi eccitamenti col grido: Viva Italia e Vittorio Emanuele. La flotta francese era dinanzi a Gaeta e indirettamente ostacolava le nostre operazioni d’assedio; gli agenti di Murat sparsero la voce nelle nostre provincie che Napoleone III osteggiando le nostre operazioni dava apertamente ad intendere che voleva Murat sul trono di Napoli. A queste segrete insinuazioni le provincie Napoletane risposero anche una volta col grido: Viva Italia e Vittorio Emanuele.

Questa costanza di propositi in tempo che le popolazioni eran libere di pronunziarsi per quel principe e quella forma di governo che loro meglio piaceva è la più schietta manifestazione di un concetto radicato nella coscienza universale, cioè di volere ad ogni costo l’Unità d’Italia sotto lo scettro di Vittorio Emanuele e suoi discendenti. Che ci entra dunque il dire bisogna vedere se i Napoletani vogliono o no i Piemontesi? Il Piemonte, chiarissimo signore, non è che una Provincia italiana, e come tale Napoli non può ributtarla, in quella guisa che Torino non può ributtar Napoli essendo ormai eguali al cospetto d’Italia le loro influenze, i loro dritti e i loro doveri.

Lasciamo al chiarissimo professor Matteucci la non invidiabile gloria di posar le quistioni, se le provincia napoletane sono sì o no del regno d’Italia, e se resteranno o no unite al resto della Penisola; lasciamo eziandio al medesimo illustre professore tutta la libertà di occuparsi assai più di imprudenti e inopportune questioni politiche, anziché di sperimenti fisici e meccanici; ma non possiamo permettere, egregio signor Massimo, ad un uomo come lei di sciogliere la questione napoletana in quel modo eh’ ella ba fatto. Le popolazioni di queste provincia ne non rimaste indignate, non fosse altro che per mettersi in dubbio il loro patriottismo nell’ora stessa che elle per patriottismo combattono le orde ferocissime che c’invia Roma; nell’ora medesima che le città e i paeselli resistono a tutti gli eccitamenti del principe decaduto; nell’ora medesima che il nuovo municipio napoletano eletto dal popolo indirizza le seguenti parole al Re d’Italia: Sire, Napoli città tra le prime in Europa per ampiezza, per copia di abitanti, favoreggiata meravigliosamente da Dio per positura e per facili traffichi, depose ancor essa volenterosa sull’altare della Patria le sue antiche memorie; ma sarà lieta di vedere nell’unità Nazionale svolgersi piena la sua vita municipale. Che se essa entrò più tardi nell’arringo politico comune, ci recò desiderio non meno ardente di libertà, una storia di martirii lungamente e nobilmente durati, e quel vigore di mente e di patrio affetto a cui la sventura educa le Nazioni.

É questa la migliore risposta alla sua lettera del 2 Agosto, ed è fatta con la data del 6 dello stesso mese. Napoli adunque per istringere più forti ligami colla Italia, per fondersi interamente direi quasi nella patria comune, depone volontariamente ai piedi d’Italia fin l’estreme reliquie della sua autonomia, e gareggiando con la Toscana in sentimento di abnegazione, mostra al mondo intero che non vi è sagrifizio ch’ella non faccia con animo lieto per la salute d’Italia.

Ma Napoli nello stesso tempo chiede che l’attività e la forza governativa sia eguale al sagrifizio ch’ella fa; Napoli chiede un governo forte e capace di assicurare la pace e il riposo d’Italia; di preservare la pubblica sicurezza la proprietà e la vita dei cittadini dalle insidie e dai delitti del governo del Papa; Napoli chiede che si vada a Roma al più presto possibile.

Quanto interesse ella abbia ad avere un governo che le assicuri tutte siffatte cose, ben Io provano gli applausi e le ovazioni delle popolazioni al generale Cialdini; il sincero appoggio che tutt’i partiti, tranne il Borbonico, prestarono all’azione governativa nel distruggere il brigantaggio, e l’unanime desiderio di voler Roma ad ogni costo siccome pegno di sicurezza di tranquillità di pace e di riposo per la nazione. Napoli non chiede altro che questo, e lascia il desiderio di nuovi plebisciti a coloro che pigliano i briganti per onorevoli legittimisti, e il brigantaggio per gloriosa missione di un partito politico.

Dopo ciò, i napoletani sperano che tanto Lei, quanto il signor Matteucci non farete più questioni inopportune e irritanti su i sentimenti patriottici degli abitatori delle provincie meridionali d’Italia. I Napoletani sanno assai bene che essi son necessarii all’Italia, in quella guisa che l’Italia sola può assicurar loro la libertà e l’indipendenza. Senza Napoli non vi è regno italiano, e senza regno italiano non vi è libertà per le provincie napoletane. La grandezza, la forza e la potenza di tutti i liberi italiani non possono scaturire che dalla sola Unità.

Napoli 16 Agosto 1861

https://www.eleaml.org/ne/stampa2s/1861-lettera-a-d-azeglio-carlo-de-cesare-deputato-2019.html

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